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Zodiac – Il caso infinito

Zodiac (2007) di David Fincher fu il film con cui il regista tornò al genere del thriller puro, prendendo in parte le mosse da Seven (1997), pellicola per cui si era ispirato proprio al caso del Killer dello Zodiaco.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso (65 milioni di dollari), incassò piuttosto poco: appena 84 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Zodiac?

Davanti al caso di uno dei più enigmatici e spietati serial killer della storia statunitense, il timido disegnatore Robert Graysmith cerca di far luce dove la polizia brancola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zodiac?

Jake Gyllenhaal e Robert Downey Jr. in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

In generale, sì.

Non vedevo questo film da anni, nonostante ne avessi un buonissimo ricordo. E non mi sono di certo annoiata, però devo ammettere che, se non ci si sente coinvolti con la storia e, più in generale, se non si ha un minimo di interesse per il true crime, ci si potrebbe perdere facilmente nei dialoghi verbosi ed incredibilmente dettagliati dei personaggi.

Infatti, Zodiac non vuole essere un film semplice, che adatti la complessità del caso del Killer dello Zodiaco in modo che sia digeribile anche per il pubblico non esperto. Anzi, tutto il contrario: il film va estremamente nei particolari e sceglie un taglio verosimile e realistico, con pochi momenti di vera tensione.

Insomma, se con questa descrizione vi siete già annoiati, non ve lo consiglio.

Un killer banale

La particolarità del Killer dello Zodiaco fu il mito che si creò intorno ai suoi omicidi.

E fu tanto più peculiare tanto che il suo modus operandi non aveva niente di particolare o interessante, ma molto spesso si trattava semplicemente di uccisioni a sangue freddo. Insomma, se lo paragoniamo ad altri protagonisti della golden era dei serial killer statunitensi – Jeffrey Dahmer, per dirne uno – Zodiac appare decisamente il più banale.

Infatti, l’interesse intorno al suo caso nacque per due motivi: l’apparente impossibilità di catturarlo e il mito che lui stesso si costruì.

Zodiac mostra molto chiaramente la difficoltà, financo l’impossibilità, di identificare il vero colpevole nel marasma di prove e piste puramente indiziarie, che porta tutt’oggi questo caso ad essere ancora aperto.

Al contempo, fu il killer stesso – o chi per lui – ad alimentare il suo stesso mito, attraverso lettere deliranti ed enigmatiche – che in realtà non lo erano poi così tanto…

La complessità intrinseca

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Zodiac sceglie consapevolmente di essere complesso.

Come pubblico siamo abituati a thriller con un andamento tutto sommato lineare e complessivamente comprensibile – persino Seven, da un certo punto di vista – in cui noi stessi possiamo unire tutti gli indizi del caso ed arrivare soddisfacentemente alla rivelazione del killer.

Nel caso Zodiac non vi è nulla di semplice: dal momento che le prove sono pochissime ed indiziare, il caposaldo del caso sono le lettere stesse del colpevole, attraverso le quali si è cercato di identificarlo. Tuttavia, lo stesso metodo ha portato all’esclusione di sospettati piuttosto promettenti…

Tanto più complesso quanto la valutazione della grafia delle lettere non sembrava al tempo seguire una linea così precisa e netta, e si ipotizzava anche la possibilità che il killer avesse mutato appositamente la sua grafia…

L’ossessione dello spettatore

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Nel terzo atto, quando il caso sembra arrivato ormai ad un vicolo cieco, il film incalza la tensione e mette quasi del tutto al centro della scena Robert. E così lo spettatore segue la sua folle, impossibile impresa di smascherare Zodiac.

Ed è tanto più impossibile tanto più avvincente.

Infatti, anche se lo spettatore è consapevole che il caso non ha una conclusione, nondimeno può essere facilmente travolto dalla ricerca del protagonista, che si barcamena fra brandelli di prove, possibili collegamenti, ma mai niente di veramente concreto e definitivo…

Effettivamente le prove erano così indiziarie, i riscontri così dubbi – senza contare quel pizzico di sfortuna che ha definitivamente troncato il caso quando sembrava alla svolta – che il film assume un sapore quasi estenuante, ma non di meno coinvolgente, nella sua chiusura.

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The Game – Un inganno poco credibile

The Game (1997) di David Fincher è un thriller psicologico con protagonista Michael Douglas. Una pellicola per così dire minore e un po’ meno conosciuta di questo cineasta, ma che vale la pena di riscoprire.

A fronte di un budget di circa 70 milioni di dollari, fu un discreto flop: appena 109 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Game?

Nicholas è un businessman piuttosto sgradevole, con un tragico passato alle spalle. La sua vita ha una svolta quando il fratello lo coinvolge in un programma particolare, un gioco fatto su misura per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Game?

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

In generale, sì.

The Game era uno dei pochi film di Fincher che non avevo mai visto – e che sinceramente neanche conoscevo. La visione è stata complessivamente piacevole, grazie ad una tensione e ad una componente orrorifica ben gestita.

Sono invece rimasta meno convinta dello scioglimento della vicenda, che mi è sembrato per certi versi troppo sbrigativo e mancante di tutti gli elementi necessari – ma ammetto che potrei anche non averlo capito fino in fondo.

Tuttavia, rimane comunque una pellicola da riscoprire.

L’attore perfetto

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

Quando si sceglie il cast di una pellicola, la sfida più ardua è riuscire a trovare un attore che riesca veramente a rispecchiare, anche solo a primo impatto, il protagonista che abbiamo in mente.

Nel caso di The Game, Michael Douglas è semplicemente perfetto.

Un attore che sto riscoprendo negli ultimi anni e che risulta impeccabile ogni volta che interpreta un personaggio sgradevole e scorbutico – qui come anche nel classico di Joel Schumacher Un giorno di ordinaria follia (1993). E in questo caso era fondamentale che trasmettesse questa sensazione per tutta la pellicola.

Ma per me Douglas è un attore talmente straordinario che nel finale riesce a convincermi anche quando il suo personaggio si ammorbidisce, accettando lo scherzo ai suoi danni e la lezione che ne ha potuto trarre.

Ma in questo elemento si annida per me il principale problema del film.

Un inganno a strati

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

L’impalcatura narrativa della pellicola è basata su un inganno talmente stratificato che è impossibile scoprire la verità. Quando si costruisce questo tipo di narrazione, sono due gli elementi da tenere in conto: le sensazioni che trasmettiamo allo spettatore e un efficace scioglimento del mistero.

Per quanto riguarda la tensione che il film vuole trasmettere, mi ha tenuto facilmente attaccata allo schermo, mentre vedevo il mistero sempre più fitto e angosciante che travolgeva il protagonista.

Per quanto riguarda lo scioglimento, invece…

Uno scioglimento poco convincente

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

Il racconto di The Game mi ha ricordato per certi versi Yes Man (2008), anche se in una veste ovviamente più drammatica.

In realtà, come tante commedie di quel tipo di inizio Anni Duemila, mi aspettavo un tipico scioglimento in cui il protagonista rifletteva sulle sue scelte di vita, diventando una versione migliore di sé stesso. Ed in effetti è quello che succede: Nicolas da questa traumatica esperienza decide di cambiare vita, appunto.

Tuttavia, a me non ha convinto.

Le reazioni dei personaggi sono veramente poco credibili: il protagonista si è trovato coinvolto in uno scherzo – se così vogliamo dire – veramente traumatico, e che lo segnerà per tutta la vita – e non in senso positivo. E nel finale, nonostante un attimo prima fosse pronto a suicidarsi, accetta con fin troppa leggerezza tutta la situazione.

E infatti io mi aspettavo un plot twist finale che ci rivelasse che il gioco non era ancora finito…

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Seven – La (non) commedia

Seven (1995) di David Fincher è la seconda pellicola da lui diretta, ma quella che lo lanciò effettivamente come regista – dopo il dimenticatissimo Alien³ (1992). Un thriller che divenne un cult per tanti motivi, fra cui la totale follia e crudezza della storia, oltre all’incredibile finale…

A fronte di un budget abbastanza risicato (appena 30 milioni di dollari), incassò tantissimo: 327 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Seven?

Il Detective Mills è stato appena riassegnato ad una nuova divisione, sotto la guida del saggio detective William Somerset. E da subito si occuperà di un caso veramente senza precedenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Seven?

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Assolutamente sì.

Seven è un cult non per caso: oltre ad una regia piuttosto sperimentale e variegata e alle ottime prove attoriali, la storia è incredibilmente coinvolgente, piena di colpi di scena, anche non poco disturbanti – pur non scadendo mai nel gore.

Una pellicola davvero imperdibile, da vedere sapendone il meno possibile, pur con qualche trigger alert. Infatti, nonostante il film non contenga scene effettivamente disturbanti, racconta nondimeno delle dinamiche non poco inquietanti, che potrebbero non farvi dormire la notte.

Ma ne vale davvero la pena.

Un tragico viaggio

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

David Fincher si ispira evidentemente al viaggio ultraterreno dantesco, che viene fra l’altro continuamente citato all’interno della pellicola. Al punto che in una scena si vedono anche le splendide litografie di Gustave Dorè, che illustrarono il capolavoro della nostra letteratura.

Con la grande differenza che il viaggio di Dante era una commedia in quanto – secondo le parole dello stesso autore – aveva un lieto fine, con la redenzione del protagonista e, infine, la visione di Dio. Al contrario, il viaggio di Mills è tragico in ogni suo aspetto.

Ma per questo si crea un interessante parallelismo.

Detective Mills in Seven

Mills è un personaggio superbo e pieno di rabbia, una rabbia incontrollabile.

E, per questo, è insalvabile.

Per tutto il tempo si vuole mettere prepotentemente in gioco, in prima linea, ignorando le regole o anche il semplice buonsenso, del tutto insensibile agli ammonimenti di Somerset. Un personaggio che si sente superiore a tutti gli altri, che è convinto di sapere il fatto suo e che vive il caso in maniera davvero impetuosa e superficiale.

Morgan Freeman e Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ad ogni occasione si arrende davanti agli inganni apparentemente più insolvibili del killer, vuole a tutti i costi prendere in mano il caso, si rifiuta di seguire gli ammonimenti del suo collega e irrompe prepotentemente nella casa di John Doe – una sorta di foreshadowing di quello che poi succederà nel finale.

E la sua superbia si vede in particolare nel dialogo con John Doe, in cui è del tutto sicuro di averlo finalmente in pugno e per questo cerca di umiliarlo.

In realtà lo sta solo sottovalutando.

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Allo stesso modo Dante era un personaggio afflitto da un grande peccato capitale, anche se diverso da quello di Mills: la lussuria.

Per questo il suo viaggio, soprattutto quello purgatoriale, serviva per metterlo davanti ai sette peccati capitali, da cui si liberava salendo ogni cornice. In particolare passava attraverso il fuoco purificatore della lussuria con grande paura, ma riuscendo infine ad essere liberato da ogni peccato.

Invece, anche se a Mills viene data la possibilità di domare il suo peccato, fallisce.

William Somerset in Seven

Il Detective Somerset dovrebbe essere la guida per Mills.

Un personaggio disilluso, che vuole sottrarsi all’angoscia della vita di poliziotto in una realtà così violenta e degradata. È l’unico davvero consapevole di quello che sta accadendo, che capisce la natura seriale del caso e che riesce davvero ad orientarsi all’interno della rete di indizi del killer.

William è un personaggio saggio e riflessivo, che per tutto il film cerca di tenere a bada ed educare l’irriverente Mills, che invece si vuole buttare subito sul caso e nell’azione. Il suo gesto in extremis di salvare il suo giovane compagno e non far vincere John Doe, però, va in fumo.

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Al contempo William è l’unico che davvero capisce il killer.

Come John Doe cerca continuamente di esaltarsi nella figura di prescelto, superuomo, salvatore e punitore, il detective cerca insistentemente di ridimensionarlo, di riportarlo alla sua natura strettamente umana, anche e soprattutto agli occhi di Mills.

La sua figura può essere facilmente paragonata a quella di Virgilio nella Commedia: una guida saggia e autorevole che conduce l’eroe nel suo viaggio, che lo protegge e lo assiste, riuscendo vittoriosamente nella sua missione.

Purtroppo, il finale per William non è altrettanto favorevole.

E, forse anche per questo, decide infine di non andare in pensione…

John Doe in Seven

La forza di John Doe è il suo annullamento.

Il motivo per cui questo killer è così sfuggente è perché distrugge totalmente la sua persona, in primo luogo spellandosi le dita per evitare di lasciare impronte digitali, poi privandosi di un nome – John Doe è il termine poliziesco per indicare un uomo non identificato – e, infine, riducendo sé stesso ad un semplice peccatore.

La missione di John Doe – che sia quella data da Dio o la sua personale – è quella di ripulire almeno in parte il mondo della sporcizia che lo domina, una bruttura così profonda che ormai fa parte dell’assoluta normalità.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ed è per questo che, in parte, l’operato di John Doe è inattaccabile: prende di mira veramente quello che da alcuni può essere considerato il peggio della società – l’avvocato colluso, lo spacciatore, la prostituta… – come lo stesso personaggio sottolinea.

Ma in questo peggio è anche lui coinvolto: non tanto dalla superbia, ma dall’invidia che il personaggio ammette di provare nei confronti di Mills, nei confronti della sua vita normale che, nel dover portare avanti la sua missione, si è totalmente precluso.

Kevin Spacey in Seven

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

In questo senso è emblematica la scena dell’arresto: dopo che John Doe si è presentato trionfalmente agli occhi dei due detective, viene ridotto a terra, quindi si lascia abbassare ad un livello più terreno, e poi alza gli occhi verso Mills.

E qui mostra la sua apparentemente invidia, costretto a guardare dal basso chi gli sta sopra, in condizione di inferiorità dove spesso sono ridotte le anime purganti, in particolare quelle dei superbi – il suo vero peccato.

Il casting del killer di Seven fu piuttosto travagliato, anche per la natura del prodotto.

David Fincher in prima battuta avrebbe voluto Ned Beatty, per la sua incredibile somiglianza con lo Zodiac Killer – o il suo identikit – fra l’altro con un interessante foreshadowing per la carriera dello stesso Fincher, che tornò più di dieci anni dopo con Zodiac (2007).

Tuttavia l’attore rifiutò, affermando che la sceneggiatura del film era la cosa più diabolica che avesse mai letto.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Seguirono diversi tentativi di casting, fra cui quello di Kevin Spacey, che venne però inizialmente rifiutato perché richiedeva un cachet troppo elevato.

Per questo inizialmente le scene con il killer vennero girate da un attore ignoto, ma in poco tempo si scelse di rimpiazzarlo e venne nuovamente negoziato il contratto di Spacey, che girò le sue scene nel giro di soli dodici giorni.

Lo stesso attore scelse appositamente di non essere inserito né nel marketing né nei titoli di testa del film, così da rendere veramente funzionale il colpo di scena finale.

Heath Leadger

Un elemento metanarrativo di grande interesse, che rendeva senza nome il killer per lo spettatore stesso, proprio a ricalcare il suo aspetto anonimo e non riconoscibile, quasi invisibile – come era stato sia per il killer dello Zodiaco quando per l’ancora misterioso attentatore D. B. Cooper.

Entrambi casi reali di criminali che vinsero per il loro aspetto anonimo.

Un aspetto di grande interesse che venne ripreso in maniera pedissequa dal Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008): un criminale molto intelligente, ma senza nome e senza identità.

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Paprika – Il potere dell’incubo

Paprika (2006) di Satoshi Kon è l’ultimo lungometraggio animato diretto da questo visionario regista, autore di splendidi prodotti dal sapore onirico come l’indimenticabile Perfect blue (1997).

A fronte di un budget molto esiguo (300 milioni di yen, circa 2,6 milioni di dollari), incassò meno di un milione in tutto il mondo.

Niente di sorprendente, visto il tipo di prodotto.

Di cosa parla Paprika?

In un futuro non troppo lontano, il DC Mini, dispositivo che permette di vedere i propri sogni, viene rubato. E il mistero è piuttosto fitto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Paprika?

Assolutamente sì.

Se avete visto l’opera prima di Satoshi Kon – Perfect blue – avete un’idea del tipo di film che vi troverete davanti. In questo caso il regista gioca a carte scoperte, introducendoci in una storia che fin dalle prime battute gioca profondamente con l’elemento onirico.

Un prodotto che lavora per sottrazione, in cui è facile perdersi.

Ma che vale assolutamente la pena di scoprire.

Il doppio

Una delle maggiori tematiche di Paprika è il doppio.

La maggior parte dei personaggi in scena vivono di doppi: Paprika e Chiba, Tokita e Himuro, Konakawa e il misterioso amico del suo passato. E in qualche modo ogni personaggio si definisce tramite la sua controparte.

Anzitutto Tokita, un bambinone geniale che si sente fondamentalmente incompreso, ma che ricerca la sua controparte in Himuro, a cui assomiglia anche fisicamente. Con il suo perduto amico vorrebbe ritrovare una connessione che sembra ormai recisa, ma che lui sente ancora molto vicina.

In questo senso interessante il parallelismo fra il caos della casa di Himuro e lo stesso nella casa di Tokita: anche se con giocattoli diversi, il comportamento infantile è sempre lo stesso.

Discorso più complesso quello riguardo al Detective Konakawa.

L’uomo sembra costantemente vittima di sé stesso – come ben testimonia il sogno ricorrente in cui viene aggredito da personaggi con la sua faccia – e in qualche modo sente di aver ucciso un suo alter ego, una parte di sé, ovvero il suo vecchio amico venuto a mancare.

In realtà, prendendo consapevolezza della sua mancanza, Konakawa riesce a riabbracciare quella parte di sé e del suo passato che aveva insistentemente seppellito.

Paprika e Chiba

Ma lo sdoppiamento più profondo è quello fra Paprika e Chiba.

Paprika è una ragazza frizzante e piacevole, che si veste di colori brillanti; al contrario Chiba è una donna molto più austera e riflessiva, caratterizzata da colori più scuri e spenti. Le due sono in qualche modo una la parte dell’altra, anche se si presentano come sostanzialmente indipendenti.

E infatti molto spesso Chiba si scontra con il suo alter ego, cercando di sottometterlo, ma riuscendo a raggiungere la sua forma completa solamente quando davvero lo assorbe, lo accetta dentro di sé, diventando un essere capace di sconfiggere Tokita.

E proprio quella scena offre un ulteriore spunto.

La pluralità dell’uomo

Oltre al doppio, in Paprika si racconta la pluralità dell’individuo.

Abbastanza rivelatorio in questo senso il momento in cui Paprika entra nel famoso quadro rappresentante la sfida di Edipo, e prende le vesti della Sfinge. La Sfinge è già di per sé un essere che racchiude una pluralità – donna, leone e uccello – che ben si riassume nel famoso indovinello:

Chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?

Ovvero l’uomo, all’interno delle diverse fasi della sua vita.

E infatti troviamo diversi riferimenti a questa pluralità all’interno del film, a cominciare proprio da Tokita, più volte definito un genio nel corpo di un bambino, ma in particolare nella scena sopracitata in cui Chiba accetta Paprika dentro di sé e diventa un neonato, poi una ragazza, fino a diventare una donna.

L’inviolabilità del sogno

Le motivazioni di Tokita sono meno banali di quanto potrebbero apparire.

Se apparentemente potrebbe sembrare che abbia un sogno di potenza tipico del più classico villain, in realtà a guidarlo effettivamente sono i suoi più profondi principi, che riguardano l’inviolabilità del mondo del sogno.

Come ben spiega fin dalla sua prima apparizione, il Presidente è profondamente contrario a questa volontà di onnipotenza dell’uomo, che cerca di controllare qualcosa che dovrebbe essere assolutamente incontrollabile, perché in qualche modo irrazionale.

E solo in seguito sogna di impossessarsi del potere dell’onirico.

La potenza dell’onirico

L’elemento onirico è esplosivo, strabordante, inarrestabile.

Ed è ben rappresentato dalla parata in continua espansione, in cui ogni personaggio prima o poi viene coinvolto. Una parata che non ha delle regole, che sembra avere una vita propria e che raccoglie ogni tipo di elemento fantastico, anche il più surreale e inimmaginabile.

E questo potere fa davvero gola a Tokita, che riesce progressivamente a superare la sua disabilità in vari modi – trasformando le sue gambe in radici, prendendo il possesso del corpo di Osanai e infine esplodendo nel suo massimo potenziale all’interno del sogno finale.

Chi è Paprika?

Se volessimo semplificare molto, potremmo dire che Paprika è semplicemente l’alter ego onirico di Chiba.

Ma Paprika è molto più di questo.

Come vediamo fin dall’inizio, è una figura che non vive assolutamente in funzione di Chiba – anche se forse è Chiba stessa che l’ha creata. Anzi, è un personaggio del tutto autonomo, che riesce a muoversi all’interno delle varie realtà – non solamente quelle oniriche – e in qualche modo essere sempre presente.

Possiamo semplicemente dire che è un elemento virtuale?

Non proprio.

Paprika è quasi come se fosse un’entità, che vive all’interno del sogno e si muove liberamente all’interno dello stesso, potendo trasformarsi a suo piacimento. Un elemento oltre la realtà più materiale, un fantasma inafferrabile e indefinibile.

Cosa rappresenta la bambola?

L’elemento più enigmatico del film è l’inquietante bambolina che si vede per la prima volta a casa di Himuro, che ha sul comodino anche una foto che la rappresenta.

Un personaggio che non parla mai, se non scoppiando nella risata zuccherina sul finale, quando diventa gigantesca. A livello materiale, probabilmente non è né più né meno che una bambola, che Himuro e Tokita avevano visto all’interno del parco di divertimenti abbandonato.

A livello simbolico, può essere facilmente letta come la rappresentazione del sogno stesso, il sogno delirante che trasforma degli elementi della realtà, magari anche appartenenti alla sfera infantile, in qualcosa di assurdo e mostruoso.

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Perfect blue – Il sogno proibito

Perfect blue (1997) di Satoshi Kon è un lungometraggio animato di produzione nipponica, dalle forti tinte thriller, quasi horror. Un film che mi ha profondamente sorpreso, vedendolo totalmente a scatola chiusa.

A fronte di un budget contenuto (90 milioni di YEN, circa 700 mila dollari), incassò circa lo stesso, con una distribuzione mista fra cinema e TV anche negli anni successivi.

Di cosa parla Perfect blue?

Mima è una idol, parte del gruppo di J-pop CHAM!, che decide di cambiare carriera e diventare un’attrice. Una scelta più dolorosa del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Perfect blue?

Assolutamente sì.

Perfect blue è una sorpresa continua, con una costruzione magistrale che coinvolge passo passo lo spettatore in un vortice di follia, in cui ci si ritrova totalmente spaesati davanti ad un intrecciarsi fra realtà e finzione semplicemente sconvolgente…

Il racconto di una realtà lontana dall’immaginario occidentale, in maniera dolorosamente realistica, oltre ad essere incredibilmente avanguardistica nella rappresentazione della figura femminile, soprattutto in una società restrittiva come quella nipponica…

Il fenomeno delle idol è stato (ed è tuttora) piuttosto controverso in Giappone quanto in Corea del Sud.

Si tratta solitamente di adolescenti che hanno un boom di popolarità – solitamente passeggero – come attrici, modelle, ma, soprattutto, cantanti. Il loro successo non è tanto per il loro talento, ma per il loro aspetto fisico, che curano spasmodicamente.

Il pubblico di riferimento delle idol è principalmente maschile e sente di avere un rapporto molto personale con i loro idoli, anche proprio al di là della loro bravura.

L’aggancio ingannevole

Guardare Perfect blue a scatola chiusa è davvero un’esperienza.

A primo impatto sembra un film molto innocuo, con una storia raccontata dal punto di vista ingenuo e dolcissimo della protagonista, che si fa trascinare inevitabilmente in una nuova vita e una nuova carriera, fiduciosa e totalmente ignara delle conseguenze.

Il primo tassello dell’orrore è la scoperta del sito La stanza di Mima, che svela come la protagonista sia fondamentalmente vittima di stalking continuo e ossessivo, il cui colpevole è in realtà stato già rivelato dalle primissime sequenze.

E il film poteva già essere angosciante così.

Ma è solo il primo passo.  

Una storia a tre

La storia di Perfect blue solo apparentemente ha due attori principali – la vittima e l’antagonista. In realtà è articolata in un terzetto di personaggi, le cui identità vengono rivelate a mano a mano.

E che soprattutto si scambiano le vesti e i ruoli in maniera imprevista.

L’ossessione

Mamoru Uchida – o Me-Mania – è apparentemente l’unico vero antagonista del film.

Il suo aspetto grottesco è già di per sé indicativo della sua personalità, e il suo ruolo da stalker lo rende l’antagonista perfetto: un uomo profondamente innamorato non tanto di Mima, ma dell’immagine idealizzata che coltiva nella sua mente.

Infatti, come all’inizio il diario che scrive della sua idol è basato su eventi reali, più la pellicola procede e più le frasi sul sito raccontano i pensieri che Mamouru vorrebbe che la ragazza provasse, nel totale disprezzo della Mima falsa.

Perché la vera Mima, con cui dialoga continuamente, non farebbe mai certe cose…

Il pentimento

Rumi è apparentemente la prima e più importante alleata di Mima.

In realtà si trasforma in poco tempo nel suo peggior incubo, nutrito dall’ossessione della donna nel voler proteggere la figura della protagonista. Ma Mima non è obbediente, non sceglie le vie più sicure per mantenere intatta la sua bellezza e purezza agli occhi del pubblico.

Nonostante tutti i tentativi di Rumi.

E allora la donna si perde in un delirante tentativo di ristabilire l’ordine, sentendosi per estensione colpita dalle scelte di Mima, in cui rivede profondamente sé stessa. E così sceglie infine di prenderne il posto, come la vera Mima, il vero idolo del pubblico.

La vergogna

Mima è il primo nemico di sé stessa.

È molto più ossessionata dalla sua immagine di quanto è disposta ad ammettere, perennemente perseguitata dal suo stesso fantasma, che alla fine si concretizza nella figura di Rumi e nella sua ossessione.

Ed è tanto più interessante quanto la protagonista non è davvero vergognosa di per sé, non è a disagio né il suo personaggio è umiliato per le sue scelte. Anzi, si sente molto più libera, uscita dall’opprimente seminato di idol.

Infatti, il problema è esterno.

L’icona intoccabile

Con trame di questo tipo, sarebbe stato veramente facile prendere la via sicura dell’umiliare il personaggio femminile per le sue scelte, raccontarlo come vittima di una società in cui l’ipersessualizzazione è la chiave del successo.

Invece è esattamente il contrario.

In Perfect blue Mima si sente libera e sicura delle sue scelte, prendendo anche strade inaspettate e socialmente poco accettabili, in cui racconta in maniera sconvolgente e spregiudicata la sua sessualità.

Ed è davvero potente in questo senso la scena dello stupro, che dovrebbe essere drammatica e straziante, ma che in realtà è ben contestualizzata dallo scambio fra Mima e l’attore che la starebbe violentando sul set.

E si rivela infine una scena davvero potente perché mostra le vere capacità di Mima al di fuori dell’opprimente ruolo della idol.

Cosa significa il titolo di Perfect blue?

A primo impatto il titolo potrebbe far riferimento ad un concetto in realtà proprio della lingua inglese, in cui solitamente il termine blue viene associato alla tristezza, come quella della protagonista della pellicola.

In realtà in giapponese il colore blu fa riferimento alla purezza e all’energia femminile, il punto di arrivo proprio delle figure delle idol.

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The Menu – Un piatto (quasi) perfetto

The Menu (2022) di Mark Mylod è un thriller-horror che ha fatto abbastanza parlare di sé verso la fine del 2022. Non ho potuto vederlo in sala, ma l’ho recuperato in streaming, dopo che mi era stato ampiamente consigliato.

E non ne sono rimasta delusa.

Davanti ad un budget abbastanza contenuto di 30 milioni di dollari, ha avuto incassi medi: 76 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Menu?

Tyler porta l’affascinante Margot ad un’esperienza culinaria esclusiva del noto chef stellato. Ma la situazione fin da subito appare disturbante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Menu?

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

In generale, sì.

È un film che ho trovato piacevole e complessivamente ben fatto, che non mi ha solo convinto per un elemento della trama un po’ scricchiolante…

Ma nel complesso è una pellicola assolutamente godibile, un thriller con un taglio decisamente elegante e fascinoso, con attori di primo livello.

L’esperienza esclusiva

Ralph Finnes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nonostante in diversi punti la pellicola presenti un taglio più corale, la protagonista è assolutamente fondamentale e funzionale per lo spettatore.

Anche se la situazione iniziale è già abbastanza esplicativa da sé, sono le sue occhiate, le sue soggettive che sottolineano due elementi essenziali per la costruzione della tensione: la barca che si allontana e la porta che si chiude.

Proprio ad indicare come questa esperienza sia talmente esclusiva che esclude ogni tipo di via di fuga.

Il pubblico sbagliato

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Margot è fin da subito messa in un rapporto antagonistico con Tyler, che rappresenta uno dei personaggi peggiori che definiscono il mondo della cucina gourmet: l’esaltato superficiale, che si beve qualsiasi cosa che lo chef gli propone.

Al contrario la protagonista è continuamente contraria a questo eccessivo sperimentalismo e cucina concettuale, che non permette davvero di godersi l’esperienza del cibo.

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Ma è una mosca bianca all’interno di una varietà di personaggi secondari che raccontano il pubblico tipico di questo tipo di esperienze: gli arroganti raccomandati, i ricchi annoiati, i critici snob, e via dicendo.

Tutti personaggi che sono il motivo dell’insoddisfazione dello chef, che vorrebbe forse degli adepti al pari dei suoi cuochi, che vivono profondamente l’esperienza che vuole portare in tavola.

Fino ad arrivare agli estremi.

Ma qui nasce il problema.

Il problema della morte

Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

L’unico elemento che proprio non mi ha convinto del film è la gestione della morte, la cui inevitabilità viene annunciata fin troppo presto.

Sarebbe stato meglio, secondo me, tenerla in sottofondo, abbastanza evidente da tenere alta la tensione, ma senza rivelarla fino alla fine. Il film avrebbe funzionato comunque, facendo giusto qualche aggiustamento.

Inoltre, non sono riuscita a trovare credibile questa totale sottomissione degli altri chef a Slowik, elemento per cui vengono poste delle buone basi, ma per cui avrei preferito una costruzione più profonda e convincente.

Il piano di Margot

Anya Taylor-Joy e Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nel finale, Margot riesce effettivamente a salvarsi tramite un piccolo trucco.

Fondamentalmente il suo piano per scappare è di giocare allo stesso gioco dello Chef, invece che andargli contro direttamente come gli altri personaggi – e lei stessa fino a poco prima. Così lo riporta con i piedi per terra, comportandosi come si comporterebbe effettivamente in un ristorante, mandando indietro il piatto e chiedendo di portare a casa gli avanzi – come tipico negli Stati Uniti.

E evidentemente Slowik preferisce essere trattato in questa maniera reale, che essere inutilmente e superficialmente esaltato – o non considerato.

E così infatti Margot guadagna la sua libertà

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Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

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Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Videodrome – Un sogno complottista

Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedente Scanners (1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.

Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fu un pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.

E i motivi non sono difficili da capire.

Di cosa parla Videodrome?

Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Videodrome?

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.

Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.

È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.

Ma voi provateci.

E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.

Perché Videodrome è stato un flop?

All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.

Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.

Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.

Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.

E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.

Il potere del trucco prostetico

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.

Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.

Per non parlare degli effetti della mano-pistola.

Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano che si trasforma

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano trasformata

Un ottimo protagonista

Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.

Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.

Cosa succede nel finale di Videodrome?

Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.

Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.

Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.

E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.