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Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Videodrome – Un sogno complottista

Videodrome (1983) è un film di David Cronenberg, fra i più famosi della sua produzione. A soli due anni dal precedente Scanners (1981), il regista portava in scena un altro film destinato a diventare un piccolo cult di genere, per il suo incontro vincente fra lo sci-fi e il body-horror.

Una produzione con un budget sempre risicatissimo (intorno ai 5 milioni), che però, a differenza del precedente, fu un pesante flop commerciale: appena 2,4 milioni di dollari d’incasso.

E i motivi non sono difficili da capire.

Di cosa parla Videodrome?

Max è a capo di Channel 83, un canale di porno e soft-porn. La sua vita sembra procedere normalmente, andando alla ricerca di programmi ancora più spinti da proporre, fra cui il misterioso Videodrome…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Videodrome?

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

È un film che indubbiamente non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, soprattutto se siete interessati alla cinematografia di Cronenberg.

Tuttavia, aspettatevi di trovarvi davanti ad un prodotto con un intreccio e dei significati ben più complessi di Scanners e molto meno immediatamente comprensibile, con tante scene enigmatiche e dal sapore surreale.

È giusto segnalare che all’interno della pellicola le scene più disturbarti non sono tanto quelle di sesso, ma quelle di tortura. Niente di troppo esplicito, ma comunque neanche digeribile da tutti.

Ma voi provateci.

E se avete dubbi sul finale, potete sempre tornare qui.

Perché Videodrome è stato un flop?

All’interno di una produzione di Cronenberg ancora con budget molto ridotti, è davvero curioso che questo film ebbe un riscontro così scarso, tanto da portarlo ad un flop.

Tuttavia, una volta visto il film, non è neanche tanto strano.

Oltre alle scene di violenza non facilmente digeribili, ci sono molte sequenze di body horror non poco disturbanti, e che sembrano tutto tranne che finte. E, come se tutto questo non bastasse, il finale è incredibilmente enigmatico.

Il tutto da un autore già conosciuto per far dei film molto sui generis, e quindi non per tutti i palati.

E, per questo, il passaparola negativo potrebbe davvero averlo affossato.

Il potere del trucco prostetico

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

Il livello degli effetti speciali di questa pellicola, che, ricordiamo è stata prodotta con pochissimo, è devastante: in tutte le scene in cui sono utilizzati, soprattutto in quelli più surreali, non ho mai avuto un momento in cui non credevo a quello che vedevo in scena.

Sembra tutto così realistico e credibile, anche in scelte più impegnative come quelle in cui Max si apre il petto e diverse volte viene penetrato, da mani e da videocassette, momenti in cui ho sentito veramente tutto il dolore del personaggio.

Per non parlare degli effetti della mano-pistola.

Tuttavia, proprio riguardo a questo, l’unico momento in cui ho fatto fatica a sospendere l’incredulità è stato quando gli si forma effettivamente la mano-pistola, dove si vede abbastanza chiaramente che (come è ovvio) non è la sua vera mano e che poi nella scena successiva, è effettivamente la mano vera:

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano che si trasforma

Una scena da Videodrome (1983) di David Cronenberg

L’inquadratura della mano trasformata

Un ottimo protagonista

Come ero rimasta perplessa dalla recitazione e in generale dal personaggio protagonista di Scanners, sono rimasta invece piacevolmente sorpresa da James Woods in questa pellicola.

Questo attore, oltre ad avere la faccia proprio da uomo comune assolutamente credibile, riesce a reggere perfettamente la scena in tutti i momenti diversi che deve affrontare il suo personaggio, con un’ottima capacità espressiva che mi ha davvero conquistato.

Cosa succede nel finale di Videodrome?

Il finale di Videodrome è assolutamente aperto alle interpretazioni.

Quella che preferisco è pensare che Nicki in realtà non sia mai esistita, ma sia sempre stata un’allucinazione di Max (almeno per la loro relazione), che racconta il suo lato più estremo, che il protagonista cerca di sfuggire.

Alla fine, Nicki diventa nient’altro che una sorta di sua voce della coscienza: Max si trova senza poter più fare niente, ricercato per omicidi che compiuto per ordine di altri. Quindi vuole definitivamente liberarsi della vecchia carne ed entrare in questo immaginario (?) televisivo che rappresenta la sua più estrema fantasia sessuale.

E lo confermerebbe il primo epilogo, poi tolto dalla versione finale, dove Max e Nicki si trovavano nel Videodrome.

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Scream – E così nasce l’anti-horror

Scream (1996) di Wes Craven è il primo capitolo della saga anti-horror omonima, un cult ancora oggi. E un cult non a caso: nel momento della saturazione del genere horror, Craven decise di portare qualcosa di profondamente diverso.

Una pellicola che non avevo mai recuperato negli anni, ma che ho avuto il piacere di ricoprire, in attesa anche del nuovo capitolo in uscita il prossimo anno, Scream 6 (2023).

Un film fatto con poco (appena 15 milioni), ma che fu immediatamente un successo commerciale, incassando 183 milioni di dollari, il maggior incasso del 1996.

Di cosa parla Scream?

È passato quasi un anno dalla morte della madre di Sidney, che non riesce a superare la sua scomparsa, i cui dettagli sono ancora fumosi. Un serial killer comincia a minacciare la sua vita e la comunità, con degli strani collegamenti con l’omicidio della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream?

Drew Barrymore in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Nonostante sia un film di quasi trent’anni fa, Scream è ancora assolutamente godibile. Ovviamente non vi dovete aspettare un horror autoriale alla Nope (2022), ma un prodotto che si inserisce efficacemente nel filone dell’horror commerciale, pur deridendolo.

In particolare, ve lo consiglio se siete particolarmente appassionati all’horror slasher degli Anni Settanta – Ottanta, che la pellicola cita continuamente.

E nella maniera più metanarrativa che possiate immaginare.

Giocare con la metanarratività

Più si prosegue nella narrazione, più le citazioni e i riferimenti agli horror cult si moltiplicano, andando a dialogare direttamente con il film stesso. Il momento più alto è quando Bill dice a Sidney

It’s all…one great big movie

È tutto un grande incredibile film

E da lì è tutto in discesa.

Si sprecano poi i parallelismi con Halloween (1978), in particolare in due momenti: quando, davanti alla scena in cui la protagonista si sta spogliando, il montaggio alternato ci mostra Sidney che fa lo stesso nell’altra stanza. E poi quando Randy urla alla protagonista del film

Jamie, look behind you!

Jamie, dietro di te!

e ha lui stesso il killer alle spalle che lo sta per uccidere. Infine, altrettanto memorabile quando sempre Randy, mentre stanno guardando Bill a terra apparentemente morto, ricorda:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

e infatti Bill torna in vita e Sidney gli spara, chiosando

Not in my movie.

Non nel mio film.

Ci sono anche momenti più gustosamente umoristici, come quando il preside parla con il bidello, che si chiama Fred ed è vestito come Freddy Krueger della saga di horror Nightmare.

Uscire dagli schemi

Matthew Lillard e Skeet Ulrich in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Scream riesce ad essere diverso dal canone non solo a parole, ma anche nei fatti. Anzitutto, portando una violenza al limite dello splatter e del grottesco, che non appare finta, con anche una certa ironia che sdrammatizza molte scene di tensione.

Fra tutte, piuttosto indovinata la scena prima della morte di Tatum, in cui lei crede che il killer sia uno scherzo e gli chiede se vuole che sia la sua vittima. E anche, più in piccolo, quando Sidney è chiusa in macchina e il killer le sventola davanti alla faccia le chiavi che stava cercando per scappare.

Ma soprattutto è originale la scelta di mettere una coppia di killer e soprattutto di non appiattire gli stessi sull’immagine di personaggi pazzi e con un passato tormentato, assegnandogli invece motivazioni più semplici e terrene.

Ma il colpo di genio è stato fare in modo che il sospettato numero uno fosse effettivamente il colpevole, e non un modo per confondere lo spettatore. Spettatore, fra l’altro, ormai abituato a questo tipo di dinamica e che non si sarebbe lasciato facilmente ingannare.

Una regia non scontata

Tutt’oggi l’horror commerciale – sempre con splendide eccezioni – è caratterizzato da produzioni da discount, per cui di solito si mettono alla regia dei semplici mestieranti che portano una messinscena molto mediocre, con spesso anche una sceneggiatura molto scontata.

Al contrario Wes Craven riesce a plasmare la messa in scena con una regia dinamica e interessante, con anche tocchi registici piuttosto peculiari, come il particolare sul riflesso del killer negli occhi del Preside prima di morire.

E in generale è una regia che gioca molto di inquadrature improvvise e con insistenti primi piani stretti.

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Don’t Worry Darling – È ora di essere felici?

Don’t worry darling (2022) è l’ultima pellicola di Olivia Wilde con protagonisti Harry Styles e Florence Pugh. La seconda pellicola della regista, dopo l’ottimo Booksmart (2019), in Italia noto con l’infelice titolo di La rivincita delle sfigate.

Una pellicola circondata da moltissimi pettegolezzi (che non ho intenzione di approfondire) e la cui presenza di Harry Styles potrebbe essere un boomerang (di cui bisogna parlare).

Per ora ha aperto molto bene nel primo weekend, con 30 milioni in tutto il mondo. A fronte di un budget di 35 milioni di dollari, è possibile che ci sia un buon rientro economico.

Di cosa parla Don’t worry darling?

Alice e Jack sembrano vivere una vita perfetta, in una perfetta comunità esclusiva degli Anni Sessanta. Ma le anomalie del mondo che li circonda sono sempre più evidenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Don’t worry darling?

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Davanti ad una pellicola complessivamente interessante e godibile, non è un film che considero personalmente imperdibile. Non mi verrebbe per nulla di bocciarla (come tanti hanno fatto), ma neanche di esaltarla.

Nonostante la regia sia dinamica e la storia abbastanza interessante, presenta una sceneggiatura in non pochi punti difettosa, arrivando ad una conclusione non banale, ma neanche del tutto soddisfacente.

Insomma, se volete dargli una chance, dategliela. Ma non aspettatevi qualcosa di alto livello o davvero originale come era stato per il precedente film della regista.

Harry Styles ha attirato il pubblico sbagliato?

Anche senza aver visto il film, appare del tutto evidente che non stiamo parlando di un filmetto da pomeriggio di Italia 1, nè di un prodotto esattamente per tutti i palati.

Tuttavia, dalla mia esperienza in sala, ho scoperto che questa pellicola ha attirato non pochi spettatori non abituati alla sala e sopratutto attirati solamente dalla presenza di Harry Syles.

Ed è un peccato.

Perché a parte tutto posso dirvi che Harry Styles non è un attore di richiamo messo lì apposta e senza nessun talento, ma un neonato attore che in questa pellicola ha davvero dato il suo meglio.

Tuttavia, visto anche il riscontro tiepido (se non peggio) della pellicola, la presenza di questo interprete potrebbe renderlo un successo economico, ma essere bocciato da un pubblico che è corso in sala per un film che non era pensato per lui.

Fuggire la realtà

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

La rivelazione finale è stata da parte mia non poco apprezzata, in quanto riesce ad aggiornare ai giorni nostri un film con una dinamica piuttosto tipica, con piccoli cult come La donna perfetta (2004). E infatti io mi aspettavo un finale simile.

E invece mi ha sorpreso.

Da questo punto di vista racconta un problema sociale che, con le dovute differenze, è assolutamente presente, ovvero il fuggire dal mondo reale in quello virtuale. Come Jack porta all’estremo questo concetto rinchiudendo la compagna in una realtà virtuale, così non poche persone ritrovano una vita alternativa e più soddisfacente online che offline.

Il che può essere una cosa positiva come molto negativa.

Jack, perché?

Harry Styles in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Per quanto le motivazioni di Jack non siano più di tanto approfondite, bastano poche battute per comprendere il suo personaggio. Jack di fatto si incasella in quella pressione sociale maschile di sostenere la sua donna, nonostante la stessa sia perfettamente capace di farlo da sola.

Emblematico in questo senso quando, in uno dei flashback, Jack dice ad Alice E ora come farò a prendermi cura di te?, proprio a sottolineare proprio questo tipo di esigenza. La stessa trova poi sfogo nell’idea mondo virtuale dove di fatto rinchiudere le donne, probabilmente anche con l’idea di renderle più controllabili.

E non è un caso che il mondo sia ambientato in un contesto storico per nulla favorevole per l’emancipazione femminile.

Di fatto Jack non è un villain, ma un personaggio molto diviso con se stesso e che sente dentro di sè di star veramente facendo la cosa giusta.

Troppo poco (ma non sempre)

Olivia Wilde e Nick Kroll in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Uno dei grandi difetti della pellicola è il poco approfondimento che viene dato a certi aspetti della storia. In particolare viene dato tanto, forse troppo, spazio alla scoperta del mistero da parte di Alice (cosa non per forza negativa) e la rivalsa finale è invece molto più rapida e, di fatto, carente.

Il film lascia troppe domande senza risposta: perché se si muore nel mondo virtuale si muore anche in quello reale? L’areoplano che vede Alice è un bug del sistema? Perché effettivamente la moglie di Frank lo accoltella? E si potrebbe andare avanti…

Al contrario mi sento del tutto di approvare la scelta di un finale aperto, che ci salva da quei noiosissimi finali consolatorio dove il protagonista, una volta che si è salvato, riesce a recuperare la sua vita.

Questo finale è invece proprio quello che serviva per non appesantire la narrazione.

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The Gray Man – Niente di più, niente di meno

The Gray Man (2022) è un action movie uscito recentemente su Netflix. La pellicola si porta dietro un team che prometteva meraviglie: non solo i Fratelli Russo, registi di Captain America – The Winter Soldier (2014), Avangers Infinity War (2018) e Avengers Endgame (2019), ma anche gli sceneggiatori che si occuparono di tutti i loro prodotti per l’MCU.

Purtroppo The Gray Man conferma come ottimi registi e sceneggiatori, tolti dal contesto giusto, possano dimostrarsi meno capaci di quanto ci si potrebbe aspettare. Questa pellicola si inserisce infatti nella scia di prodotti di poco o nessun successo cui i Fratelli Russo hanno partecipato al di fuori dell’MCU, come Cherry (2021) e City of Crime (2019), in quest’ultimo caso come produttori.

Di cosa parla The Gray Man?

Court Gentry è un galeotto con ancora almeno dieci anni di reclusione davanti, che viene inaspettatamente reclutato dalla CIA per far parte di un progetto ombra, chiamato il progetto Sierra. Tuttavia, a dieci anni di distanza, Court comincia a scoprire inquietanti retroscena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Gray Man?

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

In generale no, ma ci sono buoni motivi per cui questo film potrebbe quantomeno intrattenervi. Bisogna ammettere che ancora una volta i Fratelli Russo si dimostrano ben più di mestieranti, cercando di portare una regia interessante e dinamica.

Il principale problema è infatti rappresentato dalla sceneggiatura, di una povertà creativa devastante, che snocciola mano a mano tutti gli stereotipi del genere. E in generale, c’è anche poco tempo per la storia, visto che due terzi del film sono scene di azione neanche troppo originali. Insomma, non stiamo parlando di John Wick.

Per questo è un film che, se non siete patiti degli action movie, soprattutto di quelli più banali, non vi consiglio di guardare. Io, personalmente, me ne sono ampiamente pentita.

Non saper essere originali (ma proprio in niente)

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Un grande problema, se così vogliamo dire, di The Gray Man è la sua totale mancanza di originalità. Il film è incredibilmente piatto, non porta nessuna idea interessante sul tavolo, ma è proprio il classico prodotto in serie basato sulle solite dinamiche che funzionano per il cinema commerciale.

E potrebbe essere la pellicola giusta all’interno della strategia di Netflix di rilasciare una marea di film ogni anno: prodotti usa e getta di cui si parla per un paio di giorni, per poi finire totalmente nel dimenticatoio. Tenendo però sempre alta l’attenzione sulla piattaforma.

Chris Evans: crederci

Chris Evans in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Personalmente sto assolutamente adorando la rinascita attoriale di Chris Evans, che sta cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla figura di Captain America. E così, come in Knives Out (2019), anche in questa pellicola interpreta un personaggio anomalo e negativo.

Per questo ho ampiamente apprezzato l’ironia e l’impegno che Chris Evans ci ha messo in questa parte, pur probabilmente consapevole anche lui di star lavorando in un film di livello molto mediocre. E non è un caso che, per quanto mi riguarda, il suo personaggio è l’unico veramente interessante e convincente dell’intera pellicola.

Che bella cagnara

Ryan Gosling in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Come Chris Evans è stato convincente, il resto del cast è un generale pianto. Lo spreco maggiore è stato indubbiamente Ryan Gosling, attore con un’espressività molto particolare e che deve essere maneggiato con cura, posto nei giusti ruoli e con la giusta direzione creativa, come è stato per The First Man (2018).

In questo caso invece si vede quanto Gosling fosse poco convinto del prodotto e quanto poco questo ruolo fosse adatto a lui. Ed è atroce quando cercano di affidargli delle battute comiche, che cadono totalmente piatte per incapacità o cattiva direzione. La chimica fra lui e Evans, poi, è assolutamente inesistente.

E non è neanche la parte peggiore.

Ma che bei personaggi femminili all’avanguardia!

Ana De Armas in una scena di The Gray Man (2022) dei Fratelli Russo

Al di là in generale dei dimenticabilissimi personaggi secondari, è stato al limite dell’imbarazzo vedere personaggi femminili inseriti così forzatamente per fingersi inclusivi, quando la storia è così evidentemente maschile (e non dovrebbe neanche essere un problema di per sé).

Poche volte ho visto personaggi femminili così insipidi, piatti e poco interessanti, che hanno un ruolo del tutto accessorio alla trama. Non si voleva appiattirli nel ruolo di femme fatale o di interesse amoroso dei protagonisti maschili. E quindi si è giustamente deciso di renderle totalmente futili alla narrazione.

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Avventura Azione Cult rivisti oggi Drammatico Film Thriller Un'estate al cinema

Lo Squalo – Alle origini del terrore

Lo squalo (1975) di Steven Spielberg è considerato il primo film evento, paragonabile agli odierni blockbuster.

Infatti, godette di una distribuzione più mirata e di fatto atipica per il tempo. E, non a caso, fu un enorme successo commerciale: a fronte di 9 milioni di dollari di budget, ne incassò ben 476 in tutto il mondo.

Di cosa parla Lo Squalo?

Lo sceriffo Brody è a capo della polizia di una piccola città balneare, che viene improvvisamente sconvolta da una serie di terribili attacchi da parte di uno squalo di inusuale grandezza e ferocia. Brody dovrà mettere insieme una squadra per mettere fine alla sua minaccia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lo squalo?

Lo squalo, Richard Dreyfuss e Robert Shaw in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Lo Squalo è un film che non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, anche per via della sua semplicità di fruizione. Infatti, anche grazie all’ottima regia di Spielberg, il film scorre molto facilmente, creando una splendida tensione e costruzione della rivelazione del mostro.

Ovviamente, se siete persone molto impressionabili ed avete una paura atavica degli squali e dell’acqua, potrebbe turbarvi profondamente…

Perché Lo squalo è considerato un film evento?

Un film evento è un film che non solo spinge il pubblico in sala, ma rende la visione un effettivo evento a cui non si può mancare di partecipare. Casi simili furono anche The Blair Witch Project (1999) e, più recentemente, Avengers Endgame (2019).

E Lo Squalo fu il primo caso effettivo di questo tipo: oltre a godere di massiccia campagna marketing, venne distribuito in tantissime sale in tutti gli Stati Uniti, fino a 950, tantissime per l’epoca.

E così inaugurò una nuova tendenza per l’industria cinematografica statunitense: film di avventura e azione, con una storia semplice, rilasciati in estate con un importante investimento nella comunicazione ed un ritorno assicurato.

Un concetto simile agli odierni blockbuster, appunto.

La costruzione del mostro

Lo squalo in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Il budget abbastanza contenuto del film ha portato Spielberg ad utilizzare ottimi espedienti per rivelare solo a tratti e gradualmente lo squalo, rivelandolo effettivamente solo nel finale.

Sembra paradossale, ma se si guarda il film diventa chiaro come la tensione sia soprattutto costruita tramite il suggerire (e il non mostrare) lo squalo, appunto. Così al primo attacco non si vede nulla, al secondo solo sangue e il materassino del bambino ucciso, e nel terzo solo la pinna o uno sguardo fulmineo della testa.

Così anche nella seconda parte del film, durante la caccia, lo squalo viene mostrato in maniera molto costruita, rivelandolo totalmente solamente alla fine. E, paradossalmente, vedendolo del tutto, lo squalo sembra molto meno minaccioso di quando non lo vediamo.

Una storia di tutti

Folla che scappa dallo squalo in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Un grande pregio del film, e anche probabilmente uno dei motivi del suo successo, è il suo taglio realistico e credibile. Vediamo infatti numerosissime comparse che si muovono sulla scena, in inquadrature che potrebbero sembrare quella di una banale ripresa di una qualsiasi spiaggia statunitense degli Anni Settanta.

Per questo tutta la costruzione della tensione nella prima parte del film, impreziosita dallo splendido tema di Williams, coinvolge così facilmente. E così allo stesso modo l’avventura della caccia, per quanto a mio parere sia un po’ troppo allungata, continua a sostenere quel taglio realistico, in particolare con continui fallimenti dei personaggi.

Infatti, alla fine i protagonisti vincono, ma con un espediente improvvisato.

Perché i sequel non hanno senso

Vennero prodotti diversi sequel, a cui Spielberg (giustamente) si rifiutò di partecipare, e che incassarono sempre di meno, non riuscendo mai davvero a lanciare il franchise.

Infatti, nonostante si sia appunto cercato di battere il ferro finché era caldo sul lato sequel, questi non hanno senso per un motivo molto semplice: la storia è già ridotta all’osso di per sé e non dà spazio a seguiti.

Infatti, alla fine il nemico viene indubbiamente sconfitto e vi è un lieto fine.

L’unico modo in cui si poteva fare un sequel è riportando lo stesso nemico e mettendo in scena combattimenti ancora più spettacolari. E così venne fatto per il primo sequel, Lo Squalo 2 (1978) che fu effettivamente un grande incasso. Ma l’entusiasmo svanì velocemente, con ulteriori seguiti che ebbero incassi molto modesti.

L’origine dell’isteria di massa

Lo Squalo fu uno – e il principale – prodotto che portò ad una isteria di massa nei confronti degli squali.

Lo squalo è fra gli animali acquatici più temuti, anche perché nel mondo occidentale non è così raro imbattervisi, a differenza di animali effettivamente pericolosi come i coccodrilli e gli ippopotami.

Purtroppo lo squalo è tutt’oggi cacciato e si è portato dietro una brutta nomea di aggressività e pericolosità per l’uomo. In realtà è un animale ben poco pericoloso per noi, con una media di appena 6 attacchi mortali nel mondo ogni anno.

E questo, se messo in proporzione ai milioni di squali uccisi nello stesso lasso di tempo, è davvero pochissimo.

E anche meno sono gli attacchi senza motivo di questo animale verso l’uomo, mentre è più facile che lo squalo venga attaccato se provocato. Quindi, del tutto diverso da come viene raccontato nel film.

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Number 23 – Storia di un’ossesione

Number 23 (2007) è un film di Joel Schumacher con Jim Carrey che si imbarcò in un genere che non aveva mai sperimentato: il thriller psicologico.

L’attore ebbe infatti ancora una volta la fortuna di trovarsi sotto l’egida di un regista capace in un prodotto complesso e intenso. Schumacher è infatti un autore molto divisivo, soprattutto per l’assurdità di Batman & Robin (1997), cui viene sempre associato, ma è in realtà un regista con un’estetica profonda e potente.

Il film ebbe un riscontro economico decisamente deludente: anche se non fu un flop, incassò 77 milioni contro un budget di 30. Tuttavia, col passare degli anni, entrò nel cuore di molti cinefili.

Di cosa parla Number 23?

Walter è un accalappiacani che vive una vita tranquilla con la sua famiglia. Improvvisamente viene in possesso di uno strano libro, intitolato appunto Number 23. Il protagonista si ritroverà così stranamente ad identificarsi nella storia narrata, che sembra avere una strana vicinanza con gli eventi della propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Number 23?

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dipende.

Number 23 è un film per nulla semplice, sia per gli argomenti trattati, sia perché gioca anche con il genere horror, con alcune scene piuttosto sanguinose e non adatte a cuori sensibili. Oltre a questo, la regia è piuttosto particolare, anche se perfettamente in linea con l’estetica di Schumacher.

Insomma, se sguazzate nel genere gore e thriller, ma anche nel noir hard boiled, probabilmente vi piacerà moltissimo. Al contrario, se siete facilmente impressionabili e vi angosciate con poco, statene alla larga.

Un andamento inaspettato

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Devo ammettere che verso la metà del film ho cominciato ad annoiarmi, perché il film mi sembrava voler raccontare il climax ascendente del protagonista, che diventa definitivamente ossessionato dal libro e alla fine uccide la sua famiglia. Insomma, mi aspettavo un andamento piuttosto tipico.

Al contrario, sono stata sorpresa: verso la metà del film Walter comincia ad essere effettivamente supportato dalla sua famiglia, innescando un effettivo climax con una gustosa trama investigativa, per svelare infine il mistero dietro al libro.

E così si sfocia nella rivelazione finale, che chiude perfettamente il cerchio su una storia che sarebbe risultata altrimenti banale, con un twist che mi ha ricordato molto quello di Shutter Island (2010) e che per questo non ho potuto non apprezzare.

Schumacher: amore e odio

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Joel Schumacher è quel tipo di regista con un’estetica e una poetica così particolare che non può non essere divisivo.

Ed è anche lo stesso che ha girato Batman & Robin, film unanimemente criticato per l’ovvio motivo di essere tremendo, ma che esprimeva appieno l’estetica distintiva di questo regista, che gioca moltissimo col camp e col cattivo gusto voluto.

E in Number 23 non è da meno: io ho amato alcune inquadrature, che ho trovato estremamente scioccanti, come il volto della Bionda Suicida che si specchia nella pozza del suo stesso sangue dopo il suicidio (ed è uno fra tanti).

Al contempo non ho apprezzato il taglio eccessivo delle scene del racconto del libro, con queste inquadrature estremamente contrastate e scene di sesso e violenza quasi morbose, con un taglio eccessivamente realistico che mi ha disturbato.

Ma forse era anche quello l’obbiettivo.

Di certo, per me, senza questa regia, questo film non sarebbe valso un’unghia.

Jim Carrey: la maturità attoriale

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dopo aver esplorato la maggior parte della filmografia di Carrey, per me la sua maturità artistica come attore comico si può trovare in Una settimana da Dio (2003), mentre in questo film mostra ancora le sue capacità sull’altro versante.

Non tanto in ambito drammatico, per cui aveva già dato prova in Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma sperimentando con consapevolezza in un genere mai provato prima.

In questo film infatti Carrey riesce ad essere al contempo spaventoso, con un’occhiata riesce a trasmetterti un’infinità di sentimenti e passioni, e a destreggiarsi perfettamente nelle scene anche più estreme e intense.

In questo film non ci sono, come in altre pellicole di Carrey, attori diventati famosi dopo, ma comunque ritroviamo dei volti già noti.

Il figlio di Walter, Robin, è Logan Lerman, divenuto brevemente (e sfortunatamente) famoso per i film di Percy Jackson usciti fra il 2010 e il 2013.

Walter da bambino è interpretato da Paul Butcher, che se siete della generazione Anni Novanta lo ricorderete sicuramente per essere il fratello di Zoe in quella meraviglia (si fa per dire) di Zoey 101.

Il Dr. Miles, il professore a cui Walter chiede aiuto e che crede che lo tradisca con la moglie, è Danny Huston, già visto in diversi prodotti, in particolare come fratello della protagonista in Marie Antoinette (2006).

Cameo a sorpresa quello di Troy Kotsur, attore sordomuto che ha recentemente vinto l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per CODA (2021). Qui interpreta il padrone del cane che perseguita Walter, Ben.

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Il Padrino: Parte III – L’ultimo momento

Il Padrino: Parte III (1990) è l’ultimo capitolo dell’iconica trilogia omonima di Francis Ford Coppola. Un film arrivato a quindici anni di distanza dal precedente, con una produzione estremamente infelice.

Fra tutte le vicissitudini, la più amara fu sicuramente il fatto che Coppola non volle continuare con il terzo capitolo fin dall’inizio e negli anni si susseguirono diversi autori che vennero coinvolti nella produzione. E infine Coppola accettò probabilmente più per questioni economiche: al tempo era sommerso dai debiti per l’enorme flop di Un sogno lungo un giorno (1982).

Il successo al botteghino fu minore dei precedenti, ma soddisfacente: 136 milioni contro 54 di budget. Ricevette critiche positive, ma non entusiaste come per i precedenti capitoli. E non potrei essere più d’accordo.

Di cosa parla Il Padrino III

Ormai da tanti anni a capo dell’Impero Corleone, Michael Corleone cerca finalmente di traslare il suo business verso la legalità. Al contempo deve gestire la sua turbolenta famiglia, con la figlia ribelle Mary e cercando di riallacciare i rapporti con la ex moglie Kay.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Il Padrino: Parte III

Al Pacino in Il Padrino: Parte III (1990) di Francis Ford Coppola

In generale, non è un film che vi direi di saltare, ma va approcciato nel modo giusto e con la consapevolezza di quello che ci si trova davanti. Per me Il Padrino: Parte III è un film che evidentemente Coppola non voleva inizialmente fare, dove ha cercato di dare il meglio, ma in cui non è riuscito a mettere la passione dei primi due.

Infatti l’ho trovato nel complesso un buon film gangster, che però non raggiunge la soglia del capolavoro come i primi due. Soprattutto, non aspettatevi un Michael Corleone come ve lo ricordate: a me è parso un personaggio diverso.

Nota a margine per la visione: non ho trovato lo stesso problema dei sottotitoli su Prime segnalato nel precedente capitolo, ma i sottotitoli in inglese nelle parti in italiano sono sbagliati. Insomma, come fanno, sbagliano.

Quando manca una storia

Andy Garcia in Il Padrino: Parte III (1990) di Francis Ford Coppola

Nei precedenti capitoli ho trovato che la storia personale dei personaggi fosse molto più organica all’interno dell’intrigo politico: nel primo si rappresenta l’ascesa di Michael, nel secondo la sua intelligenza e spietatezza, anche davanti alle persone più vicine a lui.

In questo caso invece la trama l’ho trovata più concentrata sul dramma personale di Michael che cerca di tenere insieme la sua famiglia e i suoi affari, quest’ultimi però mi sono parsi più secondari, una sorta di scheggia impazzita che crea poi dei problemi nella sua sfera personale. Una dinamica in realtà abbastanza tipica per film di questo genere, ma da Coppola mi aspettavo di più.

Un film in parte forse più intimo, più pensato per chiudere una storia, pur riciclando dinamiche già viste in precedenza. Un film necessario? Forse no, ma non per questo inutile.

Michael Corleone in Il Padrino: Parte III

Michael Corleone è stata la parte che più mi ha deluso di questa pellicola. Per quanto sia stato abbastanza bistrattato, per me Al Pacino nei primi due film era mostruoso, riuscendo a portare un personaggio magnetico e intrigante in entrambi i capitoli.

Non ho trovato lo stesso in Il Padrino: Parte III: non so se Al Pacino volesse andare verso alla recitazione di Marlon Brando in Il Padrino (1974), ma per me non ci va minimante vicino. Ho visto un Pacino spento e incapace di rientrare nel personaggio, mancante della potenza che aveva portato in passato. E sicuramente il fatto di non aver ricevuto il compenso inizialmente richiesto per il ruolo non ha aiutato.

Manca fra l’altro per me una storia interessante riguardo al suo personaggio, che sembra solo che cerchi affannosamente di tenere insieme la famiglia e i suoi affari, fallendo tragicamente. Con un finale che mi è parso troncato e che ha cercato di mandare un messaggio simile al precedente capitolo, per me non riuscendoci.

Vincent Corleone in Il Padrino: Parte III

Vincent Corleone è interpretato da un attore di grande valore come Antony Garcia, che fu anche candidato all’Oscar per questo ruolo. Purtroppo, per quando l’attore assomigli anche nella recitazione a quella di Al Pacino nei primi capitoli, per me Pacino ha fissato un livello troppo alto e, di fatto, irraggiungibile. E per me Garcia non l’ha raggiunto.

Oltre a questo, non ho ritrovato la stessa crescita e trasformazione di Micheal, per quanto il film cerchi di citarla e riportarla in scena. Invece ho trovato Vincent più vicino al personaggio di Sonny, il padre illegittimo, soprattutto all’inizio, e non mi sono sentita coinvolta nella sua storia.

Un film più edulcorato?

Andy Garcia in Il Padrino: Parte III (1990) di Francis Ford Coppola

Ho ammirato Il Padrino e il suo seguito per la capacità di Coppola di creare una tensione da brividi e la violenza esplosiva, ma gestita con una mano attenta e raffinata. Nel Il Padrino: Parte III la violenza è molto più rara, molto impressionante in alcune scene, ma manca di quel tratto interessante di cui sopra.

Purtroppo questo film fu una delle prime pietre tombali di Coppola: dopo il flop di Raiman (1997), il regista lasciò il cinema per un decennio, per poi riapparire sporadicamente in progetti che non ebbero la risonanza dei suoi capolavori degli Anni Settanta e Ottanta.