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Bad Teacher – La rivincita della cool girl

Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan è una commedia spassosa e irriverente con protagonista Cameron Diaz.

Non un grande film, ma un film che porto veramente nel cuore.

Con un budget veramente ridotto (appena 20 milioni), si portò a casa la bellezza di 216 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Bad Teacher?

Elisabeth è la classica maestra che si approfitta della sua posizione a discapito dei propri studenti. La sua vita viene scombussolata quando non riesce a combinare un matrimonio vantaggioso che l’avrebbe sistemata a vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bad Teacher?

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Dipende.

Bad Teacher è un’ottima commedia che prende le mosse dai prodotti comici tipici dei primi Anni Duemila, come l’indimenticabile Dodgeball (2004). Tuttavia porta anche un racconto più originale e maturo, senza mai sfociare nel cattivo gusto.

Ve lo consiglio principalmente se vi piacciono questo tipo di commedie e se soprattutto amate Cameron Diaz come attrice comica, in questo ruolo in forma smagliante, circondata da altri attori comici di grande valore come Jason Segel e Eric Stonestreet.

Perché siamo dalla parte di Elisabeth…

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Bad Teacher porta in scena una protagonista affatto positiva, anzi: viene subito presentata nelle sue contraddizioni, di come lavori in una scuola per tutti i motivi sbagliati (per sua stessa ammissione) e non abbia in realtà alcuna voglia di insegnare, né di avere alcun tipo di relazione con i propri alunni, di cui non conosce neanche il nome.

Alla prima occasione si approfitta di un matrimonio di convenienza, che però va gambe all’aria e la riporta forzatamente dietro la cattedra. L’unico movente che infine la spinge ad insegnare veramente ai suoi alunni è il puro e semplice profitto.

Allora perché siamo dalla sua parte?

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Proprio per il suo comportamento eccessivo Elisabeth è un personaggio irresistibile, e al contempo è anche molto umano: una donna estremamente attraente e desiderabile, che ha basato tutta la sua vita solamente su questo, anche andando a banalizzarsi. In realtà è un personaggio con grandi capacità (e volontà) di aiutare gli altri.

E infatti nel finale assume il ruolo che avrebbe sempre dovuto avere: consulente scolastico, una sorta di psicologo della scuola. Non a caso in diversi momenti del film, pur nel suo modo particolare, si è spesa nell’aiutare gli altri (la collega Lynn, il suo alunno Garret…), con consigli concreti ed effettivamente utili.

…e non di Amy

Lucy Punch in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Per quanto Amy sia apparentemente il personaggio positivo, o almeno quello che vive nella legalità, è decisamente quello più negativo di tutti.

Sicuramente è una maestra che si impegna nel suo lavoro, che cerca anzi modi creativi per incoraggiare i propri studenti a studiare. Tuttavia è del tutto evidente che anche lei, seppur per motivi diversi da Elisabeth, non insegna per il piacere di insegnare.

Infatti proprio per la questione del concorso verso la fine del film, è chiaro che Amy si impegni così tanto nel suo lavoro solo per avere un riconoscimento sociale, e convincere di fatto sé stessa di essere la migliore.

Quindi capiamo anche la sua frustrazione nell’essere scalzata da una mediocre come Elisabeth.

Accontentarsi di uomini mediocri

Justin Timberlake in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Il grande difetto di Elisabeth, che è al centro della sua maturazione nel film, è la sua incapacità di valorizzarsi, e per questo di cercare relazioni solamente con uomini mediocri.

Questo è il paradosso della cool girl, della ragazza popolare troppo cresciuta: l’incapacità di andare oltre le dinamiche adolescenziali e cercare relazioni appaganti, preferendo rincorrere la fama e i soldi.

Proprio mentre parla con Garret, Elisabeth si rende conto di star usando la stessa superficialità di Chase, andando a scegliere gli uomini che hanno un valore sociale più che un valore relazionale. Quindi nel caso della giovane Chase, il ragazzo più popolare, nel caso di Elisabeth, l’uomo più ricco.

Justin Timberlake e Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

E infatti, il suo futuro marito all’inizio si rivela fin da subito una drama queen, fra l’altro incapace di gestire la propria relazione senza l’ingombrante figura materna. E Scott ancora di più è un uomo che oggettifica le donne solo per il loro aspetto, è un razzista e un conservatore, oltre che incapace di avere delle relazioni sane.

Questo è l’altro grande passo avanti che Elisabeth compie nella pellicola: scegliere di avere una relazione con un uomo che non è né bellissimo né ricco, ma che è con cui è davvero affine e che è capace di darle una relazione soddisfacente.

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Jungle Cruise – Tutto nacque da una giostra…

Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra è un classico blockbuster estivo. Uscì in quella strana estate del 2021, quando distribuire le pellicole in sala era ancora un terno al lotto.

Nonostante la presenza di due star come The Rock e Emily Blunt, nonostante tutti gli elementi che lo rendono una piacevole avventura per ragazzi, non fu un buon successo commerciale. Infatti, a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ne incassò appena 220.

Tuttavia, per il momento storico fu considerato soddisfacente, tanto che è stato ordinato un sequel.

Di cosa parla Jungle Cruise?

Londra, 1916. La Dottoressa Lily è una giovane e intraprendente avventuriera che vuole mettersi sulle tracce delle leggendarie Lacrime della Luna, che permetterebbero di guarire ogni malattia. La sua avventura viene ostacolata da un misterioso principe europeo, che vuole fare di tutto per mettere le mani su quel tesoro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Jungle cruise?

The Rock in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Jungle cruise è un film senza molte pretese, ma che comunque si impegna a dare tutto il tempo ai personaggi per respirare e farsi conoscere dal pubblico. Per certi versi anche troppo, vista la durata atipica per un prodotto di questo genere (più di due ore!).

Tuttavia, è anche una pellicola divertente e che intrattiene facilmente, con una regia frizzante e coinvolgente. Lo consiglio per una visione rilassata, sopratutto se siete appassionati dei film di avventura per ragazzi di questo tipo.

Che cos’è la Jungle cruise?

Come anticipato, questo film è tratto dalla giostra omonima di Disneyland.

Non è la prima volta che Disney fa un’operazione del genere: la stessa cosa era successa anche con la saga di Pirati dei Caraibi. E in questo caso l’ispirazione primaria si vede molto bene all’interno del film: una delle scene principali riguarda proprio un gruppo di turisti che viene portato su un battello attraverso la giungla, con tanti effetti speciali per intrattenere il pubblico.

E infatti, provando la giostra di ispirazione, potrete vivere praticamente quello che vedete nel film.

Perché Lily è un buon personaggio…

Emily Blunt in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Alla prima visione ero rimasta poco convinta dalla gestione dei personaggi di Lily e di MacGregor. Se per il fratello ho ancora qualche riserva, per lei mi sono effettivamente ricreduta.

Il suo personaggio è indubbiamente costruito a tavolino: è una ragazza giovane e avventurosa, che non si lascia fermare da niente, neanche da un mondo di uomini che cercano di bloccarla e sminuirla. Oltre a questo, è anche animalista e non può assolutamente sopportare il maltrattamento di animali.

Un personaggio che appare forzato per come è messo in scena, sopratutto per il contesto storico, ma che è anche giusto per il tipo di target. Mi immagino quanto facilmente una bambina o ragazzina riesca ad immedesimarsi in questa protagonista le cui dinamiche, con le dovute differenze, può ritrovarle anche nella sua vita quotidiana.

…ma MacGregor forse no.

The Rock e Jack Whitehall in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Il personaggio di MacGregor è stato costruito con lo stesso concetto, ma in questo caso forse ricadendo in uno stereotipo troppo pesante per essere gestito con così tanta leggerezza.

Anche se non viene detto esplicitamente, il suo dialogo con Frank suggerisce abbastanza chiaramente che MacGregor è un uomo omosessuale che vive in una società ostile, e che solo la sorella lo supporta. E per questo viene associato ad una serie di stereotipi, come la sua passione per il vestirsi bene e in generale la vita raffinata.

Tuttavia, anche questo può essere un personaggio in cui un bambino si può rivedere: magari un giovane spettatore con le stesse difficoltà del personaggio, che non riesce ad imporsi e a rispettare le richieste che la società che lo circonda. E che alla fine, in diversi momenti prende coraggio e interviene nell’azione.

Quindi, non del tutto da buttare, ma avrei preferito che fosse meno stereotipato.

Un film animato?

La regia del film come detto è piuttosto frizzante, tanto da portare una messa in scena che sembra nè più nè meno quella di un lungometraggio animato. E per questo funziona perfettamente.

Lo conferma il character design dei personaggi: Mr Nilo e il Principe sono incredibilmente esagerati nell’aspetto e nei comportamenti, al limite della macchietta. Ma in questo caso delle macchiette simpatiche e che funzionano, con degli attori eclettici e di altissimo livello.

Non a caso Paul Giamatti è uno dei miei caratteristi preferiti, a partire dal suo personaggio in Una notte da leoni 2 (2011)

E Jessie Plemons conferma ancora il suo eclettismo, passando da un film di questo tipo a ruoli incredibilmente complessi come in I’m Thinking of Ending Things (2020). E la morte del suo personaggio, schiacciato comicamente come la Strega dell’Ovest da un masso enorme, non fa che confermare la vena comica e cartoonesca della pellicola.

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Il sorpasso – Il dramma del boom

Il Sorpasso (1962) di Dino Risi è un film che si inserisce nel cosiddetto genere della commedia del boom.

Un filone che si sviluppò fra la metà degli Anni Cinquanta e Sessanta per raccontare il fenomeno economico-sociale del Boom Economico che travolse, fra gli altri, anche l’Italia.

E fu anche un enorme successo commerciale: nonostante una timida apertura, la pellicola godette di un ottimo passaparola, diventando il prodotto di maggior successo in Italia quell’anno.

Di cosa parla Il sorpasso?

Roberto è un timido studente di legge, che si trova da solo a studiare durante la giornata di Ferragosto a Roma. Viene coinvolto in un viaggio improvviso e travolgente da Bruno, un uomo conosciuto proprio quella mattina.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Il Sorpasso è un film imperdibile

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso è una perla della cinematografia nostrana, una pellicola con un incredibile Vittorio Gassman, che interpreta Bruno, che è la perfetta controparte del compianto Jean-Louis Trintignant, che interpreta Roberto.

Una commedia irresistibile, che lascia però un sorriso amaro in bocca: capace di raccontare il sogno del boom, ma svelando anche la drammaticità con pochi tocchi ben azzeccati.

Al contempo, è considerabile un buddy movie ante litteram, che si dice abbia persino influenzato Easy Rider (1969, dal titolo con cui era stato distribuito negli Stati Uniti, Easy Life).

Un capolavoro intramontabile, insomma.

Bruno: l’inarrestabile nel Sorpasso

Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so. L’ho conosciuto ieri mattina.

Bruno rappresenta il fragile sogno del boom economico: apparentemente travolgente e inarrestabile, in realtà con una fragilità e una fallibilità intrinseca.

Il suo personaggio infatti solo apparentemente si destreggia facilmente fra i luoghi, le donne e gli affari. In realtà fino alla fine del film non ha un soldo in tasca e solo fortuitamente guadagna 50.000 lire dal futuro marito della figlia.

Così ci prova praticamente con tutte le donne che incontra, dalle tedesche che insegue fino alla ex-moglie alla fine, ma nessuna sembra interessata a lui o comunque si concede davvero. Così sembra sempre pronto a destreggiarsi fra gli affari, ma in realtà non ne combina veramente nessuno.

E proprio la sua fallibilità si definisce quando perde il suo slancio e viene riportato coi piedi per terra dai personaggi che gli stanno intorno, in particolare Roberto, che agisce un po’ da grillo parlante. Così, quando inseguono le ragazze tedesche e si trovano in un cimitero, quando un Bruno indeciso cerca comunque di continuare il suo piano, è Roberto che lo invita ad andare via. E Bruno accetta.

Roberto: l’inetto nel Sorpasso

È che ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia.

Come Bruno rappresenta lo sfolgorante sogno del boom, Roberto è invece l’immagine di una sorta di nostalgia infantile per il passato, dell’incapacità di adattarsi alla frenesia del nuovo presente.

In particolare vive dei suoi sogni d’infanzia, della stanza dei lettini nella casa degli zii, dell’amore ancora vivo per Zia Lidia, degli apparenti fallimenti con Valeria, la ragazza dei suoi sogni. E al contempo vive nei suoi pensieri, dove sembra pronto all’azione, ma che non realizza mai fino alla fine.

Roberto è un personaggio continuamente in imbarazzo e fuori posto, in particolare nella scena della spiaggia, dove non accetta mai di scoprirsi come gli altri, dove non vuole mai adeguarsi. Anzi la sua è una continua fuga, un continuo tentativo di tornare sui suoi passi e scendere dal treno e tornare ai suoi libri, alla Roma deserta ma rassicurante.

E, quando decide finalmente di adattarsi alla nuova realtà, viene punito.

Il dramma del boom

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso rappresenta in tutto e per tutto la fragilità del sogno di ricchezza e di possibilità senza limiti, quando l’Italia stava vivendo una ritrovata (e apparente) situazione di felicità.

Questa euforia è rappresentata in primo luogo dal viaggio spericolato e che non si pone regole, anzi le infrange volutamente. Poi dalla ricchezza dei luoghi frequentati: prima l’autogrill, poi il club del Cormorano e infine la spiaggia.

La spiaggia in particolare è davvero il luogo più travolgente e imprevedibile, da cui Roberto cerca continuamente di sottrarsi. Pieno di gente fino a scoppiare, rumoroso e concitato, e che sembra sempre il punto di partenza per possibilità diversissime.

Non a caso sul motoscafo di Bibì si parla di arrivare a Portofino in un paio d’ore, e alla fine proprio Bibì e Lilly vanno via improvvisamente alla volta dell’Isola dell’Elba.

Una corsa inarrestabile, che non sempre si risolve in un esito positivo.

Il momento anzi più alto che svela la fragilità del boom è quando Bruno cerca di comprare l’incidente: vediamo solo le casse a terra, il guidatore che lo ascolta e, senza una parola, si allontana con le mani premute in viso, mentre l’inquadratura si allarga e mostra un cadavere a terra.

Un sogno bellissimo, ma che può facilmente fallire.

Scrivere in corsa (e schiantarsi)

Vittorio Gassman in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

La bellezza di questo film è che fu scritto col preciso fine di raccontare un’Italia credibile e vera.

Per questo, durante la scrittura del film gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari tenevano sempre sottomano i giornali del giorno, per inserire riferimenti anche alla immediata attualità.

Un esempio è quando Bruno parla della giurisprudenza marziana, perché proprio in quel periodo, quando il sogno dell’Allunaggio si faceva più vicino, si cominciava a parlare di questi argomenti.

Il finale fu, secondo gli stessi autori, deciso per una scommessa, ma in realtà non potrebbe essere più giusto che così: un sogno sfavillante che si conclude con una terribile tragedia.

La figura della donna

La figura della donna ne Il Sorpasso è estremamente variegata.

Per la maggior parte del tempo vediamo donne enigmatiche, irraggiungibili e che non si concedono molto facilmente: così le due ragazze tedesche del cimitero, la cassiera all’autogrill, e persino la ragazza che Roberto incontra alla stazione.

Per la maggior parte donne immerse nella bellezza del boom, che decidono per se stesse, a partire dalla giovanissima figlia di Bruno.

Ci sono due splendide eccezioni che si pongono ai due estremi: la zia Lidia, timida donna di campagna che si lascia per poco tentare dalle lusinghe di Bruno, ma che, guardandoli andare via, ricompone la sua crocchia e si ritira di scena.

E al lato opposto la donna rapace: Gianna, la moglie del Commendatore, che seduce senza pietà Bruno al Club del Cormorano, anche davanti agli occhi del marito.

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Luca – Un’estate italiana

Luca (2021) di Enrico Casarosa è un film Pixar, uno dei tanti – insieme a Red (2022) e Soul (2021) – rilasciati direttamente su Disney+.

Ma fu comunque un grande successo di pubblico.

Di cosa parla Luca?

Luca Paguro è una creatura marina, ma anche un ragazzino spaventato che ha sempre vissuto sott’acqua e che non ha mai visto la superficie. La sua vita cambierà grazie all’incontro con Alberto, ragazzino scapestrato ed esperto del mondo di superficie, con cui comincerà la sua grande avventura.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Luca?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Assolutamente sì.

Per quanto Luca non sia fra i migliori della Pixar, lo porto veramente nel cuore. Poche volte ho visto così tanto amore e una mano così attenta, un regista che riesca veramente a raccontare l’Italia in maniera credibile e riconoscibile, pur dovendosi piegare alle richieste del cinema statunitense.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Raccontare (davvero) l’estate italiana

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Come abbiamo visto in tempi più o meno recenti, il pubblico statunitense ha bisogno di essere nutrito di stereotipi per l’Italia (e non solo).

In particolare, nel loro immaginario l’Italia è ferma agli Anni Sessanta, come dimostra il successo di pellicole come Call me by your name (2016), e sono spesso incapaci di distinguere fra la cultura italiana e quella italo-americana, come ben dimostra per l’ennesima volta House of Gucci (2021).

Tuttavia, la Pixar non è la prima arrivata e ha dato permesso ad un regista italiano alla sua opera prima di rappresentare davvero l’estate italiana, con una rappresentazione sicuramente datata ed adattata ad un pubblico statunitense, ma, per una volta, per un buon motivo: Enrico Casarosa ha voluto raccontare la sua estate dell’infanzia in Liguria.

Ci sono vari elementi che mostrano davvero un grande impegno nel rappresentare qualcosa di vero e credibile. Uno dei più evidenti è la scelta delle canzoni da utilizzare: canzoni pop che rappresentano l’infanzia per la generazione degli Anni Ottanta-Novanta, poco o per nulla conosciute al di fuori del nostro paese.

In secondo luogo, la rappresentazione di Portorosso: una cittadina di mare in cui facilmente qualunque italiano, soprattutto se ligure, può riconoscersi. E una raffigurazione del genere non poteva venire se non da chi ci ha veramente vissuto.

Ma il vero virtuosismo è stato il doppiaggio.

Scegli un doppiaggio, sceglilo bene

Luca (Jacob Tremblay) e Ercole (Saverio Raimondo) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

Il doppiaggio e la scrittura dei dialoghi di Luca sono veramente di alto livello.

In particolare, ho adorato il doppiatore di Luca, Jacob Tremblay, un giovanissimo interprete in rampa di lancio che abbiamo visto in Bad boys (2020) e che sarà la voce di Flanders nel live action de La Sirenetta in prossima uscita.

In generale i doppiatori del terzetto di protagonisti si sono veramente impegnati e sono anche piuttosto credibili quando parlano italiano, semplicemente perché non forzano l’accento alla Super Mario che abbiamo visto in House of Gucci, appunto (film che può essere citato all’infinito come esempio negativo).

Ma la vera punta di diamante è stato il doppiatore di Ercole, che sia in italiano che in inglese è interpretato dall’ottimo Saverio Raimondo, comico nostrano che ci ha offerto una performance di primissimo livello.

E non di meno la scelta di utilizzare doppiatori italiani per i personaggi secondari e di sfondo è stata un tocco di classe.

Le poche sbavature

In una scrittura e rappresentazione così coerente e credibile, stonano più del solito un paio di elementi, probabilmente prodotti di sceneggiatori che non hanno la stessa conoscenza dell’Italia come il regista.

In particolare, certe espressioni che usa Giulia, come santa mozzarella, molto infantili e che sembrano più derivate dal collegamento di uno statunitense fra gli italiani e il cibo, più che da espressioni effettivamente realistiche.

Oltre a questo, purtroppo il finale appare molto debole e forzato, non riuscendo a portare una giusta credibilità alla scelta dei personaggi di accettare i mostri marini che cacciavano fino al giorno prima.

Tuttavia, per l’esperienza che mi offre il film, non è un elemento che mi dà neanche così tanto fastidio.

Luca: Creare un trend

Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:

https://www.tiktok.com/@steppingthroughfilm/video/7076131066016320773?_r=1&_t=8UbwXDICHtG

Un caso analogo a quello di Encanto (2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.

Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.

Luca: Creare un trend

Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:

https://www.tiktok.com/@steppingthroughfilm/video/7076131066016320773?_r=1&_t=8UbwXDICHtG

Un caso analogo a quello di Encanto (2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.

Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.

Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.

Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:

https://www.tiktok.com/@antonioparlati/video/6979273456667872518?_t=8UbuahFh9m9&_r=1

Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?

Luca (Jacob Tremblay) e Alberto (Jack Dylan Grazer) in una scena di Luca (2021) di Enrico Casarosa, film Pixar

L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.

Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:

https://www.tiktok.com/@antonioparlati/video/6979273456667872518?_t=8UbuahFh9m9&_r=1

Una vera chicca

Una vera chicca, che non so quanti possano aver notato, è la foto che Alberto tiene sullo specchietto della vespa: niente poco di meno di Marcello Mastroianni, il più incredibile attore del nostro cinema (e non solo), nei panni del Barone Fefè in Divorzio all’italiana (1960) di Pietro Germi.

Una commedia grottesca splendida, uscita nel periodo d’oro della Cinematografia Italiana, che si vede di sfuggita anche in un’altra scena.

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Call me by your name- Persi in un bellissimo sogno di Tumblr

Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino è un piccolo cult della cinematografia mainstream. Infatti, nonostante incassò pochissimo (appena 40 milioni in tutto il mondo), acquisì col tempo moltissima popolarità e lanciò Timothée Chalamet come attore.

Un film che ho sempre evitato di guardare, perché davvero poco interessata ad esso ed al genere in generale. E infatti avrei potuto passare in maniera decisamente migliore il mio tempo. Tuttavia, come in altri casi, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi. E non a caso la sua popolarità è di fatto facilmente spiegabile.

Di cosa parla Call me by your name?

Elio è un diciasettenne franco-americano che sta passando, come ogni anno, le vacanze in Italia. La sua vita verrà sconvolta dell’incontro con Oliver, studente straniero ospitato dal padre nella loro casa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Call me by your name?

Dipende.

Prima di scegliere di guardare questo film, io ci penserei molto bene, per evitare di rimanere incastrati in un film che potrebbe non far per nulla per voi. Infatti, nonostante cerchi in parte di distaccarsi da alcuni stereotipi del genere, è di fatto un dramma romantico dal sapore adolescenziale.

Ed è veramente solamente questo: il racconto gira intorno alla scoperta della sessualità da parte di Elio e alla sua relazione con Oliver, e veramente non c’è altro. Quindi se, come me, non siete particolarmente fan di questo tipo di storie col dramma facile, lasciate davvero stare…

Altrimenti, potrebbe essere il vostro nuovo film preferito.

Perché Call me by your name è diventato un cult?

I punti di forza di Call me by your name sono l’originalità, la scelta del protagonista e l’ambientazione.

Indubbiamente si tratta di una delle poche pellicole mainstream, oggi come cinque anni fa, che racconta una relazione queer senza stereotipare o feticizzare i suoi protagonisti.

E questo è stato indubbiamente un valore della pellicola, che ha superato, almeno in parte, questo tipo di narrazione.

Oltre a questo, il protagonista scelto è perfetto, sia come attore, sia per come e stato scritto. Un personaggio in cui un adolescente, soprattutto un adolescente queer, può facilmente immedesimarsi (e che ha coinvolto anche me).

Infine (e questa non è una cosa positiva) l’ambientazione è scelta ad hoc per il pubblico statunitense, che riesce a digerire un’Italia solo se cristallizzata in una realtà lontana nel tempo e, di fatto, inesistente.

Immedesimarsi nel protagonista

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Partiamo dalle poche cose positive.

E indubbiamente Timothée Chalamet, che ho apprezzato sia per Dune (2021) che per Piccole donne (2019), è stato davvero convincente.

La bontà del suo personaggio è dovuta sia alla scrittura, sia alle capacità recitative dell’attore. Va a suo vantaggio anche il fatto che Chalamet, che al tempo aveva ventun anni, è un diciassettenne assolutamente plausibile.

Anzi, potrebbe essere persino più giovane.

Oltre a questo, il suo comportamento è del tutto credibile e realistico: si innamora di un uomo molto più adulto di lui, è totalmente schiavo della sua sessualità e la esplora, fingendosi grande e senza paura, in realtà di paura avendone moltissima…

Raccontare la queerness, e bene

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Tutto sommato la trattazione della queerness dei protagonisti è ben gestita.

Sia perché, a differenza di altri prodotti, non è limitante: entrambi i personaggi hanno relazioni sessuali soddisfacenti sia con uomini che con donne, senza essere ridotti a mere etichette e stereotipi.

Al contempo, si parla due ragazzi assolutamente normali e credibili, totalmente estranei a certi stereotipi ancora molto presenti nel cinema occidentale. E, soprattutto per quanto riguarda Oliver, si tratta di personaggi dalla mascolinità molto forte e presente, costantemente messa in scena.

L’indelicatezza del miscasting

Armie Hammer in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Un problema per me piuttosto grave è stato castare Armie Hammer per Oliver.

Il suo personaggio infatti dovrebbe essere un ventiquattrenne (per quanto non venga mai detto esplicitamente nel film). Purtroppo Hammer, a differenza di Chalamet, dimostra tutti i trent’anni che aveva al tempo.

Per questo è stato per me fondamentalmente impossibile appassionarmi alla relazione dei protagonisti: sullo schermo non vedevo un ventenne e un diciassettenne, ma un trentenne e un diciassettenne (o anche più giovane).

Impressione che ha dato alla scena tutto un altro sapore…

E questo è un problema non tanto per l’età effettiva dell’attore, ma per l’incapacità di farmi sospendere l’incredulità. Un elemento che, purtroppo, sembra che dia fastidio solo a me e che troviamo drammaticamente in progetti anche recenti come Licorice Pizza (2021).

Il sogno italiano

Armie Hammer e Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Una cosa che non perdonerò mai a questa pellicola è il fatto che un regista italiano si sia abbassato al gusto statunitense invece che portare una rappresentazione interessante del suo paese.

Infatti è indubbio che l’ambientazione nella Italia provinciale degli Anni Ottanta, che sembrano in realtà Anni Sessanta, è stata scelta ad uso e consumo del pubblico statunitense.

Lo spettatore medio statunitense è incapace comprendere che l’Italia contemporanea non è più quella de La dolce vita (1960).

Una realtà è drammaticamente evidente da film come il recente Luca (2021) e dall’insuccesso di ogni prodotto italiano che abbiamo provato a portare all’estero che non facesse parte di questo immaginario.

Il finale punitivo

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Ancora meno mi è piaciuto il finale punitivo del film.

Non solo perché si vede ancora una volta questa incessante sofferenza che i personaggi queer vivono nel cinema occidentale, perché è un finale che ho trovato veramente gratuito e poco credibile.

Infatti, per quanto il film continui a dirlo a parole, niente di quello che ho visto mi racconta veramente una società omofoba che non avrebbe accettato la relazione dei protagonisti. Anzi, vediamo una famiglia totalmente aperta all’idea, dei personaggi secondari che non fanno mai nessun tipo di commento in merito.

Oltre a questo, ed è davvero paradossale, in una scena verso metà film Oliver parla letteralmente di quanto abbia avuto piacere a fare sesso con Elio a voce alta davanti ad una edicola in paese, con fra l’altro una persona alle sue spalle.

Insomma, una bella narrazione fatta apposta per portare alla lacrimuccia finale…

L’imbarazzo

Ci sono due momenti che mi hanno fatto veramente imbarazzare per il film.

Anzitutto, ho trovato al limite del comprensibile questo specie di segreto che hanno i due protagonisti, ovvero quello di chiamarsi con il nome dell’altro.

Non l’ho trovato per nulla romantico o interessante, ma un modo gratuito per creare una scena iconica e citabile, oltre che il momento commovente sul finale.

Ma quello che mi ha fatto davvero esasperato è stato il discorso del padre sul finale.

Anzitutto per il fatto che, di nuovo, questa omofobia così pericolosa non si sente dal film. E di conseguenza questa idealizzazione della relazione di Elio e Oliver, che di fatto non ha nulla di speciale, l’ho trovata nauseante.

Soprattutto perché il padre, se proprio avesse voluto incoraggiare il figlio a vivere serenamente la sua queerness, avrebbe potuto dire ben altre cose più che raccontargli come speciale e unica una relazione appunto non così importante.

Nel film infatti non vediamo un ragazzo che scopre la sua sessualità, ma che ne è già cosciente e che si approccia a Oliver anche sfacciatamente in questo senso. Da parte mia ho visto più che altro un’avventura estiva come tante.

Tuttavia questo tipo di narrazione della relazione speciale e indimenticabile è funzionale al pubblico di adolescenti target.

E quindi, per quanto ridicola, non poteva certo mancare.

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Baywatch – Rinnovare un cult

Baywatch (2017) di Seth Gordon è stato il tentativo di rilancio dell’iconica serie omonima.

Il film non fu di per sé un flop, ma neanche un grande successo commerciale, come forse ci si aspettava per un revival di questo genere.

Infatti, davanti ad un budget di 69 milioni di dollari, ne incassò appena 177. Non a caso il sequel fu più o meno annunciato durante la prima proiezione, ma del progetto non si ebbe più notizia.

Di cosa parla Baywatch

Il tenente Mitch Buchannon è il caposquadra dei bagnini delle spiagge di Emerald Bay. Si trova improvvisamente a dover gestire Matt Brody, ex atleta olimpico e testa calda che vuole unirsi a tutti costi al gruppo. Nel frattempo la baia è minacciata dall’avida imprenditrice Victoria Leeds…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Baywatch fu un insuccesso?

Baywatch è stato un interessante tentativo di riportare in auge il franchise della serie tv iconica.

Purtroppo, si tratta di un prodotto ben poco adatto ai tempi, sia per la comicità datata, sia per il tipo di rappresentazione dei personaggi, schiacciati da un machismo e da una ipersessualizzazione insopportabile.

Per questo si è scelto una via di mezzo: circoscrivere determinati aspetti datati su pochi personaggi e mettere maggiormente in risalto i personaggi femminili.

In particolare, rendere il villain una femme fatale potente e spietata è stata la classica soluzione di compromesso.

Purtroppo Baywatch richiede molto di stare al gioco e capire che si tratta di un prodotto revival che riprende il taglio della serie. Quindi una comicità molto spicciola, machista e corporale, una trama molto cartoonesca e non particolarmente spettacolare.

Se non ci si rende conto di questo aspetto fin da subito e se si fa parte della generazione dei millennial in su, a cui il film è indirizzato, si potrebbe provare un certo imbarazzo per quello che si vede in scena e di conseguenza non sentirsi coinvolti.

Baywatch può fare per me?

Zac Efron e Jon Bass in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Dipende.

Se apprezzate i classici film con protagonista The Rock, probabilmente sì. Tuttavia, come detto, la comicità è un po’ più datata, un incontro fra la saga di Scary Movie e Magnum P.I. Tuttavia complessivamente io l’ho trovato un film godibilissimo, con una trama sicuramente semplice e piena di stereotipi, ma che riesce facilmente ad intrattenere.

Quindi se già dal trailer vi ispira, dategli un’occasione.

Sessualizzazione contestualizzata

Kelly Rohrbach in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Una questione abbastanza problematica era la sessualizzazione del corpo femminile, di cui si è ben parlato nella serie Pam & Tommy.

In questo senso, hanno scelto una via di mezzo: i personaggi femminili in generale sono messi in primo piano nella storia e non sono quasi mai sessualizzati, e soprattutto non vi è tendenzialmente una regia voyeuristica sui loro corpi.

Una parziale eccezione è rappresentata da Casey, che riprende fondamentalmente le parti di Pamela Anderson nella serie. Ma anche Casey è una scelta calibrata. Anzitutto, si è evitato di imporre la ipersessualizzazione su Stephanie, interpretata da un’attrice latina (e con tutti gli stereotipi che ne sarebbero seguiti).

Al contrario, è stata scelta un’attrice come Kelly Rohrbach, con un volto pulito e che incarna la dream girl californiana. Quindi molto diverso dalla ragazza bella e impossibile come era Pamela Anderson, appunto.

Quindi l’oggetto del desiderio del personaggio maschile, con alcune soggettive un po’ infelici sul suo seno, che è comunque molto messo in mostra. Ma al contempo, per fortuna, Casey non è appiattita nel ruolo di pixie girl, ovvero il personaggio femminile che esiste unicamente in funzione della maturazione del personaggio maschile.

Machismo distruttivo

Zac Efron e Alexandra Daddario in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Un’altra tematica molto forte della pellicola è il machismo distruttivo fra i due protagonisti maschili.

Tuttavia anche questo è stato costruito con un minimo di intelligenza: non esclusivamente un antagonismo fra Mitch e Matt, ma un tentativo di Mitch di ridimensionare Matt e fargli imparare qualcosa, pur talvolta cercando di devirilizzarlo.

Questo accade infatti quando Mitch parla della manvagina di Mitch e quando lo salva facendogli la respirazione bocca a bocca sul finale, e prendendolo in giro per questo. Ma, tutto sommato, la storia è più che altro funzionale a raccontare il percorso di crescita di Matt.

Una comicità datata

Kelly Rohrbach, Jon Bass e Hannibal Buress in una scena di Baywatch (2017) di Seth Gordon

Non solo la comicità, ma in generale la storia raccontata è proprio quella di un altro periodo. È così comico e poco credibile già solamente l’esistenza di bagnini che risolvono il crimine, e soprattutto che nella baia ci siano questo tipo di problemi.

Oltre a questo, la comicità è in generale molto datata: senza dover scomodare gli Anni Ottanta, sembra molto un umorismo tipico di quelle commedie primi Anni Duemila bellissime e terrificanti come Dodgeball (2004).

E questo potrebbe aver anche allontanato il pubblico dalla sala…

Cameo a tempo perso?

Nel film ci sono due camei che dovrebbero farti rimanere a bocca aperta, ma potrebbero essere stati totalmente inutili, in quanto il pubblico che principalmente è andato in sala è quello attirato dai film di The Rock più che dalla serie di Baywatch.

È così evidente che l’apparizione di David Hasselhoff doveva stupire lo spettatore che mi sono sentita in imbarazzo quando non l’ho riconosciuto. Meno imbarazzante l’apparizione di Pamela Anderson, che ho riconosciuto, ma che purtroppo non mi ha dato l’emozione che dovrebbe dare ai fan storici della serie.

Il film insomma strizzare l’occhio ai fan di Baywatch, che però è possibile che non fossero neanche in sala…

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Lo Squalo – Alle origini del terrore

Lo squalo (1975) di Steven Spielberg è considerato il primo film evento, paragonabile agli odierni blockbuster.

Infatti, godette di una distribuzione più mirata e di fatto atipica per il tempo. E, non a caso, fu un enorme successo commerciale: a fronte di 9 milioni di dollari di budget, ne incassò ben 476 in tutto il mondo.

Di cosa parla Lo Squalo?

Lo sceriffo Brody è a capo della polizia di una piccola città balneare, che viene improvvisamente sconvolta da una serie di terribili attacchi da parte di uno squalo di inusuale grandezza e ferocia. Brody dovrà mettere insieme una squadra per mettere fine alla sua minaccia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lo squalo?

Lo squalo, Richard Dreyfuss e Robert Shaw in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Lo Squalo è un film che non può mancare nel vostro bagaglio cinematografico, anche per via della sua semplicità di fruizione. Infatti, anche grazie all’ottima regia di Spielberg, il film scorre molto facilmente, creando una splendida tensione e costruzione della rivelazione del mostro.

Ovviamente, se siete persone molto impressionabili ed avete una paura atavica degli squali e dell’acqua, potrebbe turbarvi profondamente…

Perché Lo squalo è considerato un film evento?

Un film evento è un film che non solo spinge il pubblico in sala, ma rende la visione un effettivo evento a cui non si può mancare di partecipare. Casi simili furono anche The Blair Witch Project (1999) e, più recentemente, Avengers Endgame (2019).

E Lo Squalo fu il primo caso effettivo di questo tipo: oltre a godere di massiccia campagna marketing, venne distribuito in tantissime sale in tutti gli Stati Uniti, fino a 950, tantissime per l’epoca.

E così inaugurò una nuova tendenza per l’industria cinematografica statunitense: film di avventura e azione, con una storia semplice, rilasciati in estate con un importante investimento nella comunicazione ed un ritorno assicurato.

Un concetto simile agli odierni blockbuster, appunto.

La costruzione del mostro

Lo squalo in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Il budget abbastanza contenuto del film ha portato Spielberg ad utilizzare ottimi espedienti per rivelare solo a tratti e gradualmente lo squalo, rivelandolo effettivamente solo nel finale.

Sembra paradossale, ma se si guarda il film diventa chiaro come la tensione sia soprattutto costruita tramite il suggerire (e il non mostrare) lo squalo, appunto. Così al primo attacco non si vede nulla, al secondo solo sangue e il materassino del bambino ucciso, e nel terzo solo la pinna o uno sguardo fulmineo della testa.

Così anche nella seconda parte del film, durante la caccia, lo squalo viene mostrato in maniera molto costruita, rivelandolo totalmente solamente alla fine. E, paradossalmente, vedendolo del tutto, lo squalo sembra molto meno minaccioso di quando non lo vediamo.

Una storia di tutti

Folla che scappa dallo squalo in una scena di Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg

Un grande pregio del film, e anche probabilmente uno dei motivi del suo successo, è il suo taglio realistico e credibile. Vediamo infatti numerosissime comparse che si muovono sulla scena, in inquadrature che potrebbero sembrare quella di una banale ripresa di una qualsiasi spiaggia statunitense degli Anni Settanta.

Per questo tutta la costruzione della tensione nella prima parte del film, impreziosita dallo splendido tema di Williams, coinvolge così facilmente. E così allo stesso modo l’avventura della caccia, per quanto a mio parere sia un po’ troppo allungata, continua a sostenere quel taglio realistico, in particolare con continui fallimenti dei personaggi.

Infatti, alla fine i protagonisti vincono, ma con un espediente improvvisato.

Perché i sequel non hanno senso

Vennero prodotti diversi sequel, a cui Spielberg (giustamente) si rifiutò di partecipare, e che incassarono sempre di meno, non riuscendo mai davvero a lanciare il franchise.

Infatti, nonostante si sia appunto cercato di battere il ferro finché era caldo sul lato sequel, questi non hanno senso per un motivo molto semplice: la storia è già ridotta all’osso di per sé e non dà spazio a seguiti.

Infatti, alla fine il nemico viene indubbiamente sconfitto e vi è un lieto fine.

L’unico modo in cui si poteva fare un sequel è riportando lo stesso nemico e mettendo in scena combattimenti ancora più spettacolari. E così venne fatto per il primo sequel, Lo Squalo 2 (1978) che fu effettivamente un grande incasso. Ma l’entusiasmo svanì velocemente, con ulteriori seguiti che ebbero incassi molto modesti.

L’origine dell’isteria di massa

Lo Squalo fu uno – e il principale – prodotto che portò ad una isteria di massa nei confronti degli squali.

Lo squalo è fra gli animali acquatici più temuti, anche perché nel mondo occidentale non è così raro imbattervisi, a differenza di animali effettivamente pericolosi come i coccodrilli e gli ippopotami.

Purtroppo lo squalo è tutt’oggi cacciato e si è portato dietro una brutta nomea di aggressività e pericolosità per l’uomo. In realtà è un animale ben poco pericoloso per noi, con una media di appena 6 attacchi mortali nel mondo ogni anno.

E questo, se messo in proporzione ai milioni di squali uccisi nello stesso lasso di tempo, è davvero pochissimo.

E anche meno sono gli attacchi senza motivo di questo animale verso l’uomo, mentre è più facile che lo squalo venga attaccato se provocato. Quindi, del tutto diverso da come viene raccontato nel film.

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Captain Fantastic – Uno splendido errore

Captain Fantastic (2016) di Matt Ross è la deliziosa storia di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere al di fuori della società consumistica americana.

Una piccola produzione di appena 5 milioni di dollari, che però portò ad un buon incasso: 22 milioni di dollari ricevette diversi riconoscimenti a livello internazionale.

Di cosa parla Captain Fantastic?

Come anticipato, Captain Fantastic parla di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere nei boschi ed educarsi autonomamente, tramite letture impegnate e un modo di ragionare atipico. Tuttavia, un evento improvviso li costringerà ad intraprendere un viaggio che cambierà la loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Captain Fantastic?

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

Assolutamente sì.

È difficile per me dare un’opinione oggettiva: Captain Fantastic è uno dei miei film preferiti. In generale secondo me per apprezzare questo film è praticamente necessario appassionarsi ed affezionarsi ai suoi personaggi, che sono bellissimi quanto imperfetti.

Infatti, se siete totalmente allergici a certi tipi di discorsi più hipster che criticano aspramente la nostra società (soprattutto quella statunitense), potreste odiarlo e arrivare a parteggiare per i villain del film.

Al contrario, se vi piacciono i film del genere road movie con drammi familiari, pur in un contesto generalmente molto leggero, guardatelo: potreste davvero innamorarvi.

Una famiglia particolare

La bellezza di Captain Fantastic è la particolarità della famiglia raccontata, dove ogni membro riesce ad avere la sua parte nella storia.

Nonostante le evidenti ribellioni e ingenuità di alcuni dei personaggi, sono davvero riuscita ad appassionarmi alla loro storia ed a commuovermi per il tipo di attaccamento che dimostrano l’un l’altro.

Così Ben, il padre, è duro ma amorevole verso i propri figli, insegna loro valori profondi e fondamentali, come la sincerità, la schiettezza e la capacità di ragionare con la propria testa. Un padre comunque fallibile, che alla fine deve ammettere i propri limiti e trovare una situazione di compromesso.

Al contempo sono i figli stessi ad insegnargli qualcosa, fermandolo quando si slancia verso decisioni problematiche, come andare a tutti i costi al funerale della moglie o abbandonare del tutto il suo progetto e lasciare la famiglia dai nonni. Un percorso che i personaggi fanno insieme, migliorandosi lungo la strada.

Una scelta sofferta

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

La scelta di vita di Ben e della sua famiglia è un interessante spunto di riflessione. Effettivamente le idee portate avanti non sono di fatto sbagliate, ma del tutto idealizzate, arrivando sostanzialmente a negare le dinamiche sociali odierne.

Alla fine Ben decide di trovare una soluzione di compromesso per i suoi figli, dargli una casa e mandarli a scuola, non tanto perché rinunci alla bontà delle sue idee, ma perché si rende conto che altrimenti non può proteggerli ed effettivamente prepararli al mondo esterno ed alle sue insidie.

In conclusione, sono tutti riusciti ad arricchirsi con questa esperienza: riescono comunque a vivere a loro modo, ma confrontandosi direttamente con il mondo esterno, e avendo tutti gli strumenti per giudicarlo.

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In viaggio con Pippo – Il mio terribile papà

In viaggio con pippo (1995) di Kevin Lima fu un caso incredibile di rivalutazione di un prodotto alla sua uscita in home video.

Il film infatti uscì nelle sale più per un obbligo contrattuale della Disney che per vera fiducia nel progetto, tanto che incassò pochissimo (37 milioni di dollari contro 18 di budget) e ricevette critiche poco entusiaste.

Tuttavia, con l’uscita in videocassetta, divenne un piccolo cult degli Anni Novanta e Duemila, in particolare per la generazione dei millennials.

Di cosa parla In viaggio con Pippo

Max è un giovane adolescente che vorrebbe solo essere popolare e conquistare la ragazza dei suoi sogni. Per uno strano caso di equivoci, finisce costretto ad un viaggio con il padre, Pippo, che vuole riallacciare i rapporti con lui.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In viaggio con Pippo?

Assolutamente sì.

Per me ancora oggi è un film che vale una visione, anche per immergersi appieno negli Anni Novanta e in uno dei suoi maggiori cult. Una commedia davvero gustosa e divertente, la quale, nonostante qualche ingenuità, è ancora assolutamente attuale.

La consiglio soprattutto se apprezzate le dinamiche alla buddy movie in ambito familiare e il genere road movie.

Oltre a questo, ha una durata talmente breve, che passa in un attimo.

Un rapporto difficile

Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

In viaggio con Pippo è un road movie dal taglio buddy comedy, che racconta il tentativo di un padre di riallacciare i rapporti col figlio ormai cresciuto. Una storia di fatto molto semplice che però, per quanto dovrebbe essere comica, ha dei tratti molto drammatici, al limite dell’inquietante.

Già solamente il motore della vicenda, ovvero l’equivoco di Pippo che pensa che Max possa diventare un delinquente e finire in prigione, è terribilmente realistico e agghiacciante, anche per la messa in scena.

Pippo, da sempre convinto di avere un figlio con la testa a posto e che non farebbe nulla di male, viene terrorizzato dal preside della scuola, che scruta Max con fare poco rassicurante. E l’idea che il figlio prenda una brutta strada è una delle paure che colpiscono qualunque genitore, negli Stati Uniti anzitutto.

Così Max agisce con grande ingenuità, cercando di ingannare il padre per i propri fini ma sentendosi al contempo terribilmente in colpa.

Davvero straziante la scena in cui, con grande riluttanza, cambia il percorso del loro viaggio sulla preziosa mappa del padre. Lo stesso padre che cerca di ascoltare il figlio, dandogli in mano la mappa del loro viaggio e, di conseguenza, fornendogli la libertà di decidere come meglio ricostruire il loro rapporto.

Nonostante questi aspetti che lo rendono un film maturo e ancora interessante, la pellicola pecca in non pochi aspetti.

Un film imperfetto

Pippo e Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Un problema non indifferente del film è che sembra che manchi qualcosa.

Alcuni eventi della trama, soprattutto verso la fine, sembrano molto raffazzonati. Così Roxanne perdona immediatamente Max della sua bugia, così Max e Pippo si riconciliano troppo facilmente con una canzone e con altrettanta facilità riescono ad entrare al concerto, che era l’obbiettivo finale del film.

Se guardate qualsiasi prodotto analogo dello stesso periodo, la risoluzione finale richiede sempre un minimo di costruzione, anche improbabile, in cui i personaggi superano un ostacolo apparentemente insormontabile.

Per fare un esempio molto banale, in Quanto è difficile essere teenager! (2004) la protagonista vuole (come Max) recarsi ad un concerto, pur non avendo i biglietti. Questo elemento viene portato avanti per tutta la trama e ha un tipo di costruzione che poi porta effettivamente al finale.

Niente di tutto questo per In viaggio con Pippo.

Non è un sorprendente scoprire che ci furono diversi problemi produttivi, sia per il budget abbastanza risicato sia per problemi tecnici, col risultato che si dovette rifare da capo parte del film.

Oltre a questo, la pellicola fu approvata da Jeffrey Katzenberg, che fu a capo della Disney fino al 1994, per poi essere licenziato e diventare uno dei cofondatori della Dreamworks Animation.

Per questo i nuovi capi della casa di produzione di Topolino non ebbero evidente interesse nel progetto e lo rilasciarono, come detto, principalmente per obblighi contrattuali con Katzenberg.

Perché In viaggio con Pippo divenne un cult

Big Foot in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Quindi, perché In viaggio con Pippo divenne un cult?

La bellezza del film risiede principalmente due aspetti: l’originalità di alcune trovate e il taglio narrativo.

Anzitutto, diversi elementi di questa pellicola diventarono immediatamente iconici, come il gorgonzola spray tanto amato da Bobby e la divertentissima gag di Big Foot. Elementi non del tutto comuni in piccoli film per bambini di questo tipo, e che oggi avrebbero sicuramente generato una quantità infinita di meme.

Oltre a questo, il taglio narrativo è piuttosto particolare, ed è anche il motivo del suo insuccesso: non parla per niente ai bambini, ma al contrario racconta in maniera credibile sia le ansie del protagonista adolescente sia le preoccupazioni di Pippo come padre.

Oltretutto il personaggio di Pippo in questo film è nel ruolo piuttosto atipico di padre, con anche dei tratti drammatici non indifferenti.

Perché fu un disastro al botteghino?

Anche in questo caso le motivazioni non sono più di tanto difficili da individuare.

Come detto, il taglio narrativo è eccessivamente adulto e rivolto ad un pubblico più adolescenziale che infantile, una problematica simile all’insuccesso de Il pianeta del tesoro (1998).

Al contempo, ci sono delle scene onestamente inquietanti, che possono colpire non nel modo migliore un pubblico di bambini, come è stato per Cup Head Show.

Fra queste, la bambina al negozio di foto di Pippo il cui posteriore viene incollato letteralmente al tavolo, così lo spettacolo degli Opossum, che ha un taglio al limite dell’orrorifico per raccontare la frustrazione di Max.

Una seconda possibilità

Proprio per il grande riscontro che ebbe con l’uscita in home video, la Disney decise, a cinque anni di distanza, di rilasciare un seguito, An Extremely Goofy Movie (2000), noto in Italia come Estremamente Pippo.

In questo caso ebbe un buon riscontro di pubblico e di critica, pur essendo rilasciato nella versione direct to video, ovvero direttamente in videocassetta. Gli fu dedicata una campagna marketing non da poco, con diversi gadget negli Happy Meal di McDonald’s in occasione della sua uscita.

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L’incredibile storia dell’Isola delle Rose – La grande rivincita

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose (2020) è un film diretto da Sydney Sibilia, conosciuto principalmente per la trilogia di Smetto quando voglio.

Uno dei pochi ottimi registi italiani che cerca di distaccarsi dai soliti e ridondanti generi del panorama cinematografico nostrano.

Il film uscì alla fine del 2020 direttamente su Netflix.

Di cosa parla L’incredibile storia dell’Isola delle Rose

Bologna, 1968. Giorgio Rosa è un giovane ingegnere appena diplomato, con grandi sogni (non sempre vincenti) di creare qualcosa di suo, per smarcarsi dalla pesante eredità della generazione precedente.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale pena di vedere L’incredibile storia dell’Isola delle Rose?

Assolutamente sì.

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è una deliziosa commedia, con un cast internazionale di primissimo livello, che mi sentirei di consigliare praticamente a tutti.

In particolare, di grande valore l’interpretazione di Elio Germano, che ancora una volta si conferma un attore non solo di grande talento, ma dalle capacità davvero multiformi, capace di immedesimarsi in ogni tipo di personaggio.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Una storia ancora attuale

Matilda De Angelis e Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

L’importante è salvare il mondo…o almeno provarci.

Sydney Sibilia sceglie nuovamente di puntare sul racconto di una generazione perduta, una generazione che deve ancora vivere all’ombra della precedente, che cerca di incasellarla precisi schemi sociali.

Nel 1968 come oggi.

Infatti, il film parla soprattutto alla generazione dei millennial, che ancora oggi si affaccia al mondo del lavoro e sente il peso dei propri genitori, nati e cresciuti in un mondo diverso, quando era più scontato seguire un preciso percorso di vita.

E invece per la nuova e la nuovissima generazione non basta più. Dobbiamo reinventarci: Giorgio Rosa quarant’anni fa con la sua isola, tanti giovani e giovanissimi oggi che creano il loro brand da zero.

Così Sydney Sibilla è un regista che ha cominciato con gli spot pubblicitari e in appena tre anni è riuscito ad imporsi con un film nuovo e fresco come Smetto quando voglio (2014), smarcandosi dai soliti canoni del cinema italiano.

Lui, insieme a Matteo Rovere (regista de Il primo re e anche produttore del film di Sibilia), sono le poche giovani voci che si sono ribellate ad un cinema mainstream ridondante e saturo, portando finalmente qualcosa di nuovo e di più ampio respiro.

Scegli una storia, scrivila bene

Matilda De Angelis e Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Al tempo sentii alcune critiche per il fatto che il film avesse poca attinenza con le vicende storiche raccontate.

In generale, bisogna avere coscienza del prodotto: la pellicola non ha l’intenzione di essere fedele alla storia originale, ma di prenderla come spunto per il già accennato racconto tanto caro al regista.

Facendolo molto bene, fra l’altro.

Infatti, il tema di fondo non è esplicito, ma ben raccontato nei vari momenti chiave.

Inizialmente Giorgio viene raccomandato dal padre per un lavoro che è assolutamente evidente che sia svilente per le sue capacità e la sua inventiva. Così anche Gabriella sembra inizialmente contraria a volersi sistemare con Carlo, che la rincorre per un matrimonio, ma per lungo tempo durante il film accetta di sottostare a quello che la società si aspetta da lei.

Ma infine anche lei decide di abbandonare questa idea e abbracciare invece la ribellione di Giorgio.

Parallelamente il mondo adulto è raccontato con una sferzante ironia: i politici, che si sentono tanto potenti e importanti per aver fondato l’Italia del dopoguerra, si dimostrano in realtà interessati principalmente al proprio tornaconto, corrotti con il Vaticano e che si accaniscono sul progetto di Giorgio semplicemente per dimostrare il proprio potere.

Ma non vincono veramente: hanno ucciso un progetto, ma non possono distruggere un ideale.

Il multiforme Elio Germano

Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Elio Germano è la punta di diamante di questo film.

Un attore estremamente eclettico, che riesce a portare in scena personaggi sempre diversissimi fra loro: dal rozzo romano in Favolacce (2020) al suo Leopardi in Il giovane favoloso (2014), fino al giovane sognatore in questa pellicola.

Il suo personaggio non è del tutto positivo: lo seguiamo con entusiasmo nel suo assurdo progetto, perché ne apprezziamo il coraggio e la follia. Tuttavia, Giorgio è molto fallibile e poco coi piedi per terra: si fa multare due volte, non è capace di relazionarsi con il mondo e si ribella incondizionatamente al potere costituito.

E viene più volte minacciato e disprezzato dagli adulti, prima dal padre, riuscendo infine ad ottenere la sua approvazione, poi sfidato direttamente dal Governo Italiano. Ma non si perde mai d’animo, fino all’ultimo.

Un cast internazionale

Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Come anticipato, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose può godere di un ottimo cast internazionale.

Anzitutto la coppia di ministri del Governo allora in carica, interpretati da due dei migliori attori italiani al momento: Fabrizio Bentivoglio è il Ministro Franco Restivo, che decide in ultimo di attaccare l’Isola delle Rose.

E l’irriconoscibile Luca Zingaretti, l’iconico Commissario Montalbano, è il Presidente del Consiglio Leone. Una coppia irresistibile, comica ai limiti del grottesco, con una recitazione sempre splendida e credibilissima.

Due altri ottimi attori internazionali: François Cluzet, attore francese noto soprattutto per Quasi amici (2011) è il Presidente del Consiglio d’Europa Jean Baptiste Toma, che tifa per Giorgio Rosa fino alla fine.

Così l’attore tedesco Tom Wlaschiha, che ha recitato in Game of Thrones nei panni di Jaqen H’ghar, membro degli Uomini senza volto che addestra Arya nella settima stagione, ma anche Enzo nella quarta stagione di Stranger Things.

Attore quindi capace di recitare in inglese, tedesco, italiano e russo: niente di meno.