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I’m Thinking of Ending Things – Storia di un pensiero intrusivo

I’m Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman è stata una sorpresa e un dramma durante un anno già di per sé piuttosto drammatico. Dallo sceneggiatore dell’amatissimo The Eternal Sunshine of the Spotless mind (2004), una splendida pellicola passata praticamente sotto al silenzio.

Un’opera complessa e meravigliosa nella sua complessità.

Di cosa parla I’m Thinking of Ending Things?

Jake e la sua fidanzata affrontano un lungo viaggio in macchina, in mezzo alla bufera, per raggiungere la casa dei suoi genitori. Fra discorsi apparentemente insignificanti e senza senso, questa vicenda racconta molto più di quanto appaia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare I’m Thinking of Ending Things?

Jessie Buckley, Jesse Plemons, Toni Collette, David Thewlis in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Assolutamente sì.

Ma.

Dire che I’m Thinking of Ending Things è complesso non basta per spiegare l’immensità della complessità di questa pellicola. Letteralmente ogni scena, ogni battuta e ogni elemento di questo film è aperto all’interpretazione e tutto si collega in una rete di significati profondi e complessi.

A volte potreste trovarvi totalmente disarmati e confusi: sembra che tutto abbia senso in scena, eppure che niente abbia senso, per una pellicola che richiede una continua e costante concentrazione.

Insomma, un film immenso, ma che bisogna guardare con la giusta propensione.

La cornice

Guy Boyd in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Per comprendere la pellicola, bisogna anzitutto comprendere la cornice narrativa.

Jake è un bidello in un liceo, che si sente completamente invisibile e inutile agli occhi di tutti. Per questo crea nella sua immaginazione una storia delirante, in cui mischia la fantasia e la memoria, arrivando anche a decostruire la narrazione.

Un personaggio talmente inetto che diventa nemico di sé stesso all’interno della sua stessa storia, mischiando il suo desiderio di attenzioni con una sorta di consapevolezza personale, sentendosi lacerato da due tendenze opposte: vita e morte.

Una sorta di ricerca disperata di una conferma di una vita non inutilmente vissuta.

Proprio prima di metterle fine.

La protagonista inconsapevole

Jessie Buckley in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

La giovane donna è il personaggio più complesso e interessante del film.

Una donna che vive senza nome e senza un’identità, come una sorta di figura da plasmare e riplasmare in ogni momento: ora è una fisica, ora una pittrice, poi una cameriera. Come donna rappresenta tutte le donne che Jake ha sempre desiderato, ma che non ha potuto avere.

Ed è evidente nel finale che il desiderio di avere una donna al suo fianco non fosse legata tanto ad una mancanza di amore, ma alla ricerca di un riconoscimento sociale.

Solo in rari momenti Lucy è una figura accondiscendente con Jake: al contrario, nella maggior parte del tempo è la donna splendida e inarrivabile, con cui l’uomo ha un rapporto continuamente antagonistico e da cui si sente minacciato.

Jessie Buckley in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Un personaggio senza identità, ma con tante identità: la donna del desiderio, una sorta di coscienza, le delusioni, il desiderio di morte, Jake stesso.

Nella realtà, una ragazza incontrata in maniera fuggevole, che neanche l’aveva considerato.

Nella fantasia rappresenta una sorta di presa di coscienza di Jake, un pensiero intrusivo che il non-protagonista cerca di combattere: i’m thinking of ending things, sto pensando di finirla qui, sto pensando di morire. E infatti, durante tutte le scene insieme, soprattutto quando Lucy sta per esprimere questo pensiero ad alta voce, Jake la blocca immediatamente.

E cerca di ricondurla verso luoghi familiari, che possono evitare l’inevitabile fine.

Luoghi familiari e terribili

Jessie Buckley, Jesse Plemons, Toni Collette, David Thewlis in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Durante il viaggio, Jake spinge per fermarsi assolutamente in tre luoghi:

la casa dell’infanzia, la gelateria e il liceo.

Tre luoghi che vuole raggiungere non tanto perché gli diano conforto, ma perché sono familiari e conosciuti, gli unici dove può veramente sentirsi a casa. Anche se nel peggiore dei modi.

La prima tappa è la casa dell’infanzia, dove Jake raccoglie tutta la sua personalità, fra i libri, i dipinti e i film. Il luogo della formazione, raccontata soprattutto dalla bocca della madre, con quelli che però Jake non vive come una sequela di insuccessi.

E dove rivive anche tutte le fasi della vita con i suoi genitori, particolarmente la loro vecchiaia e morte, nonché la – percepita? – assenza degli stessi, che si fanno aspettare moltissimo prima di accoglierlo.

E dove nasconde la sua parte più vera, ma anche più vergognosa: le sue divise da bidello.

La gelateria in I’m Thinking of Ending Things

Jessie Buckley in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

La seconda tappa è la gelateria.

Un luogo particolarmente ostico per Jake: non può neanche avvicinarsi al bancone, perché sa che non verrà considerato, ma solamente ignorato o deriso. E infatti quasi per tutta la sequenza dà le spalle alla scena, restando a qualche passo di distanza.

Probabilmente un riferimento ad un ricordo di adolescenza, in cui veniva totalmente respinto dalle ragazze del posto.

Tuttavia la sua personalità viene trasmessa anche ad una delle commesse della gelateria, la ragazza più timida che li serve e che riprende le sue stesse parole. E infatti il parallelismo è tanto evidente quando Jake gli porge i soldi e si vede che entrambi hanno gli stessi sfoghi sulla mano.

E la stessa ragazza mette in guardia Lucy da Jake, ma in realtà sta mettendo in guardia sé stesso: non fare il passo, non andartene, resta nei luoghi della memoria.

La scuola I’m Thinking of Ending Things

Guy Boyd in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

L’ultima tappa: il liceo.

Il luogo che rappresenta il presente più drammatico e la fantasia più sfrenata. Qui probabilmente Jake ha vissuto tutta la sua adolescenza nella sofferenza di essere sempre un invisibile, una persona costantemente derisa e non considerata.

E lo è tanto più nel presente, quando ha un impiego umile e spesso mal considerato. E può solo osservare come spettatore – e lo è in un certo modo anche nel film stesso – la vita che prosegue per altri, ma sempre uguale per lui.

La decostruzione

Jesse Plemons in una scena di I'm Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman

Nel finale Jake si allontana totalmente dalla realtà, e tutto diventa spettacolo in cui lui – finalmente – è il protagonista.

Prima attraverso il ballo, in cui due ballerini piacenti prendono le vesti di Lucy e Jake, e ballano per raccontare il loro amore. Ma il colpo di scena mostra ancora una volta Jake come l’antagonista della storia, che uccide l’eroe per conquistare la ragazza. Ma la stessa lo abbandona.

Poi nel camioncino, dove comincia veramente la morte e dove vede il cartone con protagonista la pagliaccetta dei suoi sogni, per poi essere condotto dal maiale divorato dai vermi verso una morte più serena. E questa avviene prima attraverso il musical – di cui è protagonista – e poi con il discorso di ringraziamento.

Uno spettacolo davanti a tutti i personaggi della storia, e anche ai ragazzi che lo prendano in giro, tutti con un trucco evidentemente posticcio, a testimonianza della totale fantasia della situazione.

Ed è la fine.

Di una recensione in cui ho scalfito solo la superficie di un’opera immensa.

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Bardo – Alla ricerca del nulla

Bardo La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu è un film di genere surreale misto al biopic, prodotto e distribuito da Netflix. Il regista, che ha avuto il suo successo internazionale con Birdman (2014) e The Revenant (2015), torna sui suoi passi con un’opera più intima e personale.

Forse anche troppo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Bardo – La cronaca falsa di alcune verità (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore fotografia

Di cosa parla Bardo?

Silverio è un giornalista e documentarista messicano, che verrà premiato negli Stati Uniti per il suo ultimo documentario. E questo gli crea diversi ripensamenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bardo?

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Tendenzialmente, no.

Avendo avuto già una complessiva piacevole esperienza con il cinema di Iñárritu, riesco ad essere leggermente più morbida nella valutazione di questa pellicola, e non cadere nel totale respingimento come era stato per Madre! (2017).

E per certi versi i due film non differiscono molto.

Mi sono trovata davanti, in entrambi i casi, a due prodotti con un’interessante idea alle spalle, che però il regista è stato incapace di portare sullo schermo in maniera veramente interessante, diventando eccessivo e inutilmente ridondante.

È il classico film che potrebbe essere adorato da alcuni, anche per affezione nei confronti del regista, e invece odiato da altri. Se vi sentite molto vicini al suo cinema e ad Iñárritu umanamente parlando, e sopratutto vi piacciono i film con taglio profondamente onirico e surreale, potrebbe anche piacervi.

Io, personalmente, non lo consiglio.

Il problema del surreale

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Il genere surreale è uno dei miei preferiti, a livello davvero crossmediale: che sia cinema, fumetti, libri, è un taglio narrativo che apprezzo quasi sempre.

Proprio amandolo così tanto, sono anche consapevole che sia un’arma a doppio taglio: alla base di un racconto di questo tipo ci deve essere un’idea forte, che funzioni, e che riesca ad essere distribuita organicamente all’interno di una storia.

E non è così semplice.

Se non si riesce a gestirla con la giusta capacità e intelligenza, si rischia facilmente di andare ad impelagarsi in una narrazione che appare fine a se stessa, che magari ha un significato di base, ma che alla fine non si riesce a trasmettere.

E questo è un po’ tutto il problema di questa pellicola.

Inaccessibile

Daniel Giménez-Cacho García e Fabiola Guajardo in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

Per quanto un autore voglia arroccarsi nella sua torre d’avorio e sentirsi incompreso, se la sua opera non viene letta e fruita, scompare.

E così, se un film è comprensibile solo per il suo autore, è un film solo per se stesso.

In Bardo troviamo un racconto fondamentalmente autobiografico e sicuramente sentito, ma che per molte parti diventa comprensibile solamente al regista stesso. Se infatti lo spettatore può complessivamente comprendere il messaggio di base, si perde inevitabilmente nell’oceano di riferimenti e di costruzioni della pellicola.

Ovviamente non mancheranno molti spettatori che avranno solo che piacere a perdersi nell’immensità del racconto dell’interiorità del regista, andandone a scovare tutti i significati nascosti.

Non è il mio caso.

Mancanza di interesse

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

A livello di esperienza personale, il film non solo mi ha confuso, ma ha smesso di interessarmi praticamente da subito.

Infatti ho seguito la narrazione di Iñárritu fin dove questa mi intrigava, ma mi sono bloccata davanti alla mancanza di chiavi di lettura possibili e a questa narrazione sicuramente intima e sentita, ma inaccessibile e, in ultimo, poco interessante.

Esistono diverse opere – anche al di fuori dal mondo del cinema – che sono difficili da leggere e che presentano diverse chiavi di lettura. È il caso ad esempio di I’m Thinking of Ending Things (2020), uno dei film più complessi che abbia mai visto in vita mia. Tuttavia, in quel caso, mi sono trovata davanti ad un’opera aperta e piena di significati, che avevo interesse di scoprire.

In questo caso, l’unico modo per comprenderla sarebbe farmela spiegare dal regista stesso.

Mettere le mani avanti

Daniel Giménez-Cacho García in una scena di Bardo - La cronaca falsa di alcune verità (2022) di Alejandro Iñárritu

C’è solo un elemento che mi ha fatto veramente arrabbiare di questa pellicola.

Come anche abbastanza comprensibile, davanti ad un’impresa così complessa come questa produzione Iñárritu si è sentito già sommerso dalle critiche che avrebbe potuto ricevere. E per questo ha deciso di rispondere alle stesse nella pellicola.

E nella maniera più antipatica e pretenziosa possibile.

Durante la festa infatti, il protagonista parla col pomposo Luis, che critica pesantemente il suo documentario. Così, metanarrativamente parlando, critica l’opera stessa di cui fa parte, dando voce a delle critiche che sinceramente io mi sento abbastanza di avvallare:

I think it’s pretentious. It’s pointless oneric. It’s oneiric cover up for your mediocre writing.

È pretenzioso. Inutilmente onirico. Lo è per mascherare la scrittura mediocre.

E davanti alla scena in cui il personaggio, e quindi il regista stesso, silenzia questa opinione – letteralmente – mi sono sentita personalmente colpita.

E non positivamente.

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Triangle of sadness – Siamo tutti uguali

Triangle of sadness (2022) è l’ultima opera di Ruben Östlund, regista svedese che ha conquistato per la seconda volta la Palma d’Oro a Cannes, dopo averla già vinta col precedente The Square (2017).

Un film che è passato fondamentalmente sotto silenzio, e che in Italia si è cercato di vendere come un film molto divertente. In realtà è una pellicola devastante, e per diversi motivi. E non a caso, davanti ad un budget risicatissimo (13 milioni di euro), ha incassato comunque pochissimo: per ora, appena 7 milioni.

E non potrei essere meno sorpresa.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Triangle of sadness (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Di cosa parla Triangle of sadness?

Carl e Yaya sono due modelli, che si trovano a gestire la loro insidiosa relazione, sullo sfondo di una crociera di lusso che prende una piega inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Triangle of sadness?

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

È complicato.

Io di mio l’ho trovato un film davvero incredibile, fra i migliori usciti quest’anno. Ma, al di là del mio apprezzamento personale e del grande valore artistico e politico della pellicola, è potenzialmente una pellicola che molti potrebbero profondamente odiare.

Diciamo che se non riuscite a ritrovarvi in una humor nerissimo, che gioca moltissimo sulle battute paradossali e al limite dell’angosciante, potrebbe darvi solo fastidio. È un film da cui bisogna lasciarsi davvero rapire, con tutto il suo devastante significato.

Se vi sentite pronti, guardatelo.

Prologo

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta conclusa la pellicola, la prima parte dedicata ai due apparenti protagonisti potrebbe apparire fondamentalmente inutile alla storia.

In realtà, tutta la prima parte, se la si guarda con attenzione, è un gigantesco foreshadowing del terzo atto del film. Infatti all’inizio Yaya racconta come la relazione con Carl non sia frutto dell’amore, ma di un rapporto di mutuo vantaggio.

Anche se non viene spiegato esplicitamente, è probabile che si intenda che, come Yaya ottenga maggiore attenzione potendo pubblicizzare la sua relazione con un bel ragazzo come Carl, così Carl possa vivere della luce di lei.

E così la ragazza racconta come l’unico modo in cui può uscire dal lavoro sfiancante del mondo della moda è quello di diventare una moglie trofeo per qualcun altro, idealmente Carl.

Così nel terzo atto Carl stesso diventa il marito trofeo di Abigail, sempre in una relazione non amorosa, ma di vantaggio: la donna può intrattenersi con un ragazzo piacente, mentre quello stesso ragazzo può avere un vantaggio sociale nella loro piccola comunità.

Incomprensione

Sunnyi Melles in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Uno degli elementi principali della pellicola è la totale incomprensione della classe sociale più agiata verso la realtà del mondo.

Il momento più agghiacciante in questo senso è quando Vera costringe tutto l’equipaggio della nave a scendere dallo scivolo della nave e a farsi un bagno.

Dal suo (apparente) punto di vista, in questo modo avviene una giocosa inversione dei ruoli. In realtà è solo una donna potente che ha fatto uso del suo potere per utilizzare i suoi sottoposti come preferisce.

Altrettanto graffiante la scena in cui la coppia anziana che vende bombe raccoglie candidamente la mina antiuomo, e la donna chiede

È una delle nostre?

A seguito di un dialogo anche più agghiacciante avvenuto prima fra la coppia e i due protagonisti, in cui i due raccontano candidamente e in maniera così paradossale da essere esilarante, di come i loro affari siano stati guastati dagli stupidi tentativi dell’ONU di evitare spargimenti di sangue.

Ma è un mondo fragile e illusorio.

Fragilità

Vicki Berlin Tarp, Dolly Earnshaw de Leon e Charlbi Dean Kriek in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta sbarcati sull’isola, i sistemi della società si azzerano, principalmente per mano di Abigail. Infatti la donna, una volta pescato il polpo, si rende subito conto del valore del suo operato, e ne sfrutta tutto il vantaggio.

E, anche se Paula cerca immediatamente di ridimensionarla, i bisogni primari sono così pressanti che il nuovo ordine viene subito stabilito.

Ed è tanto più evidente da dove nasceva la scintilla di questa nuova idea quando Abigail si trova improvvisamente seduta su un piccolo tesoro di acqua e cibo tanto desiderato, e a malincuore (e pure ingiustamente) deve cederlo a chi non ha nessun motivo di averlo.

E questo porta anche ad un’interessante riflessione sulla fragilità della società capitalista: basta davvero così poco per stravolgerla e mettere di nuovo al primo posto chi di fatto porta un vero valore alla società?

A quanto pare, sì.

Angoscia

Come detto, se si riesce ad essere coinvolti con l’umorismo del film, può risultare incredibilmente divertente.

Io personalmente raramente mi sono divertita così tanto.

Tuttavia, è una risata angosciante, che ti fa ridere solo superficialmente, ma che, se si ragiona veramente sul significato dei dialoghi e delle scene, è incredibilmente angosciante – fra l’altro, con molto spesso una regia che gioca molto sul contrasto fra l’incredibilmente divertente e il drammaticamente devastante.

Due fra tutte: i discorsi surreali di Dimitry e del capitano Thomas, assolutamente spassosi che fanno però da sottofondo ad inquadrature particolarmente tragiche degli ospiti della nave impauriti.

Anche di più quando Dimitry discute concitato con Paola e Nelson accusando quest’ultimo di essere un pirata, mentre vediamo Theresa, una donna disabile che non ha più nessuno ad aiutarla, impotente nella scialuppa.

E la regia stessa spesso sacrifica la più basilare grammatica della messa in scena per farci immergere nei personaggi e nelle loro espressioni.

A volte inserendo degli effettivamente elementi di disturbo nella scena, che servono a sottolineare la drammaticità di fondo, come l’insopportabile mosca quando Carla e Yaya discutono sulla nave.

Una società di simboli

Molto interessante è stato rappresenta la società della ricca borghesia come basata su un sistema di simboli in cui viene dato un valore più di rappresentanza che economico.

Così i due ricconi, Dimitry e Jarmo, cercano di pagare il loro ingresso nella scialuppa offrendo orologi di lusso. Così Carl è particolarmente contento quando trova un profumo fra i detriti. E tanto più grottesco quando Dimitry ritrova il corpo della moglie e la cosa più importante è recuperare i gioielli dal suo cadavere.

Cosa succede nel finale di Triangle of Sadness?

Il finale di Triangle of sadness è molto ambiguo, ma la dinamica è del tutto chiara: mentre Yaya offre ad Abigail di diventare la sua assistente, la donna si rende conto di come uscire dalla piccola società che si è creata la depotenzierà, ma, soprattutto, la riporterà in un mondo ingiusto e castrante.

Per me quindi quel colpo è stato calato.

E per lo stesso motivo Carl, il personaggio più vicino a comprendere il dramma di Abigail, alla fine sta forse cercando di correre in aiuto alla fidanzata. Oppure alla donna prima che abbia un risvolto violento.

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Il pasto nudo – Oltre al sogno

Il pasto nudo (1991) è uno dei film di Cronenberg più complesso e particolare, dove in parte si allontana dalla sua estetica più tipica, riuscendo al contempo ad inserire i suoi elementi iconici.

Una pellicola tratta dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, ispirato anche alle circostanze della stesura dell’opera stessa. Una pellicola molto complessa, con al centro uno dei temi cari a Cronenberg, ovvero il controllo mentale, già raccontato in Videodrome (1986).

Questo film fu un altro flop terrificante: davanti ad un budget di 17 milioni, ne incassò appena 2,6 in tutto il mondo.

Ma in questo caso basta veramente vedere il film per capire perché.

Di cosa parla Il pasto nudo?

Bill è un disinfestatore, che rimane progressivamente sempre più intossicato dal suo stesso veleno. Comincia così un viaggio fra il sogno e l’orrore, coinvolto in un intrigo spionistico internazionale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Il pasto nudo?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Dipende.

Vale indubbiamente la pena di guardarlo, ma non è detto che vi piaccia: dovete avere già di vostro la volontà di lasciarvi rapire da un contesto del tutto surreale e volutamente enigmatico, dove solo ogni tanto troverete degli sprazzi di realtà…

Preparatevi insomma ad una pellicola davvero complessa, che, come esperienza, potrei paragonare a The Lighthouse (2021).

Tuttavia, un trigger alert è dovuto: è un film legato molto agli insetti, di cui la maggior parte sono evidentemente finti. Tuttavia, ci sono un paio di scene in cui ci sono veri o sembrano tali. In generale, non è mai un bello spettacolo se siete sensibili sull’argomento…

Vi ho avvertiti.

Il contrasto della messinscena

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Il taglio registico è del tutto particolare, in primo luogo per Cronenberg, che però ha sapientemente deciso di utilizzare in scena un’estetica tipica del periodo in cui è ambientata la pellicola.

Fra l’altro calcando la mano sui colori pastello e il jazz leggero di sottofondo, rendendola una pellicola dal sapore hitchcockiano, solo più ammorbidito e surreale.

Ed è un contrasto devastante sia con quello che succede in scena, sia nelle esplosioni proprie di Cronenberg, in particolare nella sequenza agghiacciante in cui Clark Nova sbrana ferocemente la macchina da scrivere nemica.

Un taglio estetico che è riuscito paradossalmente a rendermi ancora più inquieta.

Dov’è la realtà?

Peter Weller in una scena di Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg

Sarebbe molto semplicistico dire che il protagonista sia semplicemente preda del delirio indotto dalla droga e dal veleno, anche se questa interpretazione sarebbe suggerita dai momenti in cui sembra squarciare il velo del sogno e piombare nella realtà.

In particolare, quando la macchina da scrivere è una effettiva macchina da scrivere e quando gli amici del protagonista lo vengono a trovare e vedono che quella che tiene nel sacco non è una macchina da scrivere, ma un sacco di droghe.

Tuttavia è tanto più meraviglioso, per immergersi davvero nella pellicola, non tentare di andare a spiegare realisticamente tutti gli elementi del film, finendo per uscirne pazzi – peggio dei protagonisti. Insomma, in qualche modo questo delirio della droga ha portato Bill a vedere quello che è veramente il mondo che lo circonda.

Costruzioni perfette

In questa pellicola non vi è un uso massiccio degli effetti visivi, ma, quando questo accade, sono costruzioni drammaticamente perfette. La macchina da scrivere nella sua forma insettoide è perfettamente integrata nella scena e sembra vera, tanto più quando cade a pezzi. Altrettanto indovinato sono l’enorme insetto e l’alieno con cui Bill dialoga, anche nella sua forma di macchina da scrivere.

Un’estetica molto tipica della fantascienza Anni Settanta-Ottanta, in particolare Star Wars, ma molto meno pupazzoso.

Mentre ancora una volta trovo che anche questo film, come per Videodrome, sia difettoso per gli effetti speciali umani.

Personalmente ho trovato così poco credibile e posticcio Yves Cloquet nella forma insettoide che possiede Kiki, che la scena non mi ha trasmesso per nulla l’effetto orrorifico e di sorpresa che avrebbe dovuto provocarmi.

Cosa succede nel finale?

Il finale è ovviamente aperto alle interpretazioni, ma la mia preferita è quella secondo la quale Bill è totalmente caduto nella sua allucinazione, ma nella stessa rivive la morte della moglie. E alla fine piange perché si rende conto di quello che è effettivamente successo e della pazzia in cui è caduto.

Un momento di drammatica consapevolezza.

La vera storia di Il pasto nudo

La storia è quanto più vicina alla vera vita di William Burroughs, l’autore di Il pasto nudo, di quanto si possa pensare.

Infatti William Burroughs uccise davvero accidentalmente la moglie con lo stesso metodo, era un disinfestatore e davvero cadde nel circolo della droga, che lo portò a scrivere la sua opera, vivendo per un periodo a Tangeri, in Marocco, la cosiddetta International zone.

E la storia venne scritta dall’autore che neanche si rendeva conto di star scrivendo, vivendo per un certo periodo proprio in una sorta di città come quella del film, abitata da mostri e creature.