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Il secondo tragico Fantozzi – L’ultima zampata

Il secondo tragico Fantozzi (1976) è il sequel del film del 1975 dedicato al Ragioniere, sempre interpretato da Paolo Villaggio.

Di cosa parla Il secondo tragico Fantozzi?

Come nel primo film, Fantozzi è protagonista di numerose disavventure a tratti surreali, ma che lo tengono sempre fermo alla base della catena alimentare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il secondo tragico Fantozzi?

In generale, sì.

Il secondo capitolo della saga fantozziana brilla principalmente per la famosa sequenza della Corazzata Potëmkin, rimanendo per il resto ancorato ad una comicità slapstick a tratti quasi ridondante, pur con qualche guizzo di genialità.

Insomma, Il secondo tragico Fantozzi è per me il punto di arrivo della saga, proprio per la sensazione che già qui vada a perdersi la – pur non centrale – vena satirica che l’aveva reso per me così interessante, riuscendo per il resto ad intrigarmi davvero poco.

Fondo

Come da prassi, Fantozzi si trova ai margini.

In questo caso però la condizione da lacchè dei superiori è il punto di partenza per una disperata scalata sociale, che si concretizza nel grande colpo di fortuna di essere scelto come accompagnatore del conte Semenzara, con cui si instaura un racconto forse meno scontato di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto, Fantozzi – e, più in generale, la classe sociale che rappresenta – non può cominciare la propria scalata senza rinnegare quanto si è lasciato alle spalle, non potendo neanche presentare la sua vergognosa famiglia al borioso superiore, che la esclude immediatamente dalla scena.

E infine la sua fulminante carriera si riduce al diventare una marionetta alla mercé del capriccio dei potenti, così da scalare fin troppo celermente le vette dell’azienda, ma in una posizione di tale fragilità che basta un minimo passo falso per tornare alla condizione iniziale – se non peggio.

Un racconto quindi, seppur molto ironico, di un ascensore sociale bloccato, in cui le prospettive di crescita vengono promesse alla classe media, ma la stessa si trova infine bloccata in una condizione da cui non può evadere, in quanto il successo non è nelle mani di che se lo merita, ma di chi l’ha ereditato.

E ben lo dimostra la vicenda successiva.

Occasione

Ogni occasione che Fantozzi ha per brillare diventa invece ulteriore momento per ribadire la sua inadeguatezza.

Al di là della comicità molto spicciola di tutta la dinamica della Contessa Serbelloni, la stessa cela un’amarezza di fondo nell’osservare due personaggi così fuori posto come Felini e, soprattutto, come Fantozzi che si fanno largo in un panorama in cui non hanno i mezzi per emergere.

Anzi, sono loro stessi a farne le spese, come ben dimostra tutta la dinamica delle prostitute, con cui infine i due riescono, dopo molti tentativi, ad intrattenersi – una vittoria molto magra, in quanto le peggiori sul mercato – e finendo comunque per addossarsi tutti i costi.

Non dissimile dalla dinamica del Conte Semenzara è la fuga d’amore con la Signorina Silvani: pensando di approfittarsi dell’ira della donna davanti al tradimento del marito, Fantozzi si mette totalmente al suo servizio, sperando infine di poterla conquistare.

La dinamica in scena è di fatto la già nota comicità slapstick, ma nasconde un’amarezza di fondo mai veramente risolta, in cui il protagonista si ritrova infine ad origliare i velenosi commenti della Signorina Silvani con il marito, in cui indirettamente ribadisce che il suo riscatto sociale è davvero impossibile.

E infatti anche quando ci si prova…

Ribellione

La sequenza della Corazzata Potëmkin è brillante quanto dissacrante.

Per comprendere l’ironia amara della scena, è bene ricordare che il mediometraggio in questione altro non era che uno strumento di propaganda, in cui si raccontavano le eroiche gesta del popolo che, dopo secoli di sottomissione agli zar, dava infine avvio alla Rivoluzione Comunista.

Per questo il paradosso è così piccato: un film che comunque dovrebbe parlare del riscatto del proletariato, diventa vezzo per la borghesia, rappresentata dal Professor Guidobaldo, che obbliga i suoi sottoposti ad una visione che, nonostante non siano in grado di comprendere, diventa paradossalmente il motivo della loro rivolta.

E, in questo senso, la dinamica in scena ha due significati.

Da una parte denunciare, seppur simpaticamente, i limitati orizzonti culturali della nuova classe media, che passa da un’opera comunque di grande valore artistico alle peggiori commedie erotiche con cui torturano il proprio oppressore.

Infatti la vera amarezza della scena è constatare che il ruolo da capopolo di Fantozzi non sia altro che un fuoco di paglia, tanto che gli basta poco per tornare ad essere – come d’altronde nel finale del primo film – un vezzo per l’alta borghesia che ne fa uso a suo piacimento…

…perdendo infine persino la sua forma umana per diventare prima un branzino e, infine, un umile parafulmine.

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Fantozzi – La nuova classe media

Fantozzi (1975) diretto da Luciano Salce e interpretato da Paolo Villaggio, è uno dei film più iconici della filmografia nostrana.

A fronte di un budget sconosciuto, è stato considerato un grande successo commerciale: 21 milioni di euro.

Di cosa parla Fantozzi?

Ugo Fantozzi lavora come ragioniere nella terribile Megaditta e deve farsi largo in un mondo di ricchi e potenti che lo spingono costantemente ai margini.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fantozzi?

Sì, ma…

Per quanto nella sua essenza Fantozzi sia di fatto una satira sociale piuttosto crudele e grottesca, forse rendersi più appetibile al pubblico, spesso stempera questa tendenza con non pochi momenti di comicità slapstick e facilona che oggi potrebbe risultare un po’ datata.

Tuttavia, anche nei momenti più strettamente comici, è possibile intravedere una tematica di fondo – poi esasperata nei capitoli seguenti – di una classe media che non riesce a smarcarsi dalla sua posizione, nonostante i continui e impacciati tentativi.

Insomma, un pezzo di storia di cinema che in ogni caso vale una visione.

Assorbito

Tre sono di fatto i momenti fondamentali di Fantozzi.

Fin dal suo incipit, il capostipite della saga di Villaggio racconta perfettamente il suo protagonista, introdotto dalle tremanti richieste della moglie di ritrovarlo dopo una scomparsa di diciotto giorni, a cui segue la scena di un’ironia sublimemente grottesca del segugio degli impiegati.

E questa prima apparizione da uomo murato all’interno della propria azienda è rivelatoria della sua condizione: Fantozzi, come d’altronde tutta la classe sociale che rappresenta, è assorbito all’interno del suo lavoro, tanto da definirsi con lo stesso…

…nonostante la sua azienda faccia presto a dimenticarsi di lui.

Ed è proprio attraverso questo paradosso che si articola l’esistenza del protagonista, intrappolato in un lavoro in cui è unicamente vessato, ma di cui non può fare a meno per la sopravvivenza sua e della propria famiglia, risultando così incapace di muovere la minima rivendicazione.

Per questo la sveglia di Fantozzi è ancora più rivelatoria.

Spazio

Fantozzi non ha spazio per sé stesso.

Per quanto cerchi in più momenti di evadere la propria condizione, non vediamo mai il ragioniere veramente slegato dal suo lavoro, tanto che persino i weekend sono in un certo modo lavorativi, in quanto viene costantemente incastrato nelle stramberie dell’Ingegner Filini.

Ma ogni momento è buono per riacquistare anche solo un minimo di libertà.

Così la sveglia di Fantozzi, nella sua ironia feroce, è in realtà rappresentazione di due tendenze: da una parte, il suo fallimentare tentativo di definire uno spazio di indipendenza, scegliendo di non sottostare alle tempistiche richieste dall’azienda, ma di crearne di proprie, pur tormentato dall’angoscia del cartellino.

D’altra parte, la sveglia di Fantozzi è un disperato sforzo di avere controllo su una vita che ormai non è più sua, inciampando passo dopo passo in continui e inevitabili ostacoli, per cui basta il minimo imprevisto per alimentare una catastrofica valanga di insuccessi.

E ogni tentativo di ribellione è inutile.

Divinità

Nonostante il suo totale servilismo, Fantozzi non è totalmente imbelle.

La possibilità di riscatto gli viene concessa da un inaspettato incontro con l’attivismo politico nella sua forma più estrema – il comunismo – che lo porta prima ad evadere i codici estetici dell’azienda – presentandosi con i capelli fino al collo e con una sciarpa rossa piuttosto rivelatoria…

…e, infine, compiendo l’atto di massimo sdegno: rivoltarsi violentemente contro il padrone.

Ma la risposta alla sua ribellione non è quella che si aspettava – e, per questo, è ancora più pungente: per essere riportato all’ordine, Fantozzi è condotto davanti al Mega Direttore Galattico, una figura al limite del leggendario, immersa in un ambiente che ne definisce la sacralità.

Piuttosto dissacrante infatti l’arredamento dell’ufficio, che ricalca quello di una chiesa, anzi di una chiesa povera dove servono solo due sedie: quella principale, che Sua Santità cede temporaneamente a Fantozzi, e l’inginocchiatoio, verso il quale il protagonista viene inevitabilmente spinto…

…con una dinamica che già da sola è incredibilmente esplicativa.

Fantozzi Megadirettore

Infatti tutto il discorso del Mega Direttore è incentrato non sulla punizione, ma piuttosto su una riscrittura della storia a proprio favore, prendendo le parole della ribellione di Fantozzi e sostituendole con una versione più accettabile.

E infine, davanti alla richiesta di come affrontare la situazione, il personaggio riprende il suo posto, e articola un progetto ideale – quanto di impossibile realizzazione – di pacificazione fra le classi sociali, del tutto omettendo l‘importante fattore della disparità di potere fra le stesse, ma riuscendo così a sottomettere nuovamente Fantozzi….

…che anzi chiede il permesso, ancora una volta, di essere premiato, diventando così ancora di più un oggetto d’arredamento per la sua stessa azienda.

E poi c’è tutto il resto.

Debole

Fantozzi non è di per sé una commedia malvagia…

…ma la tendenza a riproporsi come commedia all’italiana, rischiando di perdere la sua vena dissacrante, finisce per indebolire la narrazione.

Di fatto, Fantozzi è la tragedia di un emarginato a cui non gliene va bene una, un eroe comico in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e le cui sfortune possono essere di facile intrattenimento, nonostante il sotto senso satirico rimanga – anche se più debolmente.

Purtroppo però, qui – e, soprattutto, nel successivo Il Secondo Tragico Fantozzi (1976) – ad eccezione delle situazioni di cui sopra, le situazioni messe in scena spesso non portano ad un’effettiva riflessione, ma risultano molto fine a sé stesse…

…rischiando così di far perdere Fantozzi nel marasma della commedia nostrana ben meno brillante. 

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Dramma familiare Drammatico Film Surreale

The Father – La mente a pezzi

The Father (2020) di Florian Zeller è un dramma familiare con protagonista Anthony Hopkins.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 6 milioni di dollari – anche grazie alla vittoria del suo attore protagonista agli Oscar 2021 – è stato un ottimo successo commerciale: 24 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Father?

Anthony è un anziano signore piuttosto strambo e sopra le righe, che sembra riuscire a vivere serenamente da solo. Sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Father?

Anthony Hopkins e Olivia Coleman in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Assolutamente sì.

La visione di The Father vale anche solo per la straordinaria performance di Anthony Hopkins, che riesce magistralmente a spaziare fra una grande varietà di toni e di tagli interpretativi, rendendo il suo personaggio incredibilmente tridimensionale e vicino allo spettatore.

Oltre a questo, la pellicola è una rappresentazione sostanzialmente perfetta del punto di vista di un paziente malato di Alzheimer, intrappolato in un incubo surreale senza via d’uscita, in cui le scene sembrano ripetersi sempre uguali, ma con facce diverse e sconosciute…

Insomma, da non perdere.

Tempo

Anthony Hopkins in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Inizialmente, Anthony sembra un personaggio assolutamente nella norma.

Le sue stramberie riguardo al presunto furto del suo prezioso orologio da parte della badante appaiono come i più classici, quanto innocui, deliri di un anziano che detesta avere sconosciuti nei suoi spazi personali – e la crisi sembra immediatamente risolta con il ritrovamento del maltolto.

E invece l’orologio è un simbolo incredibilmente significativo.

Anthony è costantemente alla ricerca del suo orologio, disperato quando non lo trova e sicuro che qualcuno glielo abbia sottratto, proprio a rappresentare la sua costante angoscia di non avere più il controllo sulla propria vita, sul proprio tempo…

…e che lo stesso gli sia stato sottratto da misteriose figure che si intrufolano all’interno del suo prezioso appartamento, rappresentazione della sua stessa, labirintica mente, in cui avvicendano diversi personaggi e facce, senza che riesca sempre a riconoscerli.

Ma, di fatto, i protagonisti della scena sono due.

Intruso

Il personaggio di Paul è quello forse più inafferrabile.

Scopriamo solo alla fine che la sua figura è contaminata dalla faccia dell’infermiere, che si va a sovrapporre al volto del vero marito di Anne, che assume sostanzialmente il ruolo di antagonista della vicenda, il colpevole dell’abbandono della casa, e della conseguente reclusione all’interno della casa di cura.

Anthony Hopkins in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Infatti fin da subito Paul è un intruso, che si trova nel bel mezzo della casa del protagonista senza che questo sappia neanche chi sia, e la sua presenza diventa sempre più ingombrante quando esplica i suoi veri pensieri riguardo alla salute precaria di Anthony.

Ma la realtà di questi episodi non è mai realmente chiara: verrebbe da pensare che l’unica scena veramente accaduta è il bisticcio a cena, e che i successivi maltrattamenti – fino all’effettiva aggressione fisica – siano una proiezione delle paure del protagonista, che si vede sbattere in faccia una verità che non può accettare.

Ovvero, non avere più il controllo sulla propria vita.

Abbandono

Anthony Hopkins e Olivia Coleman in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

La figura della figlia – anzi, delle figlie – è legata alla paura dell’abbandono.

Tutta la vicenda sembra infatti svolgersi nel giro di una giornata, i cui contorni temporali sono sempre più confusi, ma il cui obbiettivo è chiaro: Anthony deve riuscire a superare la prova definitiva che gli permetta di essere ancora padrone della propria casa e della propria famiglia…

…ma la stessa è resa ancora più complessa dall’aspetto – probabilmente fittizio – della sua nuova badante, che così tanto assomiglia alla figlia scomparsa, che il protagonista continua a richiamare come ancora di salvezza davanti all’inevitabile abbandono della figlia maggiore.

Anthony Hopkins nel finale di The Father (2020) di Florian Zeller

Si articola così un climax piuttosto angosciante, in cui la Anne deve infine accettare l’idea di dover proseguire con la propria esistenza senza il padre, che infine si ritrova rinchiuso all’interno di una stanza che non conosce, popolata da volti che non riesce a collocare…

…riconoscendo infine l’abbandono della figlia, di essere lasciato solo in balia della sua mente e dei suoi ricordi contraddittori, finendo infine per recedere alla fase fetale, richiamando una impossibile figura materna che ha ricercato – quanto rinnegato – più e più volte…

…e che ora può solo concretizzarsi solo nella figura dell’infermiera.

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Emilia Pérez – La bizzarra seconda occasione

Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard è un musical con protagoniste Zoe Saldana e Karla Sofía Gascón.

A fronte di un budget discreto – 21 milioni di euro – è stato un pesante insuccesso commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Candidature Oscar 2025 per Emilia Pérez (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior film internazionale
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Karla Sofía Gascón
Migliore attrice non protagonista per Zoe Saldana
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore canzone originale
Miglior trucco e acconciatura
Migliore sonoro

Di cosa parla Emilia Pérez?

Rita è un’avvocata praticante sistematicamente sfruttata dal suo studio legale. Ma un’occasione di riscatto è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Emilia Pérez?

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

In generale, sì.

Emilia Pérez è stato, fra le altre cose, ampiamente discusso per il taglio narrativo, che presenta non pochi inserti musicali piuttosto bizzarri, che rendono la narrazione al limite del fantastico, del teatrale, pur raccontando tutto sommato una storia molto semplice.

Infatti, se riuscirete a digerire la particolarità del lato musical, potreste arrivare ad apprezzare una pellicola che infine non è altro che un dramma piuttosto toccante sulla seconda occasione di personaggio insospettabile: un boss di un cartello della droga messicano.

Insomma, dategli una chance.

Spaesamento

Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Personalmente, ho mal digerito l’elemento musicale di Emilia Pérez.

Ma forse è proprio questo il punto.

Fin dalle sue primissime battute la pellicola gioca su questo peculiare contrasto fra un racconto piuttosto amaro e angosciante, che esplode improvvisamente in numeri musicali più propri forse del teatro che del cinema, soprattutto per le sue coreografie decisamente bizzarre.

Selena Gomez in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

L’elemento musicale è inoltre uno strumento fondamentale per definire la protagonista, che ci appare in prima battuta come una spietata boss del crimine, ma che nel cantato esprime i suoi più intimi sentimenti di cambiamento, di cui la transizione è solo il primo passo.

E proprio qui si sviluppa il discorso cardine della pellicola.

Rinascita

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia vuole rinascere.

La nuova vita che la protagonista regala a Rita è solamente il primo passo della sua sistematica ridefinizione del sé, che la porta a ripercorrere le strade già battute della scena criminale messicana, ma in una veste del tutto nuova: non più aguzzina, ma salvatrice di un popolo di oppressi.

E la protagonista vuole raccontarsi in questa nuova identità anche nei confronti della famiglia che ha di fatto abbandonato, ma con cui cerca di ricongiungersi proprio nella sua immagine di salvatrice di un nucleo affettivo profondamente colpito dall’abbandono del padre.

Un tentativo di riappacificazione piuttosto disordinato e disattento, in cui Emilia sembra incapace di mantenere intatta questa nuova identità, dimostrandosi cambiata di aspetto ma non di atteggiamento, continuando a comportarsi con i suoi figli e, soprattutto, con la moglie, come se nulla fosse successo.

Infatti, il suo linguaggio è rivelatorio.

Passato

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia può davvero rinascere?

Nonostante i buoni sentimenti del suo progetto, la protagonista ricade ripetutamente in comportamenti che l’avevano definita nel passato, con il linguaggio della violenza domina costantemente la scena, persino in opere di bene come il salvataggio della vedova…

Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Un comportamento che si riflette in grande nella scelta dei benefattori per la sua causa umanitaria, in piccolo nel rapporto con la sua famiglia, da cui si rifiuta di separarsi, vivendo il nuovo matrimonio della moglie – e la sua personale rinascita – come un profondo ed imperdonabile tradimento.

Ma violenza è da entrambe le parti.

La stessa Jessi è cresciuta in un contesto in cui la violenza è la moneta di scambio, rispondendo colpo su colpo ai beceri tentativi di Emilia di limitare la sua libertà, la sua autodeterminazione, in un disordinato ultimo atto che porta tutti i protagonisti all’inevitabile autodistruzione.

E la chiusura della pellicola è assolutamente emblematica nel suo essere volutamente grottesca mentre mostra Emilia Pérez definitivamente consacrata nel suo ruolo di salvatrice, con tratti volutamente cristologici, raccontando come un cambiamento, tutto sommato, sia effettivamente avvenuto.

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The Tragedy of Macbeth – La consapevole fedeltà

The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen, dopo l’ultimo film in compagnia con il fratello.

Il film è stato distribuito limitatamente in poche sale prima di approdare in streaming su Apple TV Plus.

Di cosa parla The Tragedy of Macbeth?

L’opera di Joel Coen riprende passo passo l’opera shakespeariana, pur con qualche cambiamento per renderla appetibile al medium.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Tragedy of Macbeth?

Assolutamente sì.

Per quanto non sia un film di facile fruizione, The Tragedy of Macbeth è un’opera sublime sia dal punto di vista registico sia di trasposizione, che, pur tenendo fede al testo shakespeariano sostanzialmente alla lettera, non manca di qualche cambiamento piuttosto indovinato.

In questo senso raramente ho visto un’opera cinematografica che riesce a rendere così propria un testo tanto complesso, riuscendo a muoversi con agilità con una regia disegnata intorno alla storia e un adattamento consapevole e così riuscito.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Fedeltà

Denzel Washington e Bertie Carvel in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

The Tragedy of Macbeth viaggia in due direzioni.

Da una parte, prendere l’opera shakespeariana e riportarne fedelmente le parole in scena, non volendo in alcun modo semplificare l’inglese poetico e arcaico, ricco di similitudini e metafore piuttosto ardite e non sempre immediate.

Dimostrazione che la prima opera da solista di Joel Coen è anche quella con cui potrebbe chiudere la sua carriera, tanta è la lucidità con cui è riuscito a portare in scena probabilmente il miglior Macbeth cinematografica del nuovo millennio.

Bertie Carvel in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Altrettanto suggestiva nel ricreare le atmosfere shakespeariane sono le scenografie, che fanno sembrare il film più un’opera teatrale che cinematografica, definita dai suoi spazi geometricamente perfetti, tagliati dalle lunghe ombre – fisiche e morali – che infestano gli spazi.

Ma, nondimeno, il regista si è preso le sue libertà.

Interpreti

Denzel Washington in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Un altro elemento che rende The Tragedy of Macbeth più teatrale che cinematografica è la scelta degli interpreti.

Nel teatro è molto comune scegliere interpreti che non rispecchino per forza la fisionomia dei personaggi che portano in scena – quindi, includendo anche attori di etnie diverse da quelle canoniche – ma dare più che altro spazio alle capacità attoriali del singolo.

Denzel Washington e Frances McDormand in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Proprio secondo questa idea, Joel Coen si è affidato alla bravura di un attore afroamericano, Danzel Washington, che è stato capace di portare in scena un climax caratteriale che parte da un Macbeth pensieroso prima dell’omicidio fino al turbato tiranno dell’ultimo atto.

E vi è un’intenzione precisa di includere attori anche più avanti con gli anni nella scelta della strepitosa Francis McDornan, che è riuscita a caricare della giusta drammaticità una delle figure più sanguinarie della letteratura europea, senza mai eccedere come altre prima di lei.

Ma non è l’unica differenza.

Adattare

Kathryn Hunter in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Nonostante The Tragedy of Macbeth sia volutamente fedele all’opera originale, non manca di prendersi qualche libertà.

La più significativa è sicuramente le figure delle streghe, riunite in un unico personaggio che in vari modi si triplica – affiancata da altre figure dal volto sconosciuto, specchiandosi nell’acqua, o semplicemente dialogando con figure fuori scena.

Una parte così complessa affidata ad un’attrice che sembra nata per il ruolo, capace di portare in scena un personaggio al limite dell’umano, grottesco e incomprensibile, caricato di una particolare espressività che la rende sempre più enigmatica.

Denzel Washington in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Altrettanto interessanti sono due momenti cardine dell’opera.

Anzitutto, l’arrivo del fantasma di Banquo, che nell’opera teatrale – anche per convenienza scenica – semplicemente si sedeva al posto di Macbeth al banchetto, mentre qui è un uccellaccio che il protagonista insegue convinto di vederci il suo vecchio amico.

Sempre seguendo la linea del sogno – e del delirio – Macbeth rincontra le streghe non davanti ad un calderone, ma in una stanza del palazzo che si riempie d’acqua, illudendolo con nuove profezie ed apparizioni.

Due scelte che raccontano molto bene la consapevolezza registica di non rimanere troppo vicino all’opera di partenza.

Ma c’è dell’altro.

Presagio

Alex Hassell in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Una delle scelte più peculiari dell’opera di Joel Coen è la figura di Ross.

Come nell’opera shakespeariana era un personaggio contorno, non più che un messaggero, nel film appare come un sottile macchinatore, che intriga alle spalle di tutti, persino dello stesso Macbeth, diventando persino il misterioso terzo assassino di Banquo.

Una scelta che caricare di un significato del tutto differente il finale: per Shakespeare la tragedia di Macbeth era una dolorosa parentesi a fronte di un futuro più felice sotto la dinastia discendente da Banquo – quella degli Stuart, al potere al tempo della pubblicazione dell’opera.

Al contrario, il fatto che Ross nasconda Fleance, il figlio di Banquo, per poi portarlo con sé verso orizzonti sconosciuti non rende il finale rassicurante, ma bensì inquietante, come andando a suggerire che un ulteriore inganno sta venendo tessuto nell’ombra…

…e un nuovo Macbeth potrebbe affacciarsi in futuro nella scena di Scozia.

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Gremlins 2 – Il punto di non ritorno

Gremlins 2 (1990) di Joe Dante, noto anche come Gremlins 2 – La nuova stirpe, è il sequel dell’omonimo cult degli Anni Ottanta.

A fronte di un budget piuttosto ambizioso – 50 milioni di dollari – fu un disastro commerciale, non riuscendo né a coprire i costi di produzione, né ad avvicinarsi all’incasso del primo.

Di cosa parla Gremlins 2?

Pochi anni dopo il primo film, Billy lavora per un’intraprendente multinazionale che, per vie traverse, viene in possesso di Gizmo. E la minaccia dei Gremlins è ancora più pressante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins 2?

Assolutamente sì.

Per quanto mi renda conto che questo secondo capitolo possa non essere nelle corde di tutti, al contempo è secondo me una visione irrinunciabile per godere di un Joe Dante in forma smagliante, che gioca con la sua creatura in maniera sempre più fantasiosa e improbabile.

Insomma, Gremlins 2 è stato, nel bene e nel male, un apripista per il più classico sequel Anni Novanta, che prende gli elementi del primo film e li esaspera all’inverosimile, in questo caso risultando però, nella sua follia, incredibilmente brillante.

Spaccato

Come per il primo film, anche in Gremlins 2 è presente l’elemento politico.

Di fatto la cornice della storia principale – ricordiamolo, dal taglio fantascientifico, quasi fantastico – è crudelmente reale, quasi satirica, ed inquadra perfettamente la grande corsa al capitale degli Stati Uniti degli Anni Ottanta e Novanta…

…in cui ogni dipendente, ogni ingranaggio deve sottostare precisamente allo schema aziendale, in cui ogni tipo di individualismo è immediatamente soppresso, ogni tentativo, anche il più innocuo, di non seguire il regolamento, è severamente punito.

E questo grottesco quadretto è chiuso proprio l’annuncio che segue il licenziamento del dipendente ribelle:

We have a career opportunity on level seven!

Opportunità di carriera al piano sette!

Casualità

Il film sa di dover ricreare il dramma del primo…

…ma deve essere quantomeno credibile.

In questo senso funziona bene la sequenza di eventi che conduce al rincontro fra Gizmo e Billy, e il motivo per cui il protagonista non può immediatamente portarlo con sé, mentre meno convincente è il modo in cui il mogwai finisce per bagnarsi.

Fra l’altro è piuttosto curioso come Gizmo venga relegato per gran parte del tempo fuori scena, limitato nel suo simpatico arco evolutivo sulle orme del suo eroe cinematografico – Rambo – venendo quasi subito messo ai margini dagli altri Gremlins e quasi dimenticato da Billy.

Infatti il vero protagonista della scena è la diversità.

Diversi

Joe Dante con Gremlins 2 vuole stupire lo spettatore – e sé stesso.

Per questo crea terreno fertile per sperimentazioni sempre più incredibili – il laboratorio – dove i suoi personaggi non sono semplicemente delle simpatiche varianti di Gizmo, ma bensì degli esperimenti mal riusciti via via sempre più assurdi.

Così vediamo il Gremlins a cui cresce la verdura addosso, quello che diventa un ragno, un femme fatale, un conduttore radiofonico, un pipistrello e via dicendo, tutti accomunati da una totale imprevedibilità e malvagità innata.

E, proprio perché in questo frangente il regista non ha più bisogno di far credere allo spettatore che i Gremlins nati da Gizmo siano uguali a lui, li distingue fin da subito con dei ghigni distorti e caratteristici al limite del grottesco.

Ed è proprio qui il punto di non ritorno.

Fine?

Gremlins 3 non può esistere.

Al di là dell’insuccesso economico che ha chiuso le porte ad un possibile continuo, Joe Dante è arrivato con Gremlins 2 a toccare degli apici creativi che lo pongono in una posizione di precario equilibrio fra il genio e il trash…

…e, con un terzo film, probabilmente sarebbe crollato in un insostenibile camp.

Perché, obbiettivamente, come si potrebbe superare in eleganza la scena metanarrativa in cui i Gremlins prendono possesso della pellicola bucando lo schermo, per poi essere rimessi al loro posto da niente poco di meno che Hulk Hogan…

…oltre alle diverse prese in giro che Joe Dante fa a sé stesso e al precedente film, accolto da entusiasmo ma anche feroci critiche da parte di genitori totalmente sconvolti dalla tremenda violenza in un film popolare anche fra i più piccoli?

Forse, per una volta, il flop commerciale è stato una fortuna…

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Inland Empire – Liberarsi dell’ego

Inland Empire (2006) è (finora) l’ultimo film della prospera ed enigmatica carriera di David Lynch.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 3 milioni di dollari – è stato, come prevedibile, un importante insuccesso commerciale, riuscendo appena a coprire le spese di produzione.

Di cosa parla Inland Empire?

Nikki Grace sta per cominciare la produzione cinematografica che sempre sognava, ma che sembra fin troppo simile alla sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inland Empire?

Laura Dern in una scena di Inland Empire (2006) di David Lynch

Assolutamente sì.

Inland Empire rappresenta un punto di arrivo fondamentale per la carriera di Lynch, del tutto estraneo – come la sua protagonista – ad ogni costrizione produttiva – e di trama – libero di poter girare il più complesso e incomprensibile film della sua produzione.

Ne consegue un’opera profondamente introspettiva, in cui è sostanzialmente inutile cercare un briciolo di trama, ma ben più importante è comprendere la linea tematica in scena, e solo da lì, provare ad ipotizzare un’interpretazione.

Domani

Grace Zabriskie in una scena di Inland Empire (2006) di David Lynch

La cornice narrativa di Inland Empire è inaspettata.

E quasi immediatamente si introduce uno dei temi preferiti di Lynch: il doppio, che scopriremo poco dopo incarnato dalla stessa protagonista, che comincia a sdoppiarsi fin dalla prima lettura del copione, quando una figura misteriosa – lei stessa dal futuro – si intrufola nel dietro le quinte.

Attendendo un po’ disillusa la notizia sulla sua prossima parte, Nikki viene stregata dalla sua misteriosa vicina, che apre una finestra verso il giorno successivo, in cui l’ottenimento del tanto agognato ruolo è solo l’inizio di un viaggio introspettivo molto ben più profondo e doloroso.

Laura Dern in una scena di Inland Empire (2006) di David Lynch

Protetta ancora dalla sua illusione, Nikki comincia ad approcciarsi alla parte con sincera curiosità, cominciando gradualmente a riconoscersi nella sua protagonista, le cui reali vicende vengono alternate alle disperazioni della stessa Sue.

Ed è qui che le figure delle prostitute diventano così essenziali.

Libera

Laura Dern in una scena di Inland Empire (2006) di David Lynch

La libertà interiore e, soprattutto, la libertà femminile non è cosa nuova per Lynch.

Il cineasta statunitense nel corso della sua carriera si è sempre più concentrato su enigmatiche figure femminili assoggettate sessualmente, ma che si riappropriavano della loro identità proprio tramite il sesso – specificatamente Dorothy in Velluto Blu (1986).

In questo caso la figura della prostituta, che potrebbe molto banalmente essere considerata come l’ultimo gradino della degradazione femminile, è in realtà più volte racconto di ribellione e di libertà, di utilizzo del proprio corpo per riappropriarsi del potere che le figure maschili le hanno tolto.

Insomma, queste donne così disinibite nella loro sessualità disordinata, sono in realtà il punto di arrivo per Nikki/Sue, intrappolata in diversi modi all’interno di relazioni che hanno come ultimo obbiettivo la degradazione e il controllo della sua figura.

Così, anche se Nikki non è fisicamente bloccata all’interno di una stanza come Sue, in realtà ritorna costantemente nella stessa, non riuscendo a comunicare con l’esterno ma rimanendo isolata dal mondo – specificatamente nella prima scena in cui si intrufola nel set dove l’altra sé stava facendo il provino.

E il controllo non è solo fisico, ma soprattutto mentale: l’elemento della maledizione, ridotto a termini più terreni, è simbolo del totale controllo psicologico del maschile sul femminile, che ha il suo apice drammatico con il suo essere infine pugnalata con un cacciavite per volontà del Fantasma…

…figura per sua natura evanescente, ma costantemente presente in scena. 

Indifferenza

Il vero nemico delle protagoniste è l’indifferenza.

Nonostante il turbamento di Nikki/Sue e la sua relazione violenta siano sotto gli occhi di tutti, nonostante ci siano tracce evidenti sul suo viso, le stesse vengono trattate con totale indifferenza, in particolare nelle diverse scene in cui la protagonista cerca di raccontare il suo dramma al suo silenzioso ascoltatore.

E ancora di più l’indifferenza è insostenibile quando infine Nikki dovrebbe uscire dal suo personaggio, ma è così sconvolta da non essere evidentemente più se stessa, ma viene lasciata da sola a sconfiggere il suo dramma, a sconfiggere il suo Fantasma.

Laura Dern in una scena di Inland Empire (2006) di David Lynch

E così l’orribile deformazione a cui Nikki si trova davanti è solo l’ultimo atto di apparizione della vera natura del Fantasma – che solo lei sembra vedere – riuscendo infine ad annientarlo con la pistola dei conigli/polacchi – forse rappresentazione di un’interiorità battagliera che emerge a tratti nella protagonista.

Potendo così infine riabbracciare il suo sé, finalmente se ne libera, prospettando un futuro più luminoso per entrambe le donne, ormai libere dai loro persecutori, ben rappresentato dal lungo ballo finale delle prostitute, che rimarcano ancora una volta la loro felice libertà sessuale e mentale. 

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Mulholland Drive – La storia sparsa

Mulholland Drive (2001) è da molti considerato il capolavoro di David Lynch – ed è anche il penultimo della sua produzione dopo la lunga pausa tutt’ora in corso.

A fronte di un budget come sempre molto piccolo – appena 15 milioni di dollari – nonostante sia stato un pesante insuccesso commerciale – 20 milioni in tutto il mondo – nel tempo è diventato un incredibile cult cinematografico.

Di cosa parla Mulholland Drive?

Betty è un’aspirante attrice piena di sogni, che un giorno si trova in casa una sconosciuta. Ma forse non è tutto così lineare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mulholland Drive?

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Assolutamente sì.

Mulholland Drive è indubbiamente uno dei film più incredibili della già inarrivabile filmografia di Lynch, distinguendosi per un racconto onirico ed enigmatico sottile quanto complessivamente comprensibile nei suoi contorni…

…ma ancora più sfocato nei particolari, nei piccoli elementi che continuamente sfuggono, in una storia che è sparsa in scena fra personaggi che sembrano non avere collegamento fra loro – e forse non ce l’hanno effettivamente.

Incontro

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Rita è in difficoltà.

E deve esserlo.

Fin dalle prime battute della sua fantasia Diane riscrive la sua vita, la sua eterna frustrazione in un’ottica nuova : non più una sosta improvvisa per una sorpresa per nulla piacevole, non una crudele illusione che la vera Camilla ha orchestrato ai suoi danni…

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

…ma bensì un effettivo incidente, un inganno da cui Rita si è salvata per un pelo, andando a rifugiarsi proprio nelle braccia di Betty, figura riscritta al limite dell’inquietante, come testimoniamo i sorrisi tirati dei due vecchi che fungono da introduzione del personaggio.

Ed è un inganno ben consegnato…

Bontà

Naomi Watts e Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Betty è un personaggio anche troppo positivo.

Ogni elemento della sua figura, a partire dai colori morbidi e pastello, fino alla dolce curva del suo caschetto, raccontano una ragazza amabile, che non ha remore ad accettare di mettersi in pericolo pur di difendere la sua nuova amica.

Ancora di più, la protagonista è un’interprete straordinaria, come ben dimostra la scena della sua audizione, in cui incanta tutti con le sue doti fuori dal comune, ma che non può essere scelta per il ruolo solamente per un inganno ai suoi danni.

Così Diane crea un universo sotterraneo di potenti e infidi macchinatori, di disgustosi personaggi che, per motivi incomprensibili, impongono la scelta di un’attrice che il regista, Adam Kesher, nonostante le sue proteste, è costretto ad accettare.

Eppure questo non impedisce al suo personaggio di notare con interesse Betty, quasi come fosse destinata ad essere scelta…

Ricerca

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Rita deve ritrovare la sua identità.

Cercando con difficoltà di definirsi tramite gli elementi che la circondano – fra cui il poster da cui prende il nome – si muove continuamente a tentoni per prendersi uno spazio in un mondo dove davvero Betty sembra la sua unica ancora di salvezza.

Ma in un certo senso persino Rita è consapevole dell’inganno.

Così l’enigmatica scena dello spettacolo canoro, tutto cantato in playback, è in realtà un indizio per raccontare la falsità delle vicende raccontate, anzi lo stesso crollo della cantante è indice della condizione stessa del sogno che esiste nonostante la morte di Diane/Betty.

Sulla stessa china, la ricerca disperata di Diane, altro nome che rimbomba costantemente nella mente di Rita, è una naturale spinta per trovare la chiave per comprendere la trama, il cui fulcro è rappresentato proprio dal cadavere in putrefazione della donna.

E, allora, dov’è il reale?

Reale

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Il reale è il paradosso.

Il ritorno alla realtà è dettato dall’entrata nella scatola, che ci catapulta in un mondo ben diverso da quello a cui eravamo abituati finora: una Betty/Diane con un aspetto ed un comportamento aspro ed insostenibile, che non riesce ad accettare la fine della storia con Rita/Camilla.

Ed è ancora più doloroso assistere alla cruda realtà in cui Diane non è così meritevole da essere scelta né come interprete, né come compagna di vita, trovandosi anzi continuamente ad assistere al suo irrimediabile fallimento.

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

E allora Diane non vuole semplicemente eliminare Rita, ma bensì rinchiuderla in una piccola scatola a cui solamente lei ha accesso, un piccolo mondo felice che conservi il sogno di una relazione che è ormai uscita dalla sua vita…

…tanto da togliersi la stessa per preservare un ricordo appagante, per quanto fittizio.

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Strade perdute – Il fulcro

Strade perdute (1997) è uno dei film più tipicamente lynchiani della carriera di Lynch, nonché uno dei più iconici della sua produzione.

A fronte di un budget piccolino – 15 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale: appena 3 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Strade perdute?

Fred è un musicista jazz che vive insieme alla moglie Renée, di cui sospetta un tradimento. E farebbe di tutto per averla con sé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Strade perdute?

Bill Pullman in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

Assolutamente sì.

A differenza di Velluto blu (1986), Strade perdute si presenta fin da subito come una pellicola estremamente enigmatica, sostanzialmente impossibile da decifrare, ma che lascia tutto lo spazio allo spettatore per lasciarsi leggere a suo piacimento.

Insomma, se vi appassiona il cinema di Lynch e la continua sfida allo spettatore nel far correre libera la fantasia e l’interpretazione, nell’ultima opera lynchiana del secolo scorso troverete pane per i vostri denti. 

Presagio

Bill Pullman in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

Fred è tormentato da presagi imperscrutabili.

Proprio come in Velluto blu, sembra esserci una trama nascosta che il protagonista non riesce ad afferrare, e che ha il suo fulcro proprio dalla morte annunciata di Dick Laurent, che sul momento sembra senza significato, ma che è un indizio che Fred lascia a sé stesso.

Bill Pullman e Patricia Arquette in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

Infatti il protagonista è vittima della sua stessa ottusità, della sua assoluta convinzione nel voler vivere la propria vita, i propri ricordi, dal suo inaffidabile punto di vista, che è costantemente contrastato proprio tramite l’elemento che il Fred più odia:

la pellicola.

Mente

L'Uomo Misterioso in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

I ricordi di Fred sono imposti.

Tutta la dinamica delle videocassette è essenziale per raccontare una memoria molto selettiva da parte del protagonista, che conserva solamente parte della realtà e lascia che tutto il resto venga inghiottito dalla angosciante oscurità che infesta la sua casa – e, per estensione, la sua mente.

L’abitazione di Fred è infatti facilmente interpretabile come rappresentazione della sua stessa mente, della sua interiorità in cui rinchiude se stesso e la sua fascinosa moglie, per essere gradualmente penetrato da una presenza oscura e incomprensibile: l’Uomo Misterioso.

Una figura che si fa gradualmente strada nell’abitazione, prima intromettendosi con una visione oggettiva e chiara dell’esterno, per poi cominciare ad introdursi per svelare il cuore della stessa, il vero segreto che si nasconde al suo interno.

Ovvero, l’amore geloso, ossessivo e, infine, violento verso Renée.

Ma la moglie è solo un pretesto.

Dialogo

Fred vuole dialogare con sé stesso.

Ormai imprigionato nella claustrofobica realtà della sua condizione – e casa – tramite Pete il protagonista costringe se stesso ad abbandonare la sicurezza della sua dimora, a cominciare a vederla dall’esterno, a svelarne le dinamiche che, anche in condizioni diverse, si ripeteranno sempre uguali. 

Un’esperienza che viaggia in due direzioni: prima la visione costretta dall’omicidio di Renée, che racconta la natura instabile e frustata del protagonista, poi la rinascita tramite l’alter-ego, che lo porta nella medesima condizione relazionale iniziale, ma ancora più complicata.

Di fatto Pere vuole la stessa donna di prima, ma è minacciato dalla sua futura vittima, Dick Laurent, un boss del crimine che non ha nessuna remora a dimostrare la sua spropositata violenza sul primo malcapitato che gli ha tagliato la strada.

Ma questo non impedisce a Pete di instaurare una relazione proibita e pericolosa con la nuova – e vecchia – donna del desiderio, progettando persino una fuga d’amore per ricominciare davvero la propria vita altrove.

Ed è proprio in questo frangente che è possibile dare un’interpretazione del film.

Ricordo

Come ogni film di Lynch che si rispetti, anche Strade Perdute presenta un forte uso dell’elemento onirico.

Di fatto Pete/Fred vive all’interno della realtà non-reale, quella del sogno, quella dei presagi e delle verità nascoste, in cui gli eventi da conservare sono custoditi gelosamente nella sua mente, mentre tutto il resto – il vero reale – è lasciato fuori.

Ma è impossibile che la realtà vera non venga a bussare alla porta e a mostrarsi in tutta la sua crudeltà, forzando il protagonista ad accettare degli eventi – l’incidente in auto e l’omicidio di Renée, ma anche i film porno della moglie – che ha scelto di non ricordare, ma che sono per sempre impressi sulla pellicola.

Per questo infine il protagonista cade in un paradosso, in cui si trova dall’altra parte, in cui diventa l’amante di un fidanzato geloso, e in ogni caso non riesce ad ottenere il suo oggetto del desiderio, arrivando per questo ad uccidere l’altro se stesso – Dick Laurent.

E così è infine bloccato in una trappola personale senza via d’uscita, senza via di salvezza, in cui può solamente continuare a cambiare faccia in preda a crisi distruttive e deliranti, ma senza mai riuscire a mutare effettivamente nulla della sua esistenza.

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Velluto Blu – La trama nascosta

Velluto Blu (1986) segnò il ritorno di David Lynch, dopo due film più hollywoodiani Elephant man (1980) e, soprattutto, Dune (1984) – ai fasti della sua opera prima.

A fronte di un budget piccolissimo – 6 milioni di dollari, circa 18 oggi – è stato un discreto insuccesso commerciale: 8,5 milioni in tutto il mondo (circa 24 oggi).

Di cosa parla Velluto blu?

Per una pura casualità, la vita del giovane Jeffrey si intreccia con le turbolente vicende della enigmatica Dorothy Vallens e del suo aguzzino, Frank Booth.

O, almeno, questo è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Velluto blu?

David Lynch e Isabella Rossellini sul set di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Assolutamente sì.

Con Velluto blu Lynch è riuscito nuovamente a sorprendermi, anche se questa volta in maniera meno plateale: un thriller con una trama apparentemente lineare, in realtà disseminato di piccoli indizi che raccontano una storia ben diversa.

Infatti, se avrete voglia davvero di ascoltare la pellicola, rimarrete rapiti dall’enigmatico simbolismo sotterraneo, che, come ogni film di Lynch che si rispetti, non vuole veramente farsi capire, ma piuttosto lasciar libera la fantasia e l’interpretazione dello spettatore.

Insomma, non potete perdervelo.

MacGuffin

L’inizio di Velluto blu è un classico McGuffin…

…oppure no?

Il malore del padre del protagonista sembra davvero pretestuoso, tanta è la velocità con cui questo personaggio esce ed entra di scena, diventando semplicemente l’occasione per dare modo a Jeffrey di trovare l’orecchio tranciato e scoprire di Dorothy.

L'orecchio di Velluto Blu (1986) di David Lynch

E questa sensazione pervade anche il resto del primo atto, in cui personaggi utili alla prosecuzione della storia sembrano apparire molto convenientemente per dare al protagonista tutti i motivi e i mezzi per avvicinarsi alla misteriosa cantante.

Altrettanto conveniente è l’ottenimento della chiave, per chi basta una banalissima scusa per introdursi nella casa di Dorothy, riuscendo nel frattempo già a mettere insieme i primi pezzi del puzzle con la breve comparsa di Frank.

E quindi…

Specchio

Kyle MacLachlan nascosto nell'armadio in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’aggressione di Jeffrey è un grottesco specchio.

Sorpreso a nascondersi nell’armadio della donna, sembra inizialmente Dorothy lo voglia umiliare, cominciando poi in realtà a sedurlo, a condurlo al suo letto, pur intimandolo ogni volta di non guardarla, come se volesse vivere all’interno di una fantasia di cui non fa veramente parte.

Una scena apparentemente incomprensibile, in realtà più chiara assistendo alle dinamiche che si susseguono in scena con l’arrivo di Frank e la sua grottesca violenza nei confronti di Dorothy, basata su un contrasto piuttosto curioso fra i protagonisti della scena.

Isabella Rossellini e Dennis Hopper in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Da una parte Frank, il classico, odioso villain, che sembra spremere le sue ultime forze vitali – come testimonia il respiratore di cui fa spesso uso – e che vuole essere considerato come un bambino, che richiede le attenzioni materne, in una sorta di rituale.

E così Dorothy, a cui è stata negata la vita familiare con il rapimento del figlio e del marito, è invece costretta a tornare nel ruolo materno, e a sopportare tutti i capricci del suo aguzzino – che, fra l’altro, non vuole essere visto in queste particolari vesti.

Ma in questo delizioso delirio onirico, ci sono due elementi che possono aiutarci a comprendere cosa davvero Lynch ci vuole raccontare.

Fantasma

Don e Donnie sono due figure evanescenti.

Come l’uno non compare mai in scena, ma rimane vincolato dietro ad una porta, per sempre nascosto dalla vista di Jeffrey – e dalla nostra – il secondo appare unicamente sul finale, come fantoccio ormai senza vita che racconta l’ultimo atto della furia omicida di Frank.

Ma proprio questa loro fumosa presenza potrebbe favorire anzitutto l’interpretazione onirica, ma soprattutto far ipotizzare che in realtà Don, Donnie e Jeffrey siano di fatto la stessa persona, la stessa figura positiva che il protagonista spalma su più personaggi con cui non condivide mai la scena.

Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Un’idea confermata sia dal fatto che ad un certo punto è proprio Dorothy a chiamare il suo giovane amante con il nome del figlio, sia dal fatto che nella stessa scena la donna lo implora di tenerla prima che crolli in questa oscurità ripetutamente evocata:

Now it’s dark…

E ora le tenebre…

Frasi apparentemente senza significato, ma che ben si incastrano con un altro elemento significativo del film.

L’orecchio.

Orecchio

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan  e Laura Dern in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’orecchio è la chiave della storia.

Proprio nella sua funzione di far entrare Jeffrey nella vita di Dorothy, con il suo eloquente avvicinamento nel cavo uditivo, la regia ci suggerisce come se il protagonista penetrasse in una realtà sotterranea, oscura, di cui non ha veramente il controllo, ma di cui vuole disperatamente essere l’eroe.

Lo stesso orecchio è richiamato nel finale del film, ma questa volta è un orecchio vivo e parte del protagonista che si gode una giornata luminosa disteso nel giardino di casa, dove sembrano essersi raggruppati tutti i personaggi, ormai estranei ad ogni pensiero negativo e immersi in un sogno primaverile.

Così il simbolismo dell’orecchio è ribaltato con l’arrivo della rondine, che porta in bocca proprio un insettaccio nero, simile alle formiche che apprestavano l’entrata del mondo segreto che Jeffrey ormai sembra aver abbandonato, confermando la profezia che la stessa Sandy.

Ci troviamo quindi forse fra due mondi, entrambi onirici e misteriosi, fatti di simboli e precisi rituali, nessuno dei due veramente concreto se non all’interno dei limiti dell’immaginazione di Jeffrey, che, proprio come un sogno, riesce a ricollegare solo debolmente le figure in scena…