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Beau is afraid – La madre rapace

Beau is afraid (2023) è la terza pellicola di Ari Aster, autore indie attivo da pochi anni, ma che si è proficuamente fatto strada nel panorama dell’horror autoriale grazie alla A24.

A fronte di un budget abbastanza consistente per questo tipo di prodotto – 35 milioni – ha aperto piuttosto male al primo weekend: appena 5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Beau is afraid?

Beau è un uomo di quarant’anni che vive in un quartiere estremamente pericoloso, e sta per andare a trovare la madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Beau is afraid?

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Assolutamente sì, anche se…

Beau is afraid non è il film che potreste aspettarvi da Ari Aster: se vi immaginate un prodotto simile ai due precedenti – Hereditary (2018) e Midsommar (2019) – cambiate idea. Questa nuova pellicola è probabilmente un punto di svolta per la carriera di questo ambizioso regista, che sceglie un taglio alla I’m Thinking of Ending Things (2020).

E forse è anche il motivo per cui mi è piaciuto.

Non vorrei che Aster in futuro abbandonasse del tutto l’horror, ma apprezzo questa nuova via che ha intrapreso, anche se non tutti potrebbero esserne altrettanto contenti. Personalmente, non essendomi entusiasmata per i precedenti prodotti, è stato un passo fondamentale.

L’unico elemento che mi sento di segnalare è l’eccessiva pesantezza della narrazione, tipica di tutti i prodotti di Aster finora: nonostante la durata importante non mi abbia infastidito, al contempo la storia poteva essere notevolmente alleggerita.

Nell’occhio del ciclone

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

La prima scena Beau is afraid mostra una situazione apparentemente tranquilla.

Beau dialoga con il suo terapeuta, facendoci capire che sta per tornare nella sua casa natale, per l’anniversario della morte del padre.

Ma già in questa scena è presente un elemento di disturbo: la madre che continua ad intervenire – tramite chiamate e messaggi – in uno spazio che dovrebbe essere privato e confidenziale.

E l’intrusione è continua.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Così, anche quando il protagonista riesce ad arrivare illeso al suo appartamento, viene continuamente stressato dall’ambiente che lo circonda, anche e soprattutto per motivazioni che non sono colpa sua – rappresentazione esplicita del suo stato di ansia e di colpevolezza.

Infine, viene totalmente scacciato da quel piccolo spazio privato che era riuscito a costruirsi, ma che viene letteralmente invaso e distrutto. E, anche se poi cerca di riprenderne possesso, ormai è stato violato.

E si può solo scappare.

Madonna Beau is afraid

Nel primo atto è interessante il contrasto fra due elementi.

La madonna e il ragno.

Prima di tornare a casa, Beau compra un regalino per sua mamma, una statuina che rappresenta una candida scena materna, con una figura mariana con in braccio un bambino – rappresentazione del suo desiderio di amore materno.

E proprio su quell’oggetto il protagonista racconta la sua angoscia interiore, un ulteriore tentativo di scusarsi con la madre, per qualcosa che non è neanche colpa sua – la morte del padre.

La stessa immagine la troviamo nell’imponente statua davanti alla casa natale.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Ma nell’appartamento è presente una figura ben più minacciosa: il ragno dal morso mortale.

È la rappresentazione effettiva della natura della madre: insidiosa, potenzialmente mortale, costantemente presente nella vita di Beau, anche senza che lui se ne renda conto.

E questo tanto più se si considera che l’appartamento in cui abita, come si scopre in seguito, è stato costruito dalla madre stessa…

Un’apparente tranquillità

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Dopo essere fuggito dal suo appartamento ed essere stato totalmente spogliato, è come se Beau rinascesse, e fosse ricondotto alla sfera infantile, che forse non aveva mai effettivamente lasciato…

Infatti, si sveglia nella stanza di una ragazzina, viene vestito solo con vestiti da ospedale e con pigiami, proprio come un infante, e trattato come se fosse il nuovo figlio di questa strana famiglia, che lo accudisce teneramente.

Ma è tutta apparenza.

In realtà, più che una casa, è una prigione: Beau è inconsapevolmente incatenato – con la cavigliera che mostra la sua posizione – e costantemente controllato da telecamera di sicurezza, come scopre solo alla fine.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Al contempo, la nuova casa è anche il luogo della colpa.

Beau viene continuamente stressato dall’idea di doversi ricongiungere con la madre, di mostrare il suo affetto, mentre la sua assenza – nonostante sia giustificata da motivi del tutto validi – è raccontata come un’umiliazione.

La vera natura della nuova abitazione – luogo di conflitto e di violenza – viene particolarmente sottolineata in chiusura dell’atto, con la terrificante morte di Toni. E, ancora una volta, la colpa viene data a Beau.

E così deve ancora scappare.

Lo spettacolo di una vita

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Sulle prime mi era veramente poco chiaro il senso dello spettacolo che Beau si immagina mentre è nel bosco.

Poi, pensando agli elementi raccontati a posteriori, sono riuscita a formulare una mia interpretazione: questo viaggio mentale del protagonista è forse l’unica parte veramente irreale della storia raccontata.

Nonostante riprenda alcuni elementi della realtà e preveda anche gli eventi successivi, è una riscrittura di Beau della sua stessa vita. In essa, infatti, si ritrovano la maggior parte degli eventi raccontati, anche se re immaginati – come lo spezzare della catena (la cavigliera) e il cane che lo insegue (Jeeves).

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Tuttavia, vi sono due elementi di differenza fondamentali: la madre morta e la famiglia di Beau.

Nella sua immaginazione, il protagonista si è liberato dalla madre – che comunque ricompare nei panni della moglie – e vive una vita piena di insidie e pericoli. Tuttavia, riesce a guadagnarsi un finale idealmente felice.

Ma proprio lì si spezza l’incanto: quando i figli ritrovati gli fanno comprendere la contraddizione delle sue parole – la loro esistenza e la verginità del padre – la scena si interrompe bruscamente.

È il momento in cui Beau capisce che questa vita felice è per lui impossibile.

Ritornare a casa

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

L’ultimo atto è dedicato al ritorno a casa.

Come nella sua immaginazione Beau ritrovava i figli, nella realtà ritrova la madre. Ma prima si esplora l’immensa figura materna: una donna potente e minacciosa, che aveva costruito un impero commerciale, ma anche una trincea intorno al figlio.

Non a caso tutte le pubblicità dei suoi prodotti si concentrano sulla sicurezza e hanno molto spesso al centro Beau stesso: quindi rappresentano il continuo tentativo della madre di proteggere il figlio dal mondo esterno.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E allora Beau prova a prendersi la prima rivalsa.

Rincontrando Elaine dopo tantissimi anni, il protagonista ammette di essersi conservato per lei, di averla aspettata per poter condividere con lei la sua prima esperienza sessuale – e ancora una volta si parla quindi di una donna opprimente che cerca di limitarlo…

Tuttavia, il protagonista sembra avere il suo riscatto, vivendo – nonostante la paura – la sua prima relazione sessuale, la stessa che la madre gli aveva negato tutta la sua vita, terrorizzandolo tramite i terribili esiti che la stessa avrebbe portato.

In realtà la madre vince ancora.

La madre rapace

La natura rapace della madre si capisce fin dal primo atto, anche se non è presente in scena.

Sia per la foto che Beau tiene in bagno – con la mano della madre che gli regge la testa che sembra un artiglio – sia per le pressioni che la donna continua a buttargli addosso, accusandolo, fra le altre cose, di non volerla andare a trovare.

Insomma, Mona è un genitore narcisista, che affoga il figlio con amore e attenzioni, ma pretendendone altrettante indietro, pena terribili ricatti emotivi. E, proprio grazie alle registrazioni delle sedute con il terapista, Beau si rende conto della tossicità del loro rapporto.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E questo viene ancora ribadito dalla scena della soffitta.

Il sogno – in realtà un ricordo – racconta proprio il loro conflitto: se nella sua fantasia Beau poteva essere un bambino che si ribellava dalle continue invasioni della madre, la stessa aveva un potere tale su di lui da riuscire a sopprimere questi inaccettabili slanci.

La soffitta è soprattutto il luogo della distruzione della virilità: sia tramite la reclusione del padre, foce della più importante paura – quella verso il sesso – sia, in maniera estremamente esplicita, tramite la segregazione dei simboli fallici.

E allora avviene l’effettiva ribellione.

Beau is afraid finale

Sul finale Beau cerca di uccidere la madre, ma poi si pente – con una reazione piuttosto infantile.

Ma ormai è fatta.

E Beau scappa, definitivamente.

Ma si trova imprigionato nel terribile tribunale che lo mette davanti alle sue colpe, anche quelle apparentemente più assurde, che aprono la strada a due diverse interpretazioni della storia nel complesso: quella letterale e quella metaforica.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se seguiamo la lettura letterale, tutto quello che è successo – tranne due momenti – è fondamentalmente reale.

Il viaggio di Beau nasce dalla morte della madre, si sviluppa nel suo continuo scappare e trovarsi in situazioni di pericolo e di conflitto, in realtà create ad hoc dalla madre, che cercava ancora una volta di avere prova dell’amore del figlio.

Tutte scene reali, ad eccezione dell’immaginazione di Beau per lo spettacolo, e la scena finale col tribunale, che potrebbe essere in parte deviata dall’immaginazione del protagonista – ed essere in realtà un semplice dialogo con la genitrice.

Kylie Rogers in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se invece seguiamo l’interpretazione metaforica, tutta la storia racconta è un viaggio immaginario di Beau, con rappresentazioni visive delle sue ansie e del suo tentativo di superare il legame opprimente con la madre.

Tuttavia, in entrambe le visioni, alla fine Beau è vinto dall’eccessivo senso di colpa che lo opprime, e decide di non provare neanche a salvarsi, ma accettare la sua morte come giusta punizione per il suo comportamento.

Quindi, alla fine, Beau è sconfitto.

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The Green Knight – La morte cammina con te

The Green Knight (2021) di David Lowery è la pellicola forse più strana ed ambiziosa della sua produzione (finora). Tratta da un poema cavalleresco anonimo del XIV sec., è una storia dal taglio medievaleggiante e fantastico.

A fronte di un budget anche abbastanza ambizioso per un prodotto indie – 15 milioni di dollari – come prevedibile per periodo ed il tipo di film, è stato un discreto flop: meno di 20 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Green Knight?

Il giovane Ser Gawain viene costretto dalla madre a partecipare ad una festa della Tavola Rotonda, organizzata da suo zio, Re Artù. In questa occasione si scontrerà con una sfida inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Green Knight?

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Assolutamente sì.

Per quanto sia un film incredibilmente complesso – tanto che mi ha ricordato per certi versi un’altra produzione della A24, Men (2022) – è anche una pellicola incredibilmente affascinante: un’avventura di stampo folkloristico, medievaleggiante, ma anche quasi surreale.

La sua bellezza è anche l’aprirsi a diverse chiavi di lettura, fornite in realtà dal regista stesso, ma che lasciano ampio spazio anche alla libera interpretazione allo spettatore, vista la complessità dell’opera di partenza in primo luogo.

Insomma, se vi affascinano storie complesse ed estremamente simboliche, guardatelo assolutamente.

Il punto di partenza

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

La personalità del protagonista è chiara fin da subito.

Si intrattiene con la sua amante, passa le notti fuori casa, ma non riesce ancora ad essere un cavaliere, nonostante sia nipote di Re Artù nonché, come si vede nella scena della festa, il suo prediletto e il suo sicuro erede.

E, nel momento del lancio della sfida del Green Knight, mostra anche un altro lato della sua personalità: l’irriverenza e il desiderio di mostrare il suo valore, ma senza la saggezza e l’equilibrio che dovrebbe distinguere i Cavalieri di Artù.

E infatti quella è solo la prima prova.

La responsabilità della Madre

The Green Knight in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

La Madre di Gawain invoca il Green Knight.

Ma perché lo fa?

La risposta è più chiara a visione conclusa: la donna – che dovrebbe essere una rivisitazione di Morgana del ciclo arturiano – è consapevole dell’immaturità del figlio, il quale dovrebbe compiere il passaggio fondamentale alla vita adulta – diventare cavaliere e erede di Artù – ma non ha ancora la maturità necessaria, appunto.

Infatti al figlio mancano due capacità fondamentali.

Il senso di responsabilità e l’intraprendenza positiva.

Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Ser Gerwig dimostra di essere intraprendente, ma in maniera non positiva: si può parlare meglio di avventatezza, irriverenza, appunto. Infatti accetta la sfida del Green Knight, ma non ne capisce minimamente la valenza: per lui è solo un modo per mostrare la sua virilità.

Il vero significato della sfida è dimostrare di saper saggiare la situazione: essere intraprendenti e pronti a mettersi alla prova, ma sapere anche meditare al meglio le proprie azioni – e quindi essere capaci anche di affrontare le conseguenze.

Il classismo?

Barry Keogan in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Il primo ostacolo – anche se non ne è inizialmente consapevole – è il villano che Ser Gerwig incontra all’inizio del suo viaggio.

Nonostante il personaggio di Barry Keogan sia indubbiamente fastidioso e insistente, fornisce comunque informazioni fondamentali al protagonista per il suo viaggio. Ma, quando il ragazzo gli richiede qualcosa in cambio per la sua gentilezza, il protagonista lo tratta con grande arroganza e superiorità.

Appare qui evidente come Gerwig abbia vissuto fino a questo momento nella sicurezza e comodità della sua città, in una posizione di potere e prestigio, approfittandosi anche evidentemente delle persone a lui inferiori.

Ma il mondo esterno è molto più pericoloso.

Barry Keogan in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Infatti il protagonista rimane vittima di un’imboscata, in cui perde la maggior parte dei suoi averi e dei suoi simboli – l’ascia e il cavallo. E, in un certo senso, il ragazzo sceglie di prendere il suo posto, quindi sottrargli la sua posizione che il protagonista considerava intoccabile.

Se fosse stato più generoso non sarebbe stato attaccato?

Forse no, ma, nel simbolismo della pellicola, è quantomai evidente che questa sia un momento di passaggio per il futuro re, che avrebbe dovuto mostrare saggezza e generosità nel trattare col popolo, soprattutto potendoselo permettere.

E proprio in quel momento sarebbe potuto anche morire…

L’incontro con Santa Winifred

Erin Kellyman in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Il personaggio di Santa Winifred è meno casuale di quanto sembri.

Apparentemente l’incontro con la ragazza sembra solo una side quest portata avanti dal protagonista, impietosito dalla situazione della sfortunata. In realtà, oltre ad essere un racconto piuttosto fedele al mito originale, è una prova fondamentale per Ser Gerwig.

Infatti per la prima volta il protagonista si impegna nell’aiutare il prossimo, senza pensare ad un guadagno futuro – per esempio giacere con la ragazza – che in realtà diventa un aiuto fondamentale per la il suo viaggio, anche se sotto altra forma.

Nelle sue identità – la donna e la volpe – Winifred è un’effettiva guida per Ser Gerwig: grazie a lei capisce – o, meglio, lo spettatore capisce – che è la stessa madre ad aver invocato il Green Knight, e viene anche messo in guardia sulla pericolosità della prova finale.

Il misterioso castello

Alicia Vikander in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Dopo un viaggio piuttosto stancante e faticoso, Ser Gerwig diventa ospite del misterioso lord dell’altrettanto misterioso castello, la cui moglie ha le sembianze proprio della sua amante, Essel.

Il castello è infatti una sorta di rappresentazione – con le dovute differenze – della vita presente e futura del protagonista. Sotto alla protezione di un benevolente signore – come era Re Artù – vivendo una vita sessuale piuttosto libertina con la lady del castello – come con Essel – ma sotto la stretta e minacciosa sorveglianza della madre – qui nei panni dell’anziana bendata.

Ma per la relazione con la lady le parti si invertono.

Alicia Vikander e Dev Patel in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

Nonostante sia sempre la sua amante, in questo caso è Essel a starsi approfittando di Gerwig, e non il contrario. Infatti il protagonista in questo caso sta sfruttando dell’ospitalità del lord, mentre a casa era lui che si approfittava della ragazza, senza darle nulla in cambio.

Questo passaggio è insomma un modo per mettere il protagonista non solo davanti alla sua vita miserabile vista da un altro punto di vista, ma anche a comprendere quanto le fortune possano essere alterne: un giorno Re, un giorno straccione.

The Green Knight finale

Il finale di The Green Knight è doppio.

Nel primo finale Ser Gerwig rimane saldamente legato alla sua cintura di protezione per tutta la sua vita, sottraendosi alla sua prova e alle sue responsabilità.

E questo lo porta ad una vita per nulla felice.

Continua ad approfittarsi di Essel, le strappa di braccia il figlio appena nato, si sposa con una moglie di convenienza, e il primo figlio gli muore in battaglia. E, nonostante tutto, alla fine deve comunque affrontare la morte che aveva cercato di fuggire.

Sean Harris in una scena di The Green Knight (2021) di David Lowery

E questa vita è quella che gli passa apparentemente davanti agli occhi nel secondo finale, in cui capisce che non potrà fuggire dal suo destino, ma che è arrivata l’ora di affrontarlo. Ma, soprattutto, di affrontarlo senza una perpetua protezione.

Così viene ricompensato, con una vita – si spera – più saggia e felice.

La cintura verde The Green Knight significato

La cintura donata dalla madre a Ser Gerwig è fondamentale.

È uno strumento che la donna offre al figlio per proteggersi, come per portare con sé sempre una parte della maternità che fino a questo momento l’ha guidato e protetto – una sorta di coperta di Linus ante-litteram.

Proprio intorno a questo elemento in realtà gira l’insegnamento della madre: il protagonista deve essere capace di liberarsi da una protezione – vera o immaginaria – che sia della madre o della sua posizione, e diventare capace di agire autonomamente.

E infatti il protagonista alla fine sceglie in entrambi i finali di togliersi la cintura, arrivando in un modo o nell’altro ad affrontare le sue responsabilità. Ma solo facendolo nel momento giusto può evitare una vita di vigliaccheria e violenza, e di sola apparente sicurezza…

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Fight Club – Distruzione e rinascita

Fight Club (1999) di David Fincher è stato il quarto film della sua carriera, nonché uno dei maggiori titoli di culto da lui diretti, insieme a Seven (1995).

Con un budget simile a quello del titolo da lui precedentemente diretto (The Game) – 64 milioni di dollari – fu anche in questo caso un discreto flop: poco più di 100 milioni di incasso. Infatti, il culto intorno a questa pellicola nacque solo con il suo rilascio in home video.

Di cosa parla Fight club?

Il protagonista, dal nome ignoto, è il classico impiegato frustrato dal lavoro e dalle aspettative della società. Grazie all’incontro con l’enigmatico Tyler, la sua vita cambierà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fight club?

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Sì, e con attenzione.

Fight club è un film terribilmente denso di contenuti, di spunti narrativi e di riflessioni su una realtà sociale che è ancora drammaticamente attuale – forse anche più del momento in cui fu girato il film. Una narrazione e uno svolgimento che travolge lo spettatore, con un tocco surreale che non poteva mai mancare nelle prime produzioni di Fincher.

Insomma, se non l’avete mai visto, guardatelo senza informarvi oltre.

Dentro una casella

Edward Norton in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il punto di partenza del protagonista è l’anonimato.

Ma un anonimato socialmente accettabile: è perfettamente incasellato nelle aspettative sociali, con un lavoro ordinario e monotono, scandito da una routine scialba e ripetitiva. L’unico sbocco di felicità sembra nella stabilità degli oggetti acquistati – o che la società in cui siamo immersi ci spinge a comprare.

Gli oggetti che rappresentano il nostro status sociale.

Particolarmente azzeccato è il racconto della nuova pornografia, rappresentata dal catalogo IKEA. Una dinamica che oggi potrebbe essere facilmente accostata al fenomeno di Tik Tok e degli influencer, che ci spingono a desiderare tanti – troppi – oggetti di cui non abbiamo nessun bisogno, ma che ci definiscono positivamente agli occhi degli altri.

Autodistruzione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Inconsapevolmente stanco di questa condizione, il protagonista procede alla sua autodistruzione.

E, infine, alla sua rinascita.

Il primo passo è liberarsi da ogni elemento che lo definiva come uomo ordinario schiavo del consumismo capitalista, con un’azione violenta ma necessaria: dare fuoco a tutti i suoi possedimenti che gli facevano vivere una vita sicura e socialmente accettabile.

Ma anche un’esistenza miserabile.

E così sceglie un’altra strada, molto più folle, dissociata e isolata: una stamberga nella periferia della città, del tutto caotica nella sua struttura e del tutto diversa dal grigio appartamento in cui viveva prima – che, anzi, manca quasi dei servizi essenziali.

Il passo fondamentale che si accompagna ad un altro elemento cardine della sua rinascita: l’alienazione.

Alienazione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Incapace di essere totalmente responsabile della sua scelta, il protagonista sceglie di mettere qualcun altro al centro della propria vita.

Tyler è una figura totalmente anarchica e distruttiva, cosciente di tutti gli inganni socialmente accettabili. Proprio per questo è un personaggio che è un continuo sabotatore, che inquina ogni ambiente che invade: le nuove indicazioni di emergenza sugli aerei, i frame porno nei film per bambini…

Al contempo, è anche una figura ammirabile, eroica, che riesce dove il protagonista sente di fallire, in particolare in due ambiti: il sesso e la violenza. E invece infine viene svelato come il protagonista fosse sempre stato al centro dell’azione, anche in contesti dove si era immaginato ai margini.

E l’ultimo atto, nel tentativo di totale distruzione di sé stesso, fallisce e invece porta al vero trionfo auspicato da Tyler – e quindi dal protagonista stesso.

La distruzione della società dalle fondamenta e dai suoi simboli.

Cos’è il Fight club?

Il Fight club che dà il titolo al film è molto più importante di quanto potrebbe sembrare.

In prima battuta il protagonista, per risolvere la sua insonnia e quindi la sua ansia sociale di essere sempre attivo e presente, sceglie di frequentare degli spazi sicuri in cui può lasciarsi andare, dove è socialmente accettabile piangere anche per un uomo, dove si può essere veramente ascoltati.

Una scelta che gli permette di continuare il suo ruolo sociale.

Jared Leto e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il Fight club è un ribaltamento di queste realtà.

Altrettanto sicuro e protetto, ma anche privo di regole, tranne una: tutti possono e devono combattere, senza pagare nulla, ma il combattimento termina quando uno dei combattenti lo chiede.

Di fatto, è il luogo dove chiunque può decidere di sfogare le sue ansie sociali, essere libero dalle proprie ansie e problemi – e secondo i suoi tempi.

Ma anche senza trovare una soluzione agli stessi.

Il significato del sapone in Fight club

Il sapone è uno degli elementi cardine e racconta molto bene il tema di fondo del film stesso.

Infatti, se pensiamo ad una saponetta, ci vengono in mente concetti come pulizia, candore, bellezza. Ma sappiamo veramente di cosa è fatto quel sapone? In Fight club i due protagonisti fanno i soldi creando del sapone dai disgustosi scarti industriali, proprio quelli di cui la società si vorrebbe liberare.

Proprio per questo, il sapone rappresenta la società stessa: vuole apparire splendida e desiderabile all’esterno, in realtà è composta dal marciume e dagli scarti, sorretta proprio da quegli elementi umani che cerca di emarginare, che in realtà sono il motore della società stessa.

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Accadde quella notte... Commedia nera Drammatico Film Notte degli Oscar Surreale

Birdman – La dura finzione

Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu è la pellicola che fece veramente conoscere questo regista al grande pubblico, proprio grazie alla sua improvvisa – e inaspettata – vittoria agli Oscar 2015, confermandone la (breve) ascesa l’anno successivo con Revenant.

A fronte di un budget davvero risicato (16,5 milioni di dollari), riscosse un ottimo successo commerciale: 103 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Birdman?

Riggan è un ex-star del cinema supereoristico che sta cercando di riproporsi al pubblico in una veste nuova, portando il suo spettacolo teatrale a Brodway. Ma il passato lo assilla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Birdman?

Michael Keaton, Naomi Watts e Zach Galifianakis in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Assolutamente sì.

È davvero difficile parlare in maniera oggettiva di una pellicola che è fra le mie preferite in assoluto. Sono assolutamente innamorata del suo taglio surreale e fantastico perfettamente bilanciato, dell’utilizzo magistrale del piano sequenza e della costruzione della trama davvero avvincente.

Nonostante non abbia visto tutta la filmografia di Iñárritu, è in assoluto la mia preferita delle sue opere, nonché l’inizio di un brevissimo amore, dissipatosi con Revenant (2015) – film artisticamente splendido ma che trovo di una pesantezza immane – e sopratutto col profondo fastidio che ho provato vedendo Bardo (2022).

Ma, anche per questo, vi consiglio caldamente di recuperarlo.

Il nido

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

La maggior parte della pellicola si svolge in un claustrofobico piano sequenza all’interno del teatro.

Ed è veramente opprimente per come la macchina da presa inquadra i personaggi, molto spesso quasi schiacciandoli nell’inquadratura e al contempo inseguendoli di spalle nei loro movimenti, con una dinamicità veramente coinvolgente.

Il teatro è come un luogo di incubazione, un nido in cui il protagonista si è rinchiuso per riuscire a rinascere, spiccare il volo. Ma quello che dovrebbe essere un luogo conciliante e stimolante, è invece profondamente angosciante, più simile ad una trappola.

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Il teatro rappresenta profondamente il tentativo di rinascita di Riggan, che si sente totalmente schiavo della sua identità da eroe mascherato, e che non vuole farsi coinvolgere all’interno del vortice perverso di star di alto livello che diventano supereroi.

E si citano casi da poco avvenuti, come Jeremy Renner, AKA Occhio di falco, che si era fatto conoscere poco tempo prima per The Hurt Locker (2008).

E infatti Riggan, appena esce dal teatro, viene ogni volta assalito dall’identità di cui vuole liberarsi, anche se cerca di rifugiarsi in luoghi altrettanto chiusi ed angusti

La verità in scena

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Nonostante le apparenti differenze e l’aspro antagonismo, Riggan e Mike sono due figure complementari.

Entrambi non riescono ad avere successo nella vita reale, e per questo mostrano la loro vera faccia solo quando sono in scena. Tuttavia, con delle differenze fondamentali: Mike è del tutto consapevole di questa realtà, e anzi la sbandiera quasi con rassegnazione. E infatti diventa tanto più aggressivo sul palco, nella disperazione di voler plasmare l’unica realtà che riesce veramente a controllare: quella scenica.

Al contrario, Riggan si sente oppresso dal palcoscenico, e riconosce solamente col tempo quanto la stesso racconti effettivamente le sue angosce più profonde. Così il suo desiderio di essere apprezzato, i suoi problemi relazionali e il suo arrendersi all’inevitabile…

L’identità strappata

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Il tormento del protagonista per la sua identità si traduce anche materialmente in scena.

In particolare, nella scena in cui si trova chiuso fuori dal teatro viene privato, proprio con uno strappo, della sua identità. E si ritrova confuso, senza una meta, a vagare, nudo, immerso in una folla che lo soffoca e reclama a gran voce che ritorni nei panni che sta cercando di fuggire: quelli di Birdman.

Per questo la tappa successiva è il ritorno al teatro stesso, in questo splendido gioco metanarrativo in cui il protagonista irrompe in scena e mima la finzione scenica, non bussando alla porta ma urlando knock knock, e usando la mano a mo’ di pistola.

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Ed è quello il momento della consapevolezza.

Proprio recitando le parole che ha detto mille volte – ma mai veramente capito – io non sono qui, sono invisibile, accetta finalmente non solo di liberarsi della sua identità, ma anche di portare la sua vera realtà sulla scena, accentandola come spazio per esprimersi.

Finalmente può spiccare il volo.

Cosa succede nel finale di Birdman?

Il finale di Birdman parla di morte e rinascita.

Riggan, in un certo senso, muore due volte: si uccide in scena, ma si uccide anche nella vita reale – in realtà poi solo distruggendosi il naso. Si ritrova così nella stanza dell’ospedale con un’altra maschera addosso – quella delle garze – che gli copre parte del volto e che sembra proprio la maschera di Birdman.

A quel punto, guardandosi allo specchio, vede come il suo nuovo naso lo faccia ben più assomigliare al suo demone, ma decide definitivamente di salutarlo – anche in maniera piuttosto brusca.

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Come sembrava che ci potessero essere solo due identità possibili – o Birdman o l’attore di teatro – Riggan trova una terza via. Il piacere del volo, del poter viaggiare sopra agli altri era all’inizio solamente una fantasia – come ben testimonia la conclusione della sequenza dedicata.

Invece alla fine il protagonista capisce di potersi librare, leggero e senza il peso di nessuna identità ingombrante, e spiccare il volo come un uomo nuovo.

E ridere di felicità insieme alla figlia.

Birdman: quando la realtà supera la finzione

Il caso di Birdman è veramente singolare.

Fin dall’inizio è evidente l’idea di costruire un personaggio su misura per Michael Keaton, pieno di riferimenti al suo vero passato cinematografico. Non a caso Birdman in inglese assomiglia molto nella pronuncia a Batman, personaggio che lo rese effettivamente famoso.

Tuttavia, da lì in poi, non era mai riuscito a spiccare il volo con qualche altro ruolo.

E, in un primo momento, il ruolo nel film di Iñárritu concesse a Keaton di intraprendere pellicole di ampio respiro e di alto livello, come Il caso Spotlight (2015) e poi The Founder (2016). Ma, in poco tempo, prese la strada infausta prospettata dal film.

Infatti nel 2017 prese i panni dell’Avvoltoio nel film Spiderman Homecoming.

E il parallelismo con Birdman è quasi scontato.

Non ho idea di quanta ironia ci fosse nella scelta di Iñárritu in questa pellicola, né se all’epoca sapesse dei progetti di Keaton – che sembra che accettò il ruolo da supervillain solo nel 2016. Tuttavia la coincidenza è impressionante.

Ma lo è ancora di più se si pensa che, da qui a poco, Keaton dovrebbe riprendere i panni di Batman proprio in The Flash (2023), in un ruolo che sembra quasi da coprotagonista, per la gioia dei fan del personaggio…

Edward Norton Birdman

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Un discorso analogo si può fare per Edward Norton.

Il suo personaggio è stato costruito proprio sulla sua vita e carriera: all’inizio si dice che Mike ha abbandonato un progetto, probabilmente sia perché licenziato sia perché si è fatto cacciare, come suo solito. È interessante perché non molto tempo prima Norton era stata recastato come Hulk dopo la sua performance in L’incredibile Hulk (2008) nei panni del protagonista.

E i motivi sembrano proprio quelli raccontati nella pellicola: sembrerebbe che Norton facesse il bello e cattivo tempo con la sceneggiatura e sul set, e per questo fu cacciato.

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

La sua carriera era già da tempo in declino, dopo i grandi successi che lo avevano reso iconico di La 25ª ora (2002) e Fight club (1999), fra gli altri, partecipando solo sporadicamente ai film di Wes Anderson come cameo, e poco altro. E dovendo anche scontrarsi anche col flop del suo secondo film da regista, Motherless Brooklyn (2019).

Per fortuna ultimamente l’abbiamo rivisto in scena in un film di ampio successo, Glass Onion (2022), in un ruolo che ho personalmente apprezzato e che spero sia il punto di partenza per una sua rinascita attoriale.

Birdman meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2015 portarono diverse novità.

Per la prima volta in Italia la cerimonia venne trasmessa in chiaro dal Canale Cielo, e, più in generale, tutti i candidati vennero annunciati tramite conferenza stampa – fino a questo momento solo le dieci categorie più importanti erano annunciate in tv.

Un’edizione dove i film con maggiori candidature ebbero anche il maggior numero di premi: nove statuette per Birdman e Grand Budapest Hotel, e quattro vittorie ciascuno. Oltre al film di Wes Anderson, nella categoria Miglior film c’erano altri contendenti forti: American Sniper e La teoria del tutto.

Tuttavia, vinse appunto Birdman.

Per quanto consideri diversi contendenti molto validi – sopratutto Grand Budapest Hotel – non penso che nessun film meritava una vittoria più di Birdman, un film incredibile sotto ogni punto di vista: registico, artistico e interpretativo.

Il miglior film dell’anno, per davvero.

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Gli spiriti dell’isola – La piccola guerra

Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.

A fronte di un budget piuttosto risicato – appena 20 milioni di dollari – ha prevedibilmente incassato davvero poco: appena 33 milioni di dollari in tutto il mondo (finora).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista a Colin Farrell
Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson
Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan
Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon
Migliore colonna sonora
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?

1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?

Colin Farrell in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.

Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.

Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.

Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.

Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.

La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.

È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi al decesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.

Sotto la superficie

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.

In realtà, la pellicola racconta molto di più.

L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.

E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.

Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.

E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.

Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.

Vi suona familiare?

Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.

L’ottusità e le cinque dita

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.

E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.

Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.

Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.

Umani

Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.

Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.

E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.

La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.

La morte

Barry Keoghan in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.

E il titolo ne è indizio fondamentale.

La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.

E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.

Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.

Da notare anche l’interessante foreshadowing sul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.

E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano a Mrs. McCormick…

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Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

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White noise – Un puzzle incompleto

White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.

Non è stato così.

Di cosa parla White noise?

Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere White noise?

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Probabilmente no.

Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.

Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…

Aprire bellissime porte…

Adam Driver, Don Cheadle e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.

Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.

Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...

…qualcosa che non è mai arrivato.

…e aprirne altre ancora

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.

Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…

E basta.

Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.

Qual è il punto?

Adam Driver n una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.

Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.

Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.

E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:

What’s the point I want to make?

Anderson, sei tu?

Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.

In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.

E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…

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Drammatico Film La fine dell'anno Surreale

I’m Thinking of Ending Things – Storia di un pensiero intrusivo

I’m Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman è stata una sorpresa e un dramma durante un anno già di per sé piuttosto drammatico. Dallo sceneggiatore dell’amatissimo The Eternal Sunshine of the Spotless mind (2004), una splendida pellicola passata praticamente sotto al silenzio.

Un’opera complessa e meravigliosa nella sua complessità.

Di cosa parla I’m Thinking of Ending Things?

Jake e la sua fidanzata affrontano un lungo viaggio in macchina, in mezzo alla bufera, per raggiungere la casa dei suoi genitori. Fra discorsi apparentemente insignificanti e senza senso, questa vicenda racconta molto più di quanto appaia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare I’m Thinking of Ending Things?

Jessie Buckley, Jesse Plemons, Toni Collette, David Thewlis in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Assolutamente sì.

Ma.

Dire che I’m Thinking of Ending Things è complesso non basta per spiegare l’immensità della complessità di questa pellicola. Letteralmente ogni scena, ogni battuta e ogni elemento di questo film è aperto all’interpretazione e tutto si collega in una rete di significati profondi e complessi.

A volte potreste trovarvi totalmente disarmati e confusi: sembra che tutto abbia senso in scena, eppure che niente abbia senso, per una pellicola che richiede una continua e costante concentrazione.

Insomma, un film immenso, ma che bisogna guardare con la giusta propensione.

La cornice

Guy Boyd in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Per comprendere la pellicola, bisogna anzitutto comprendere la cornice narrativa.

Jake è un bidello in un liceo, che si sente completamente invisibile e inutile agli occhi di tutti. Per questo crea nella sua immaginazione una storia delirante, in cui mischia la fantasia e la memoria, arrivando anche a decostruire la narrazione.

Un personaggio talmente inetto che diventa nemico di sé stesso all’interno della sua stessa storia, mischiando il suo desiderio di attenzioni con una sorta di consapevolezza personale, sentendosi lacerato da due tendenze opposte: vita e morte.

Una sorta di ricerca disperata di una conferma di una vita non inutilmente vissuta.

Proprio prima di metterle fine.

La protagonista inconsapevole

Jessie Buckley in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

La giovane donna è il personaggio più complesso e interessante del film.

Una donna che vive senza nome e senza un’identità, come una sorta di figura da plasmare e riplasmare in ogni momento: ora è una fisica, ora una pittrice, poi una cameriera. Come donna rappresenta tutte le donne che Jake ha sempre desiderato, ma che non ha potuto avere.

Ed è evidente nel finale che il desiderio di avere una donna al suo fianco non fosse legata tanto ad una mancanza di amore, ma alla ricerca di un riconoscimento sociale.

Solo in rari momenti Lucy è una figura accondiscendente con Jake: al contrario, nella maggior parte del tempo è la donna splendida e inarrivabile, con cui l’uomo ha un rapporto continuamente antagonistico e da cui si sente minacciato.

Jessie Buckley in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Un personaggio senza identità, ma con tante identità: la donna del desiderio, una sorta di coscienza, le delusioni, il desiderio di morte, Jake stesso.

Nella realtà, una ragazza incontrata in maniera fuggevole, che neanche l’aveva considerato.

Nella fantasia rappresenta una sorta di presa di coscienza di Jake, un pensiero intrusivo che il non-protagonista cerca di combattere: i’m thinking of ending things, sto pensando di finirla qui, sto pensando di morire. E infatti, durante tutte le scene insieme, soprattutto quando Lucy sta per esprimere questo pensiero ad alta voce, Jake la blocca immediatamente.

E cerca di ricondurla verso luoghi familiari, che possono evitare l’inevitabile fine.

Luoghi familiari e terribili

Jessie Buckley, Jesse Plemons, Toni Collette, David Thewlis in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Durante il viaggio, Jake spinge per fermarsi assolutamente in tre luoghi:

la casa dell’infanzia, la gelateria e il liceo.

Tre luoghi che vuole raggiungere non tanto perché gli diano conforto, ma perché sono familiari e conosciuti, gli unici dove può veramente sentirsi a casa. Anche se nel peggiore dei modi.

La prima tappa è la casa dell’infanzia, dove Jake raccoglie tutta la sua personalità, fra i libri, i dipinti e i film. Il luogo della formazione, raccontata soprattutto dalla bocca della madre, con quelli che però Jake non vive come una sequela di insuccessi.

E dove rivive anche tutte le fasi della vita con i suoi genitori, particolarmente la loro vecchiaia e morte, nonché la – percepita? – assenza degli stessi, che si fanno aspettare moltissimo prima di accoglierlo.

E dove nasconde la sua parte più vera, ma anche più vergognosa: le sue divise da bidello.

La gelateria in I’m Thinking of Ending Things

Jessie Buckley in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

La seconda tappa è la gelateria.

Un luogo particolarmente ostico per Jake: non può neanche avvicinarsi al bancone, perché sa che non verrà considerato, ma solamente ignorato o deriso. E infatti quasi per tutta la sequenza dà le spalle alla scena, restando a qualche passo di distanza.

Probabilmente un riferimento ad un ricordo di adolescenza, in cui veniva totalmente respinto dalle ragazze del posto.

Tuttavia la sua personalità viene trasmessa anche ad una delle commesse della gelateria, la ragazza più timida che li serve e che riprende le sue stesse parole. E infatti il parallelismo è tanto evidente quando Jake gli porge i soldi e si vede che entrambi hanno gli stessi sfoghi sulla mano.

E la stessa ragazza mette in guardia Lucy da Jake, ma in realtà sta mettendo in guardia sé stesso: non fare il passo, non andartene, resta nei luoghi della memoria.

La scuola I’m Thinking of Ending Things

Guy Boyd in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

L’ultima tappa: il liceo.

Il luogo che rappresenta il presente più drammatico e la fantasia più sfrenata. Qui probabilmente Jake ha vissuto tutta la sua adolescenza nella sofferenza di essere sempre un invisibile, una persona costantemente derisa e non considerata.

E lo è tanto più nel presente, quando ha un impiego umile e spesso mal considerato. E può solo osservare come spettatore – e lo è in un certo modo anche nel film stesso – la vita che prosegue per altri, ma sempre uguale per lui.

La decostruzione

Jesse Plemons in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Nel finale Jake si allontana totalmente dalla realtà, e tutto diventa spettacolo in cui lui – finalmente – è il protagonista.

Prima attraverso il ballo, in cui due ballerini piacenti prendono le vesti di Lucy e Jake, e ballano per raccontare il loro amore. Ma il colpo di scena mostra ancora una volta Jake come l’antagonista della storia, che uccide l’eroe per conquistare la ragazza. Ma la stessa lo abbandona.

Poi nel camioncino, dove comincia veramente la morte e dove vede il cartone con protagonista la pagliaccetta dei suoi sogni, per poi essere condotto dal maiale divorato dai vermi verso una morte più serena. E questa avviene prima attraverso il musical – di cui è protagonista – e poi con il discorso di ringraziamento.

Uno spettacolo davanti a tutti i personaggi della storia, e anche ai ragazzi che lo prendano in giro, tutti con un trucco evidentemente posticcio, a testimonianza della totale fantasia della situazione.

Ed è la fine.

Di una recensione in cui ho scalfito solo la superficie di un’opera immensa.

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Bardo – Alla ricerca del nulla

Bardo La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu è un film di genere surreale misto al biopic, prodotto e distribuito da Netflix. Il regista, che ha avuto il suo successo internazionale con Birdman (2014) e The Revenant (2015), torna sui suoi passi con un’opera più intima e personale.

Forse anche troppo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Bardo – La cronaca falsa di alcune verità (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore fotografia

Di cosa parla Bardo?

Silverio è un giornalista e documentarista messicano, che verrà premiato negli Stati Uniti per il suo ultimo documentario. E questo gli crea diversi ripensamenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bardo?

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Tendenzialmente, no.

Avendo avuto già una complessiva piacevole esperienza con il cinema di Iñárritu, riesco ad essere leggermente più morbida nella valutazione di questa pellicola, e non cadere nel totale respingimento come era stato per Madre! (2017).

E per certi versi i due film non differiscono molto.

Mi sono trovata davanti, in entrambi i casi, a due prodotti con un’interessante idea alle spalle, che però il regista è stato incapace di portare sullo schermo in maniera veramente interessante, diventando eccessivo e inutilmente ridondante.

È il classico film che potrebbe essere adorato da alcuni, anche per affezione nei confronti del regista, e invece odiato da altri. Se vi sentite molto vicini al suo cinema e ad Iñárritu umanamente parlando, e sopratutto vi piacciono i film con taglio profondamente onirico e surreale, potrebbe anche piacervi.

Io, personalmente, non lo consiglio.

Il problema del surreale

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Il genere surreale è uno dei miei preferiti, a livello davvero crossmediale: che sia cinema, fumetti, libri, è un taglio narrativo che apprezzo quasi sempre.

Proprio amandolo così tanto, sono anche consapevole che sia un’arma a doppio taglio: alla base di un racconto di questo tipo ci deve essere un’idea forte, che funzioni, e che riesca ad essere distribuita organicamente all’interno di una storia.

E non è così semplice.

Se non si riesce a gestirla con la giusta capacità e intelligenza, si rischia facilmente di andare ad impelagarsi in una narrazione che appare fine a se stessa, che magari ha un significato di base, ma che alla fine non si riesce a trasmettere.

E questo è un po’ tutto il problema di questa pellicola.

Inaccessibile

Daniel Giménez-Cacho García e Fabiola Guajardo in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Per quanto un autore voglia arroccarsi nella sua torre d’avorio e sentirsi incompreso, se la sua opera non viene letta e fruita, scompare.

E così, se un film è comprensibile solo per il suo autore, è un film solo per se stesso.

In Bardo troviamo un racconto fondamentalmente autobiografico e sicuramente sentito, ma che per molte parti diventa comprensibile solamente al regista stesso. Se infatti lo spettatore può complessivamente comprendere il messaggio di base, si perde inevitabilmente nell’oceano di riferimenti e di costruzioni della pellicola.

Ovviamente non mancheranno molti spettatori che avranno solo che piacere a perdersi nell’immensità del racconto dell’interiorità del regista, andandone a scovare tutti i significati nascosti.

Non è il mio caso.

Mancanza di interesse

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

A livello di esperienza personale, il film non solo mi ha confuso, ma ha smesso di interessarmi praticamente da subito.

Infatti ho seguito la narrazione di Iñárritu fin dove questa mi intrigava, ma mi sono bloccata davanti alla mancanza di chiavi di lettura possibili e a questa narrazione sicuramente intima e sentita, ma inaccessibile e, in ultimo, poco interessante.

Esistono diverse opere – anche al di fuori dal mondo del cinema – che sono difficili da leggere e che presentano diverse chiavi di lettura. È il caso ad esempio di I’m Thinking of Ending Things (2020), uno dei film più complessi che abbia mai visto in vita mia. Tuttavia, in quel caso, mi sono trovata davanti ad un’opera aperta e piena di significati, che avevo interesse di scoprire.

In questo caso, l’unico modo per comprenderla sarebbe farmela spiegare dal regista stesso.

Mettere le mani avanti

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

C’è solo un elemento che mi ha fatto veramente arrabbiare di questa pellicola.

Come anche abbastanza comprensibile, davanti ad un’impresa così complessa come questa produzione Iñárritu si è sentito già sommerso dalle critiche che avrebbe potuto ricevere. E per questo ha deciso di rispondere alle stesse nella pellicola.

E nella maniera più antipatica e pretenziosa possibile.

Durante la festa infatti, il protagonista parla col pomposo Luis, che critica pesantemente il suo documentario. Così, metanarrativamente parlando, critica l’opera stessa di cui fa parte, dando voce a delle critiche che sinceramente io mi sento abbastanza di avvallare:

I think it’s pretentious. It’s pointless oneric. It’s oneiric cover up for your mediocre writing.

È pretenzioso. Inutilmente onirico. Lo è per mascherare la scrittura mediocre.

E davanti alla scena in cui il personaggio, e quindi il regista stesso, silenzia questa opinione – letteralmente – mi sono sentita personalmente colpita.

E non positivamente.

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Triangle of sadness – Siamo tutti uguali

Triangle of sadness (2022) è l’ultima opera di Ruben Östlund, regista svedese che ha conquistato per la seconda volta la Palma d’Oro a Cannes, dopo averla già vinta col precedente The Square (2017).

Un film che è passato fondamentalmente sotto silenzio, e che in Italia si è cercato di vendere come un film molto divertente. In realtà è una pellicola devastante, e per diversi motivi. E non a caso, davanti ad un budget risicatissimo (13 milioni di euro), ha incassato comunque pochissimo: per ora, appena 7 milioni.

E non potrei essere meno sorpresa.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Triangle of sadness (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Di cosa parla Triangle of sadness?

Carl e Yaya sono due modelli, che si trovano a gestire la loro insidiosa relazione, sullo sfondo di una crociera di lusso che prende una piega inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Triangle of sadness?

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

È complicato.

Io di mio l’ho trovato un film davvero incredibile, fra i migliori usciti quest’anno. Ma, al di là del mio apprezzamento personale e del grande valore artistico e politico della pellicola, è potenzialmente una pellicola che molti potrebbero profondamente odiare.

Diciamo che se non riuscite a ritrovarvi in una humor nerissimo, che gioca moltissimo sulle battute paradossali e al limite dell’angosciante, potrebbe darvi solo fastidio. È un film da cui bisogna lasciarsi davvero rapire, con tutto il suo devastante significato.

Se vi sentite pronti, guardatelo.

Prologo

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta conclusa la pellicola, la prima parte dedicata ai due apparenti protagonisti potrebbe apparire fondamentalmente inutile alla storia.

In realtà, tutta la prima parte, se la si guarda con attenzione, è un gigantesco foreshadowing del terzo atto del film. Infatti all’inizio Yaya racconta come la relazione con Carl non sia frutto dell’amore, ma di un rapporto di mutuo vantaggio.

Anche se non viene spiegato esplicitamente, è probabile che si intenda che, come Yaya ottenga maggiore attenzione potendo pubblicizzare la sua relazione con un bel ragazzo come Carl, così Carl possa vivere della luce di lei.

E così la ragazza racconta come l’unico modo in cui può uscire dal lavoro sfiancante del mondo della moda è quello di diventare una moglie trofeo per qualcun altro, idealmente Carl.

Così nel terzo atto Carl stesso diventa il marito trofeo di Abigail, sempre in una relazione non amorosa, ma di vantaggio: la donna può intrattenersi con un ragazzo piacente, mentre quello stesso ragazzo può avere un vantaggio sociale nella loro piccola comunità.

Incomprensione

Sunnyi Melles in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Uno degli elementi principali della pellicola è la totale incomprensione della classe sociale più agiata verso la realtà del mondo.

Il momento più agghiacciante in questo senso è quando Vera costringe tutto l’equipaggio della nave a scendere dallo scivolo della nave e a farsi un bagno.

Dal suo (apparente) punto di vista, in questo modo avviene una giocosa inversione dei ruoli. In realtà è solo una donna potente che ha fatto uso del suo potere per utilizzare i suoi sottoposti come preferisce.

Altrettanto graffiante la scena in cui la coppia anziana che vende bombe raccoglie candidamente la mina antiuomo, e la donna chiede

È una delle nostre?

A seguito di un dialogo anche più agghiacciante avvenuto prima fra la coppia e i due protagonisti, in cui i due raccontano candidamente e in maniera così paradossale da essere esilarante, di come i loro affari siano stati guastati dagli stupidi tentativi dell’ONU di evitare spargimenti di sangue.

Ma è un mondo fragile e illusorio.

Fragilità

Vicki Berlin Tarp, Dolly Earnshaw de Leon e Charlbi Dean Kriek in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta sbarcati sull’isola, i sistemi della società si azzerano, principalmente per mano di Abigail. Infatti la donna, una volta pescato il polpo, si rende subito conto del valore del suo operato, e ne sfrutta tutto il vantaggio.

E, anche se Paula cerca immediatamente di ridimensionarla, i bisogni primari sono così pressanti che il nuovo ordine viene subito stabilito.

Ed è tanto più evidente da dove nasceva la scintilla di questa nuova idea quando Abigail si trova improvvisamente seduta su un piccolo tesoro di acqua e cibo tanto desiderato, e a malincuore (e pure ingiustamente) deve cederlo a chi non ha nessun motivo di averlo.

E questo porta anche ad un’interessante riflessione sulla fragilità della società capitalista: basta davvero così poco per stravolgerla e mettere di nuovo al primo posto chi di fatto porta un vero valore alla società?

A quanto pare, sì.

Angoscia

Come detto, se si riesce ad essere coinvolti con l’umorismo del film, può risultare incredibilmente divertente.

Io personalmente raramente mi sono divertita così tanto.

Tuttavia, è una risata angosciante, che ti fa ridere solo superficialmente, ma che, se si ragiona veramente sul significato dei dialoghi e delle scene, è incredibilmente angosciante – fra l’altro, con molto spesso una regia che gioca molto sul contrasto fra l’incredibilmente divertente e il drammaticamente devastante.

Due fra tutte: i discorsi surreali di Dimitry e del capitano Thomas, assolutamente spassosi che fanno però da sottofondo ad inquadrature particolarmente tragiche degli ospiti della nave impauriti.

Anche di più quando Dimitry discute concitato con Paola e Nelson accusando quest’ultimo di essere un pirata, mentre vediamo Theresa, una donna disabile che non ha più nessuno ad aiutarla, impotente nella scialuppa.

E la regia stessa spesso sacrifica la più basilare grammatica della messa in scena per farci immergere nei personaggi e nelle loro espressioni.

A volte inserendo degli effettivamente elementi di disturbo nella scena, che servono a sottolineare la drammaticità di fondo, come l’insopportabile mosca quando Carla e Yaya discutono sulla nave.

Una società di simboli

Molto interessante è stato rappresenta la società della ricca borghesia come basata su un sistema di simboli in cui viene dato un valore più di rappresentanza che economico.

Così i due ricconi, Dimitry e Jarmo, cercano di pagare il loro ingresso nella scialuppa offrendo orologi di lusso. Così Carl è particolarmente contento quando trova un profumo fra i detriti. E tanto più grottesco quando Dimitry ritrova il corpo della moglie e la cosa più importante è recuperare i gioielli dal suo cadavere.

Cosa succede nel finale di Triangle of Sadness?

Il finale di Triangle of sadness è molto ambiguo, ma la dinamica è del tutto chiara: mentre Yaya offre ad Abigail di diventare la sua assistente, la donna si rende conto di come uscire dalla piccola società che si è creata la depotenzierà, ma, soprattutto, la riporterà in un mondo ingiusto e castrante.

Per me quindi quel colpo è stato calato.

E per lo stesso motivo Carl, il personaggio più vicino a comprendere il dramma di Abigail, alla fine sta forse cercando di correre in aiuto alla fidanzata. Oppure alla donna prima che abbia un risvolto violento.