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The Office – Torniamo in ufficio

The Office (2005 – 2013) è uno dei più importanti fenomeni televisivi dell’inizio del Millennio, con un importante fandom attivo ancora oggi.

Se non sapete assolutamente niente di questa serie, continuate a leggere. Se invece siete già fan, cliccate qui.

Guida a The Office

Piccola guida introduttiva a The Office.

Di cosa parla The Office?

La storia ruota intorno ad un nutrito gruppo di personaggi che lavora in un piccolo ufficio dell’azienda Dunder Mifflin a Scranton, in Pennsylvania.

La particolarità è il come la storia viene raccontata.

Il taglio narrativo

Steve Carell in una scena di The Office (2005 - 2013)

Secondo un taglio che sarà poi in parte ripreso dall’altrettanto longeva serie tv Modern Family (2009 – 2020), The Office è raccontata nella forma del mockumentary, proprio facendo sembrare il girato quasi un prodotto amatoriale.

Una tecnica piuttosto particolare che permette permettere allo spettatore di assistere sostanzialmente ad una sua costante soggettiva, con gli attori che guardano in camera – quindi direttamente nei nostri occhi – rendendoci incredibilmente partecipi della storia raccontata.

E non è l’unico motivo.

La quotidianità

Leslie David Baker in una scena di The Office (2005 - 2013)

A differenza di molte altre sitcom precedenti e successive, The Office ha il merito di raccontare una storia incredibilmente quotidiana e realistica nelle sue dinamiche, riuscendo ad ammorbidire anche le scelte più bislacche e astruse, rimanendo sempre coi piedi per terra.

Così, se ci si lascia travolgere da questi personaggi così umani e caratteristici, sarà davvero come vivere all’interno della serie stessa.

Tuttavia, è anche giusto un avvertimento in questo senso.

Inizio e fine

Rainn Wilson in una scena di The Office (2005 - 2013)

I due problemi principali di The Office sono la prima stagione e le ultime due, specificatamente l’ottava.

La prima stagione riprese il taglio della più sfortunata prima versione britannica del prodotto, che venne conclusa dopo appena quattordici episodi, probabilmente per il taglio troppo cinico della narrazione, che tende ad allontanare spesso il pubblico.

Ma la prima stagione è solo un piccolo scoglio da superare – appena sei episodi – per poi immergersi in una comicità molto più piacevole ed accogliente, che definisce la serie a partire dalla seconda stagione, e che ha portato al grande successo di pubblico negli anni.

jenna fischer e John Krasinski in una scena di The Office (2005 - 2013)

Altrettanto problematica è l’ottava stagione, per un cambio fondamentale della serie – che qui non vi spoilero – che l’ha portata a perdere molto smalto e, addirittura, a far fermare alcuni spettatori alla stagione precedente.

Da parte mia vi posso confermare che il penultimo ciclo di episodi, oltre ad essere uno shock, è effettivamente il peggiore della serie, che comunque riesce un po’ a riprendersi nella sua stagione conclusiva.

Insomma, parkour!

Michael Scott

Michael Scott è il personaggio più comico e al contempo più tragico di The Office.

Steve Carell dimostrò negli anni di essere una figura insostituibile all’interno della serie, portando in scena una comicità unica nel suo genere, che viaggiava fra il surreale e il dark humour più spinto, ma che nascondeva in realtà una situazione molto più amara.

In tutta la sua storia al Dunder Mifflin, il suo personaggio, nonostante abbia ottenuto una posizione di successo – probabilmente la più alta a cui poteva ambire – cerca costantemente di fuggirla, inseguendo sempre più disperatamente un sogno apparentemente irraggiungibile.

Ovvero, crearsi una famiglia.

Steve Carell in una scena di The Office (2005 - 2013)

Così la gag ricorrente per cui Michael si innamora e vuole impegnarsi immediatamente con donne che appena conosce, nasconde una frustrazione costante, portandolo a bruciare le tappe in situazioni che si rivelano infine fallimentari…

Parallelamente a questa ricerca disperata, in più di un’occasione Michael cerca soddisfazioni lavorative altrove.

Il momento più comico, ma anche più terribilmente triste, sono gli episodi in cui il suo personaggio si dedica ad un secondo lavoro in uno squallido call-center, pur non avendo nessuna necessità economica in merito…

La totale evasione

Steve Carell in una scena di The Office (2005 - 2013)

Il primo picco di questa evasione è la fondazione della Michael Scott Paper Company, nient’altro che un modo in cui Michael vuole dimostrare agli altri, ma soprattutto a sé stesso, di essere totalmente in grado di condurre un’azienda di successo anche al di fuori – anzi, al di sotto – di Dunder Mifflin.

Ma questa nuova idea si rivela totalmente disastrosa, e in ogni sua parte, a partire dal continuo contrasto fra Ryan e Pam – che, fra l’altro, si trova anche lei in un momento di evasione dopo la rottura con Roy.

Il sogno proibito

Steve Carell in una scena di The Office (2005 - 2013)

Ma il breaking point è la conoscenza di Holly.

In questo frangente The Office dimostra la sua capacità di creare relazioni genuine e avvincenti: Michael e Holly si piacciono perché sono nella maniera più evidente perfetti l’uno per l’altra – per l’umorismo, per il modo di fare…

Così, l’allontanamento forzato dalla sua fiamma non è altro che il primo passo del percorso di Michael verso la realizzazione che ormai la sua esperienza a Dunder Mifflin ha fatto il suo tempo – e, metanarrativamente, per Steve Carell con The Office.

Andare e tornare

Steve Carell in una scena di The Office (2005 - 2013)

Per questo l’addio è anche più devastante.

Nonostante le scene fossero piene di indizi in merito, vedere Steve Carell che si sfila il microfono che ha portato per anni, che si toglie le vesti di quel personaggio iconico che ha definito la sua carriera, e affida le sue ultime parole a Pam, è davvero straziante.

Per Michael Scott è un nuovo inizio fuori scena, e così anche per lo stesso interprete, che al tempo ammise di voler lasciare la serie per dedicarsi di più alla sua famiglia: un incontro fra personaggio e interprete che lascia senza fiato.

E la riapparizione nell’ultima puntata è più triste che consolante.

Quello che vediamo in scena non è davvero Michael Scott, ma è uno Steve Carell che si guarda indietro, che torna a rincontrare gli amici di tanti anni e la sua creatura, arrivata ormai alla sua conclusione:

I feel like all my kids grew up, and then they married each other. It’s every parent’s dream

È come se tutti i miei figli fossero cresciuti e si fossero sposati fra loro. È il sogno di ogni genitore.

Robert California The Office

Purtroppo l’addio di Steve Carell a The Office ha portato ad un buco nero incolmabile e ad una situazione che pervade la terribile ottava stagione, nonché alcuni tratti della nona: la California (& Andy) Era.

Questi due personaggi, nonostante siano così diversi, rappresentano entrambi lo stesso problema: la ricerca di un’alternativa a Michael Scott, prendendo delle direzioni del tutto sconclusionate e per nulla funzionanti.

Ed Elm in una scena di The Office (2005 - 2013)

Robert California dovrebbe essere questo brillante imprenditore che porta delle nuove sfide ai personaggi, ma che finisce solamente per sembrare una figura fuori posto, protagonista di uno dei più improbabili stravolgimenti di trama della serie -la sua elezione a CEO dell’azienda.

E non è un caso che la sua uscita di scena sia così deprimente, senza che il personaggio sembri avere una vera prospettiva di riscatto, ma solo un congedo che fa tirare un pesante sospiro di sollievo e apre le porte ad una discreta nona stagione.

Andy Bernarnd The Office

Andy Bernard è stato il più grande errore di The Office.

Apparso per la prima volta nella terza stagione, resta per la maggior parte del tempo un personaggio di contorno, finché non è costretto al centro della scena a partire dall’ottava stagione, dimostrando un concetto fondamentale:

Non sempre un secondario può essere anche un protagonista.

Ed Elm in una scena di The Office (2005 - 2013)

Ma il principale problema del suo personaggio è che sembra che gli scrittori di The Office non siano stati capaci di inquadrare né Andy come personaggio né Ed Elms come attore comico.

Infatti, Andy ha diversi ruoli durante la serie, ma nessuno che veramente riesca a definirlo come personaggio interessante, anzi diventando così tanto odiato che nella nona stagione per la maggior parte del tempo rimane fuori scena.

Ed Elm in una scena di The Office (2005 - 2013)

E Andy fallisce anzitutto per le sue relazioni, fra l’inutile triangolo amoroso con Angela e Dwight – che cercava di fare il verso a quello con Jim, Pam e Roy – e l’esasperata relazione con Erin – già di per sé uno dei personaggi meno riusciti della serie.

Così è anche peggiore la sua performance come sostituto protagonista: Ed Elmn ha una comicità del tutto diversa da quella di Steve Carell – come si vedrà nella trilogia di Una notte da leoni (2009 – 2013) – eppure si cercò di renderlo un Michael Scott 2.0.

Ne risulta un personaggio a tratti esasperante, che ha delle dinamiche quasi noiose e davvero fuori luogo per la serie – al pari di Robert California, appunto – tanto da essere cacciato dalla scena nell’ultima stagione, trovando fortuna in spazi inediti (e non particolarmente brillanti).

Pam e Jim The Office

Jim e Pam, insieme a Michael Scott, rappresentano uno dei pilastri di The Office.

La serie cercò in diversi momenti successivi di replicare il loro modello – con Erin e Andy, con Angela e Dwight… – non riuscendoci mai fino in fondo, e per un semplice motivo: i personaggi erano troppo sopra le righe.

Infatti, la forza della coppia iconica della serie risiede nella naturalezza e verosimiglianza del loro rapporto: Jim e Pam sono due persone molto comuni e, per questo, molto vicine allo spettatore.

Nello specifico, Jim.

Jim The Office

Jim Halper è il collegamento più diretto con lo spettatore.

Nello specifico, nei momenti più imbarazzanti o bislacchi in cui il suo personaggio guarda direttamente in camera, fungendo da specchio dei sentimenti e delle sensazioni che il pubblico stesso sta provando in quel momento.

Inoltre, Jim è un personaggio totalmente positivo, con pochissimi inciampi durante la serie, il cui lato oscuro è rappresentato solamente dagli scherzi architettati ai danni di Dwight, con cui però il rapporto si va a risolvere verso la fine della serie.

John Kransiski in una scena di The Office (2005 - 2013)

Del tutto comuni e verosimili sono anche le sue ambizioni lavorative.

Jim si trova più volte bloccato nella scalata sociale che lo dovrebbe portare ad assumere ruoli più importanti nell’azienda per i suoi meriti, scegliendo infine di imbarcarsi in una nuova avventura lavorativa, piuttosto rischiosa sia economicamente che sentimentalmente…

Ma soprattutto Jim brilla in confronto a Roy.

John Kransiski e Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

Il confronto con il futuro marito di Pam è il fondamentale per la definizione del rapporto stesso con Jim.

Come Roy è un personaggio molto superficiale, con una visione ristretta del mondo e che non sembra capace di impegnarsi, Jim si dimostra più volte premuroso, mai invadente, anzi piuttosto cauto nell’approcciarsi a Pam.

Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

Il momento più lampante in questo senso è la Scuola d’arte.

Se Roy boccia immediatamente l’idea, specificando come non sia il momento, quindi dimostrando di pensare solo a sé stesso, Jim in ogni occasione continua invece ad incoraggiare Pam, dimostrando di non essere così fragile da non poter stare qualche mese lontano da lei.

Infatti, il vero ostacolo alla loro relazione è Pam stessa.

Pam The Office

Pam è la principale artefice della sua infelicità.

In questo senso il suo personaggio non differisce poi molto da quello di Michael: entrambi sono alla ricerca di una stabilità familiare, anche se questa viene ricercata solamente tramite le vie non sempre più convenienti.

Nello specifico Pam si incastra da sola all’interno di una relazione che è chiaramente fallimentare, sia per l’incompatibilità dei due personaggi, sia per il poco effetto e le scarse attenzioni di Roy nei suoi confronti, al punto da darla quasi per scontato.

Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

Per questo Pam per molto tempo si sente incapace di compiere un passo così determinante per la propria vita, preferendo il quieto vivere, la sicurezza di un matrimonio che infine sembra star effettivamente per concretizzarsi…

In questo senso è tanto più importante che sia lei stessa a cambiare vita e che non lo faccia solamente per Jim, prima di tutto tagliando i ponti con Roy, poi prendendo scelte sempre più intraprendenti – come la scuola d’arte e la partecipazione al progetto di Michael.

Tutto è bene?

John Kransiski e Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

La relazione fra Jim e Pam è la meglio scritta della serie fino alle sue ultime battute.

L’inizio effettivo del loro rapporto romantico è nella splendida conclusione della seconda stagione, quando un intraprendente Jim sceglie finalmente di dichiararsi, incassando però un momentaneo rifiuto.

Jim è altrettanto intraprendente nei due momenti fondamentali del loro rapporto: quando finalmente la invita al loro appuntamento e, infine, quando le chiede di sposarlo.

John Kransiski e Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

In ogni fase della loro relazione Jim ha un solo obbiettivo in mente: far vivere a Pam il momento migliore possibile.

Anche se con un po’ meno di mordente, anche le puntate dedicate alla gravidanza e alla crescita dei bambini sono incredibilmente interessanti, in quanto scelgono ancora una volta di raccontare dinamiche e situazioni realistiche e verosimili, senza nasconderne gli elementi più angoscianti.

E questo è tanto più fondamentale nell’ultima stagione.

La tragedia scampata

John Kransiski e Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

La nona stagione di The Office mette più a dura prova il rapporto fra Jim e Pam.

La sua nuova avventura imprenditoriale, cominciata fra l’altro alle spalle della moglie, crea delle crepe apparentemente insormontabili per la coppia, con un Jim che sembra sempre più interessato alla sua carriera lavorativa che alla costruzione di una famiglia con Pam, anche con insensate gelosie…

Emerge così della ruggine fra i due che sul momento mi ha non poco spaventato, dopo un’ottava stagione che non mi rendeva più sicura sul fatto che The Office fosse capace di trattare con intelligenza questo tema.

John Kransiski e Jenna Fischer in una scena di The Office (2005 - 2013)

Invece, il finale di Jim e Pam è perfetto.

Entrambi i personaggi dimostrano veramente di essere maturati: Jim è capace di fare un passo indietro, di rinunciare al suo sogno di carriera, accettando che la parte più importante della sua vita è Pam e la felicità che ha costruito con lei.

Ma soprattutto è importante la scelta finale di Pam, inizialmente restia ad abbandonare la sua confortante routine, invece infine capace di intraprendere una nuova avventura, quindi di non essere tanto egoista da far rinunciare Jim al suo progetto, ma invece pronta a costruire qualcosa di nuovo insieme.

Dwight The Office

All’interno di The Office, Dwight è il personaggio con l’arco evolutivo più interessante.

All’inizio della serie è presentato come una figura sostanzialmente negativa, con un’etica del lavoro ferrea – che lo rende fra l’altro il miglior venditore dell’ufficio – e in costante contrasto con Jim.

In particolare, Dwight fin dall’inizio vive un costante senso di frustrazione nell’essere sostanzialmente il braccio destro di Michael, ma non di riuscire comunque ad avere un ruolo effettivamente importante, ma solo uno puramente inventato – Assistant to the regional Manager.

Rainn Wilson in una scena di The Office (2005 - 2013)

La sua sete di potere si traduce in diversi frangenti piuttosto spassosi, soprattutto da quando prende possesso del palazzo, imponendo regole assurde e rendendo invivibile la vita dei suoi colleghi, o nelle diverse occasioni in cui diventa temporaneamente capo della filiale.

Ma il momento in cui effettivamente realizza il suo sogno e prende possesso definitivamente dell’ufficio, rappresenta anche il punto di arrivo della sua maturazione: avendo ormai messo da parte le sue ostilità nei confronti di Jim, lo rende addirittura il suo braccio destro e accetta a malincuore le sue dimissioni.

Un amore immorale

Rainn Wilson e Angela Kinsey in una scena di The Office (2005 - 2013)

L’altro lato della sua maturazione è rappresentato da Angela.

Il rapporto fra Angela e Dwight è così complicato perché entrambi non riescono ad essere sinceri l’uno con l’altra, tanto che per certi versi il loro rapporto, che si dispiega per tutte e nove le stagioni, è quello di Jim e Pam in una veste più austera e rigida.

In questo senso, per quanto i loro personaggi siano molto più macchietistici, è evidente perché siano fatti l’uno per l’altra: entrambi sono molto legati alle regole e ad una morale ferrea, nonostante la stessa venga più volte smentita dai loro stessi comportamenti – nello specifico, i numerosi tradimenti.

Rainn Wilson e Angela Kinsey in una scena di The Office (2005 - 2013)

Ma più la storia prosegue, più entrambi cercano di salvare la faccia, nascondendosi dietro ridicoli contratti che sembrano legittimare la loro relazione sessuale e il loro desiderio di creare una famiglia insieme, fino al picco emotivo della scoperta che il figlio di Angela non è anche figlio di Dwight.

Così entrambi nelle stagioni finali cercano di nascondersi dietro ad altre relazioni apparentemente più soddisfacenti e giuste, nello specifico Angela con il suo senatore, che le garantisce una posizione sociale di alto livello.

Rainn Wilson e Angela Kinsey in una scena di The Office (2005 - 2013)

… finché tutta la situazione non le scoppia in faccia, con la rivelazione dell’omosessualità ormai palese del marito.

E infine la scelta di ricomporre per davvero quella relazione spetta a Dwight: mentre Angela è al limite della disperazione, Dwight sceglie di abbandonare quella moglie trofeo per invece sposarsi finalmente con la donna dei suoi sogni.

The Office personaggi

La bellezza dei personaggi di The Office, in particolare i secondari, è il riuscire a mantenere una caratterizzazione coerente per tutta la serie, senza dover risultare macchiette – con le drammatiche eccezioni di cui abbiamo già parlato…

Kevin The Office

Fra tutti i secondari, il mio preferito in assoluto, e che mantiene fra l’altro un taglio coerente dall’inizio alla fine, è indubbiamente Kevin.

Kevin dovrebbe essere lo scemo del villaggio, ma The Office lo premia costantemente con gag e battute irresistibili, e una presenza scenica che rende impossibile non provare simpatia per questo bambinone troppo cresciuto.

In particolare, del suo personaggio ho adorato due momenti: la gag del chili – in cui mi ci sono rivista anche troppo… – e tutta la dinamica con Holly, a cui viene fatto credere che Kevin sia un po’…lentocon tutta l’ironia che ne deriva.

Creed The Office

Altra nota di merito va a Creed, forse la punta di diamante fra i secondari.

Creed è un personaggio così sfaccettato e sfuggente che ad ogni stagione si scopre qualcosa di nuovo: passa dall’essere rappresentante della filiale, a rivelare il suo oscuro passato criminale, fino a fingere la sua morte, per poi vivere all’interno dell’ufficio stesso.

Questa incredibile mente criminale si scontra con la sua personalità al limite del surreale, al punto che spesso dimentica il nome dei suoi colleghi, o addirittura il tipo di compagnia per cui lavora, come testimonia la sua battuta migliore di tutta la serie:

Not bad for a day in the life of a dog food company.

Una bella giornata per un’azienda di cibo per cani.

Stanley The Office

Sulla stessa linea anche il personaggio di Stanley.

Stanley appare come figura di contorno, chiuso in sé stesso e piuttosto apatico, che passa le sue giornate a fare cruciverba e bada più ai propri affari piuttosto che a quelli degli altri – o del suo stesso lavoro.

In realtà, del tutto inaspettatamente, Stanley ha una variegata attività relazionale, che lo porta a divorziare dalla moglie e a cercare molte altre compagne nel corso delle stagioni, anche per compensare il suo risentimento nei confronti del suo lavoro.

Leslie David Baker in una scena di The Office (2005 - 2013)

E, soprattutto, nei confronti di Michael.

In particolare, riguardo al loro conflitto è diventata iconica la scena in cui, durante uno dei tanti inutili meeting, Michael cerca di ritrovare l’attenzione di Stanley mentre lo stesso si sta dilettando con le ennesime parole crociate…

E, davanti al l’insistenza del suo manager, Stanley tuona:

Di I stutter?

Sono stato chiaro?
Leslie David Baker in una scena di The Office (2005 - 2013)

Questa è proprio l’occasione in cui Michael cerca di rimettere in riga il suo dipendente, fingendo di licenziarlo, trovandosi solo ad essere minacciato di azioni legali e finendo per doverlo tenere in ufficio senza che sia cambiata una virgola.

Anzi, Stanley arriva serenamente alla pensione, come scopriamo alla fine della serie.

Kelly & Ryan The Office

Su Kelly e Ryan bisogna fare un discorso a parte.

I loro personaggi risultano quasi bidimensionali e sono spesso ai margini della scena, proprio perché i loro interpreti sono spesso accreditati sia come sceneggiatori che come registi degli episodi.

Infatti, la loro storia non ha un effettivo arco evolutivo, ma piuttosto un pendolo all’interno di un rapporto estremamente conflittuale – soprattutto da parte di Ryan – che li porta a prendersi, respingersi e via così all’infinito.

E, nella maniera più improbabile, riuscendo anche a fuggire insieme nella conclusione.

B. J. Novak e Steve Carell in una scena di The Office (2005 - 2013)

Ryan nello specifico è uno dei personaggi probabilmente più negativi della serie.

Durante le stagioni si destreggia fra diverse personalità, rivelandosi sempre più di un avido macchinatore, interessato solo al suo guadagno, finché, alla scoperta delle sue attività fraudolente, la sua scalata sociale si blocca.

Insomma, Kelly e Ryan sono dei pop-up characters, personaggi da ripescare all’occorrenza per arricchire la storia di nuovi sbocchi o di piacevoli gag, anche se spesso fine a sé stesse.

Oscar The Office

Anche se di per sé forse non è uno dei personaggi più indimenticabili della serie, Oscar brilla per l’avanguardia di The Office nel rappresentare un personaggio omosessuale non stereotipico, in un panorama seriale al tempo piuttosto desolante.

Ne risulta una figura per niente macchiettistica – anche se Michael più volte cerca di ricondurlo allo stereotipo – ma che piuttosto racconta le difficoltà di una persona queer all’inizio del nuovo millennio, nel farsi largo fra pregiudizi, bullismo e vergogna sociale – che lo porta infatti a nascondere la sua sessualità per lungo tempo.

La sua storia si intreccia anche con quella di Angela, con una delle poche dinamiche convincenti delle ultime stagioni, che purtroppo si traduce in una sconfitta per entrambi…

Phyllis The Office

Secondo lo stesso principio, ho apprezzato molto anche il personaggio di Phyllis.

Una donna di mezza età che rimane molto ai margini della scena, ma che è anche protagonista di piacevolissimi momenti comici – come quello della pioggia, in cui i personaggi fanno scommesse sul fatto che dirà sempre le solite quattro frasi di repertorio:

E così, anche se stereotipicamente non è considerata una donna attraente né desiderabile, gode di un matrimonio piuttosto felice e particolarmente attivo sessualmente, come testimoniano le diverse gag in merito.

Toby The Office

Per un inevitabile parallelismo, è giusto chiudere questa recensione con quello che può essere considerato la nemesi di Michael…

…e il suo alter ego.

Proprio per il suo atteggiamento estremamente infantile, Michael doveva trovare un nemico contro cui scontrarsi… e non è un caso che scelga proprio Toby, che rappresenta la sua peggior paura.

Ovvero, aver raggiunto una stabilità familiare, ma averla inevitabilmente persa, vivendo in una condizione di grande infelicità.

Paul Lieberstein in una scena di The Office (2005 - 2013)

Infatti, per tutte le stagioni il suo personaggio non riesce ad avere un riscatto in questo senso, finendo anzi spesso per essere rifiutato – per esempio con Nellie – o vivendo amori assolutamente impossibili – come quello per Pam.

Come se tutto questo non bastasse, anche gli altri personaggi gli sono molto spesso ostili, per il suo approccio fin troppo freddo e formale alle diverse problematiche che sorgono all’interno dell’ufficio.

In questo senso, proprio all’inizio della stagione, per presentare Toby, Michael racconta la totalità del suo personaggio con una delle mie battute preferite dell’intera serie:

…he’s really not a part of our family. Also, he’s divorced, so he’s really not a part of his family.

…non fa parte della nostra famiglia. Inoltre, è divorziato, quindi non fa neanche parte della sua famiglia.
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The Fall of the House of Usher – Chi è morto?

The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan è una miniserie horror in otto puntate di produzione Netflix – l’ultima collaborazione di questo autore con la piattaforma.

Di cosa parla The Fall of the House of Usher?

Nella lugubre casa in rovina della potente famiglia degli Usher, il vecchio patriarca racconta al suo nemico di una vita, l’avvocato Auguste Dupin, di come ha ucciso i suoi sei figli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fall of the House of Usher?

Sauriyan Sapkota, Kate Siegel, Rahul Kohli, Matt Biedel e Samantha Sloyan in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

In generale, sì.

Anche se a mio parere non è la migliore creazione di Mike Flanagan, The Fall of the House of Usher è complessivamente un prodotto piacevole, che riesce a tenere col fiato sospeso fino alla fine, con anche una certa creatività piuttosto gore nel mettere in scena le varie morti dei personaggi.

Inoltre, come serie gode anche di una sceneggiatura piuttosto solida, che riesce a far tornare tutti i punti della storia nel suo finale, anche alcuni che parevano dei semplici jump scare, ma che invece si rivelano possedere un significato non poco importante.

Insomma, da vedere.

La serie è scandita dalle diverse morti dei personaggi, di cui di seguito analizzeremo le dinamiche e il background.

Prospero Usher morte

Causa della morte

Acido


Perry Usher è la prima vittima della serie, e anche fra le morti più direttamente collegate alle azioni di Roderick.

Prospero è il più giovane di bastardi Usher, totalmente immerso in una giovinezza sfrenata, beandosi dei soldi del padre, ma che insegue anche ciecamente il sogno di poter diventare un giovane imprenditore al pari di Roderick.

Sauriyan Sapkota in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

La sua avventatezza è la causa primaria della sua morte: nel suo sentirsi così sicuro di sé stesso e delle sue idee, all’interno di una pura ribellione verso il padre, si dimentica di controllare di cosa siano composti quei serbatoi che rappresentano l’apice del suo progetto.

La sua fine è forse quella più scioccante e violenta – oltre quella che fa più vittime, e che non fa altro che far aumentare la pila di morti causati dal padre: oltre alla causa primaria, se Roderick avesse ascoltato di più il figlio, se l’avesse seguito nel suo progetto…

…quantomeno Perry non sarebbe morto in maniera così angosciante.

Camille L’Espanaye morte

Causa della morte

Attacco di un primate


La morte di Camille L’Espanaye è una delle mie preferite, anche perché il suo personaggio è uno dei più velenosi.

Camilla è un’altra dei bastardi Usher, una donna con una carriera di successo, tanto da essere a capo delle pubbliche relazioni dell’azienda di famiglia, ma, al contempo, divorata dall’odio contro la sorella, Victorine.

Kate Siegel in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Insieme a Tamerlane, questo personaggio è uno fra quelli che peggio hanno vissuto l’eredità del padre, diventando delle donne insoddisfatte ed incattivite, con l’aggravante che Camille è sostanzialmente una bambina viziata troppo cresciuta.

Per questo la sua dipartita è lo specchio del suo carattere: sentendosi del tutto in dovere e in diritto di indagare le malefatte della sorella, proprio per la sua hubris viene fatta a pezzi con altrettanta ferocia da Verna nei panni di un primate.

Napoleon Usher morte

Causa della morte

Suicidio


Napoleon Usher è forse una delle morti meno interessanti della serie, una versione in chiave minore della dipartita ben più interessante della sorella, Victorine.

Leo rappresenta uno dei lati più problematici del padre: come il genitore, anche il figlio è incapace di mantenere saldo un rapporto romantico, tradendo il suo compagno, nonostante questo non sembri meritarlo.

Ma Leo è anche divorato dal senso di colpa, rappresentato dal gatto nero: quando il suo tradimento diventa così visibile, l’uomo si affretta a nasconderlo e a rimediare, sicuro di non essere scoperto.

Rahul Kohli in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

E se nella clinica veterinaria Verna cerca di incoraggiarlo a prendere un altro dei gatti, ovvero indirettamente ad ammettere la sua colpa e provare a ricostruire il rapporto con Daniel, proprio tramite un nuovo inizio…

…Napoleon sceglie invece ancora la menzogna, e così finisce per essere perseguitato dalla sua colpa, tanto da distruggere la sua stessa casa, e infine lanciarsi nel vuoto pur di acchiappare quel maledetto felino

Victorine Usher morte

Causa della morte

Suicidio con pugnalata


Victorine è uno dei pochi personaggi effettivamente positivi della famiglia Usher, la cui vita è più di tutte rovinata dall’ambizione di Roderick.

Una promettente chirurga con un futuro brillante, si lascia soffocare dalle richieste del padre di accelerare i suoi esperimenti, portando così a dei risultati posticci ed inefficaci…

T'Nia Miller e Paola Nuñez in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

…che hanno come risultato il mandare a gambe all’aria tutto il progetto, e, in aggiunta, perdendo la sua più importante componente, Alessandra, a cui era legata da un profondo affetto, del tutto guastato dalle sue ambizioni.

La sua ossessione è quella più straziante: vedendo ormai la sua vita che va a pezzi, cerca anche nei modi più grotteschi di salvare il salvabile, prima tentando di riportare in vita Al, poi iniziando i tanto desiderati esperimenti umani proprio su sé stessa…

Victorine Usher morte

Causa della morte

Sgozzamento


Tamerlane Usher è la secondogenita di Roderick, uno dei figli nati nel contesto dell’amorevole matrimonio con Annabel, di cui soffre tutte le conseguenze.

Nonostante cerchi di mostrarsi una donna decisa ed inscalfibile, Tamerlane è invece un personaggio estremamente fragile, tanto che non riesce neanche a vivere in prima persona la sua vita.

Nel suo distacco all’interno del rapporto – sentimentale e sessuale – con Matt, si riscontra la sua incapacità di vivere appieno, divorata di paura di non essere un’adeguata protagonista, e anzi di poter essere sostituita in un qualsiasi momento.

Samantha Sloyan in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Proprio nella sua somiglianza con la madre, Tamerlane tratta con profondo odio Juno, la giovane moglie trofeo del padre, ereditando da lui – e nella forma peggiore – la venerazione verso Annabel, tanto adorata ed idealizzata.

Così il suo personaggio finisce per uccidersi da solo, cercando di distruggere il suo doppio nello specchio, per paura che prenda il suo posto a fianco del marito, che lei stessa aveva cercato di ridurre a figura usa-e-getta.

Frederick Usher morte

Causa della morte

Valanga


Frederick Usher è il primogenito della famiglia, ma è anche il suo membro più insignificante, che prende il peggio dal padre.

Quello che dovrebbe essere il prediletto di Roderick, in realtà rimane sullo sfondo per la maggior parte della serie, e diventa importante solamente alla fine, quando mostra la sua vera natura di marito violento e manipolatore.

Henry Thomas in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Infatti Frederick è un uomo estremamente fragile, che per il solo sospetto di un tradimento di Morella, sceglie di tenerla strettamente sotto al suo controllo, paralizzandola a letto e pure torturandola.

Ma nel suo vaneggiamento, finisce ancora una volta vittima di sé stesso, inalando la stessa droga con cui controllava la moglie, vivendo una morte umiliante, mentre la casa – e la sua vita – gli crolla addosso, davanti al suo sguardo impotente…

Madeline Usher morte

Causa della morte

Avvelenamento e Valanga


Madeline Usher è per certi versi la vera protagonista della serie, o quantomeno il burattinaio dietro alle vicende.

Madeline è una mente matematica e fredda, che orchestra fin dall’inizio la caduta rovinosa del fratello, inducendolo a diventare un imprenditore spietato e senza scrupoli, interessato solo al guadagno ed al successo…

Willa Fitzgerald in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

…ed anche il personaggio che più di tutti spinge la sua famiglia nelle braccia di Verna, del tutto accecata dal desiderio di arricchirsi e di vivere una vita soddisfacente, e che, per salvare sé stessa, è disposta anche ad uccidere il fratello.

E quando effettivamente Roderick cerca di regalarle una morte dignitosa, quella di una regina, Madeline ritorna in vita e sfoga tutta la sua rabbia e frustrazione per una vita forse non così attraente come pensava, diventando lei stessa l’artefice della loro rovinosa dipartita.

Roderick Usher morte

Causa della morte

Strangolamento


Roderick Usher è colpevole del suo stesso tracollo.

Come la sorella, Roderick ha vissuto tutta la sua giovinezza nell’ombra del padre assente, un uomo ricco ed importante che non aveva fatto altro che usare come meglio credeva la madre, creando una discendenza di bastardi incattiviti.

Spinto dalla rampante intraprendenza di Madeline, Roderick riesce a penetrare l’azienda di famiglia, pur da figlio illegittimo, e così da entrare nelle grazie del capoccia di turno, la cui uccisione rappresenta una sorta di seconda morte della figura paterna tanto odiata.

Bruce Greenwood in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Immediatamente successivo è il patto con Verna, che racconta tutta la superficialità del giovane Roderick, pronto ad intraprendere una vita di successo, del tutto protetto dalla giustizia terrena, cieco davanti alle vere prospettive di questa decisione.

La volontà di creare un mondo senza dolore – quindi risolvere a posteriori la morte della madre – e con dei figli bastardi ricoperti di attenzioni e di soldi, porta a risultati in realtà estremamente negativi.

Roderick Usher

Bruce Greenwood in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Il mondo senza dolore fisico è in realtà una generazione di persone dipendenti da un farmaco, che ricadono nei peggiori scenari di dipendenza e di criminalità da strada, per una vita di dolore o di una morte umiliante.

Al contempo, la sua discendenza non trova in realtà alcuna felicità nel patrimonio del padre, tanto che lo stesso Roderick si dimostra quasi indifferente alla morte dei suoi figli, tanto incattiviti e distrutti dalla sua stessa eredità…

…con due importanti eccezioni.

Bruce Greenwood in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Le uniche due morti per cui il protagonista mostra un po’ di pena è la terrificante dipartita di Victorine, e, soprattutto, la morte del tutto ingiusta di Lenore, che può essere felice solo dell’eredità che lei stessa ha lasciato nel mondo.

Alla fine della sua vita Roderick scopre di essere diventato nient’altro che la stessa figura paterna tanto odiata, con una vita vuota e piena di pentimenti, infine ucciso dalla sua stessa sorella…

Verna vera identità

Sic transit gloria mundi

Quanto è effimera la gloria terrena!

Verna non è il villain della serie.

Il suo personaggio non è altro che un mero esecutore della volontà di Roderick e di Madeline, che hanno scelto consapevolmente una vita votata al guadagno e al successo, indipendentemente dai sacrifici che ne conseguono.

Di fatto Verna permette semplicemente ai protagonisti umani di prendere la strada più facile per cambiare il mondo, obbiettivo che avrebbero in realtà potenzialmente potuto raggiungere senza il suo aiuto, ma magari qualche sforzo in più.

Carla Cugino in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Di fatto Verna interviene nel momento in cui capisce che tipo di persone sono i due fratelli Usher: farebbero qualsiasi cosa pur di avere successo, persino proteggere un’azienda criminale, voltare le spalle ad una persona di fiducia e, infine, murare vivo un uomo.

Niente di tutto questo è opera di Verna.

Carla Cugino in una scena di The Fall of the House of Usher (2023) di Mike Flanagan, serie tv Netflix

Di fatto questo demone ha messo gli umani davanti ad una scelta di vita: se i due fratelli Usher hanno scelto la strada più semplice, ma anche più terribile, al contrario lo spietato avvocato Arthur Pym sceglie la via più dignitosa, nonostante lo porti alla prigione.

Così tutto il resto dei personaggi muore semplicemente per una colpa propria: Verna non uccide in realtà – ad eccezione di Lenore – veramente nessuno, ma mette la famiglia Usher davanti alle proprie paure e fragilità, e fai in modo che queste li distruggano.

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Serial Experiments Lain – La connessione intrinseca

Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka è una serie tv anime fantascientifica con elementi di horror psicologico.

In Italia fu prima distribuita in home video – in videocassetta (1999 – 2002) e DVD (2001 – 2003) – per poi essere trasmessa su MTV nel 2006.

Di cosa parla Serial Experiments Lain?

Lain è una ragazzina di tredici anni che riceve, insieme ad altre sue compagne, una mail da una compagna di scuola morta suicida. Ma è solo l’inizio di una serie di scoperte molto più oscure…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Serial Experiments Lain?

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

Assolutamente sì.

Sarebbe da andarci più coi piedi di piombo nel consigliare questa serie, in quanto è un prodotto indubbiamente complesso e non per tutti i palati – per capirci, al confronto Neon Genesis Evangelion (1995 – 1996) è un trattatello di pseudofilosofia – ma personalmente non posso non incoraggiarvi a dargli un’occasione.

Serial Experiments Lain è infatti una riflessione così profonda ed interessante su tematiche che al tempo erano quasi fantascienza, ma che ora sono drammaticamente reali – come l’iperconnettività – da risultare una visione sostanzialmente imperdibile per guardare al presente – e al futuro – con un occhio più analitico.

Insomma, uno di quei prodotti che vanno visti.

Con il fondamentale contributo di Carmelo

Una falsa partenza

Serial Experiments Lain ti inganna fin dall’inizio.

Le motivazioni del suicidio di Chisa Yomoda sono chiare solamente a posteriori, mentre sul momento il suo atto sembra dettato da una sorta di nichilismo, forse provocato da degli atti di bullismo – situazione purtroppo abbastanza tipica nel contesto della scuola giapponese.

Così all’inizio sembra che la storia riguarderà il contatto di Lain, ragazzina del tutto estranea alle dinamiche ed alle funzioni del NAVI e del WIRED, con la defunta, che appare come una sorta di spettro che la perseguita.

In realtà l’atto suicida è solo il primo tassello che indurrà la protagonista a scoprire la sua vera identità e tutte le implicazioni del WIRED, in un paradosso per cui Lain si sente del tutto estranea ad esso, quando in realtà è nata e cresciuta all’interno della rete – e in funzione di essa.

Il mondo altro

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

Nonostante la protagonista sembri totalmente ignara, in realtà fin dall’inizio è circondata da stimoli visivi piuttosto rivelatori.

Infatti, intorno a Lain sono costanti gli indizi di un mondo altro.

In particolare, la regia si sofferma insistentemente sull’intrico di fili telefonici che sbarra lo sguardo della protagonista e che racconta l’aspetto più materiale delle connessioni umane: nonostante le stesse siano state sempre presenti, quei legami sono stati un passo decisivo nell’evoluzione dell’uomo.

Così anche le ombre nelle strade percorse da Lain raccontano costantemente la presenza di una realtà sotterranea, di una realtà altra, solo apparentemente invisibile, ma sempre desiderosa di emergere, di essere vista…

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

Questo mondo altro è il WIRED.

Il WIRED è una versione futuristica quanto divinatoria del WEB, una rivisitazione del concetto di cyberspazio – teorizzato in particolare nell’importante contributo di Rushkoff, Cyberia (1994): si tratta fondamentalmente di uno spazio digitale di scambio di informazioni fra utenti, computer ed intelligenze artificiali.

Un concetto che possiamo per esempio trovare all’interno dei diversi social network che utilizziamo quotidianamente.

Nello specifico, in Serial Experiments Lain si esplora il lato forse più importante del mondo digitale, ovvero lo scambio di informazioni e le conseguenti connessioni che si creano all’interno della r.

Le connessioni anonime

Ma il WIRED non è altro che un punto di arrivo.

In questo senso Serial Experiments Lain è ispirato alla Ipotesi Gaia o del cervello globale: secondo questa teoria, tutto ciò che esiste sulla Terra permette la vita di tutti gli organismi, che sono interdipendenti, andando così a formare una sorta di super-organismo.

Detto in altra maniera, si tratta di una concezione panpischista – e anche proto-pansichista secondo la più recente teoria del filosofo contemporaneo David Chalmers – secondo la quale la materia ha poteri psichici – oppure li ha in potenza – ed è un tutt’uno con l’umano.

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

Applicando questo concetto al cyberspazio, si arriva quindi alla conclusione che il WIRED non è altro che la creazione di un sistema di connessioni che in realtà erano già esistenti in principio, e che può, come già detto, definire il passo successivo nell’evoluzione umana.

E lo step conseguente è rappresentato dall’abbandono totale del mondo materiale e dei suoi limiti, portando invece l’umano a connettersi in una congiunzione imprescindibile di menti, che fra l’altro ne definisce l’esistenza stessa.

Nello specifico, il Protocol 7, la costruzione di una coscienza unificata.

Per questo, il corpo è il nemico.

Il corpo nemico

L’idea del Protocol 7 di Masami Eiri nasce proprio dal rigetto della ccorporeità.

In questo senso l’idea di corpo come limite è strettamente legata al divino: di fatto il villain ha già scelto di abbandonare il suo corpo, mero contenitore della mente, per diventare il primo uomo effettivamente incorporeo presente nel WIRED.

E così, il Dio di quel mondo.

Infatti, questa realtà alternativa elimina tutti i limiti del mondo materiale, nello specifico lo spazio e il tempo, portando così Masami Eiri ad essere onnipotente ed onnipresente, perché appunto non più definito dalle limitazioni del mondo reale.

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

Ma il WIRED rappresenta anche la rinascita.

All’interno della rete l’uomo costruisce un suo alter-ego, plasmato secondo il suo desiderio e, in potenza, pure totalmente opposto nel carattere rispetto alla realtà materica, anche grazie alla protezione dell’anonimato online.

Per questo Lain si deve scontrare non solo con Masami Eiri, ma prima di tutto con sé stessa, con questa identità multiforme ed incontrollabile che rappresenta la sua vera essenza divina, la sua forma originaria.

Ma la divinità è fragile.

La divinità fragile

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

Il divino è intrinsecamente fragile.

Infatti, per quanto Lain possa assumere diversi volti e muoversi liberamente nello spazio e nel tempo, allo stesso modo è strettamente collegata alla percezione delle altre persone, in una condizione di totale dipendenza che le impedisce di possedere un’individualità.

In questo senso Serial Experiments Lain riflette – al pari di altre opere contemporanee come American Gods (2001) – sulla fragilità insita in ogni divinità: se la sua esistenza non è riconosciuta dagli altri, essa semplicemente non esiste.

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

In questo senso la protagonista ha il compito di eliminare questo limite, rendendo l’umano strettamente dipendente col divino, prendendone proprio la forma e diventando finalmente libero dalla sua materialità.

Invece Lain sceglie di far leva su un’ulteriore fragilità del mondo virtuale, ovvero la sua dipendenza dai dati: se nel WIRED l’uomo esiste solamente come intelletto, esso è anche dipendente dalla memoria, che non è altro che un dato.

E, come tale, può essere cancellato.

Il materiale

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

La scelta di Lain è dettata dal suo paradosso.

La protagonista non è altro che un programma nato nel WIRED, ma posto all’interno di un contenitore – il corpo – per diventare lo strumento per il collasso del mondo materiale, di cui però, proprio esperendolo, capisce l’importanza.

Secondo questa concezione, attuando il Protocol 7 l’uomo solo apparentemente attuerebbe un passo avanti nella sua evoluzione, mentre in realtà si priverebbe di esperienze fondamentali – quelle fisiche – che sono altrettanto uniche ed imperdibili quanto quelle intellettive.

Lain in una scena di Serial Experiments Lain (1998) di Yoshitoshi Abe e Chiaki J. Konaka

In questo senso Serial Experiments Lain ci invita a riflettere su come l’evoluzione tecnologica influisca – ed influirà – sulla socialità umana e sulla forma dell’uomo stesso, che in potenza potrà diventare sempre più soggetto alla tecnologia, e così alla sua conseguente alienazione.

In questo senso risultano illuminanti le teorie del pensatore italiano Mario Perniola, che negli Anni Novanta delineò un ritratto sconsolante – ma al contempo speranzoso – della condizione umana, arrivata ad un bivio: continuare a vivere un universo emozionale fatto di sensazioni anonime, oppure ritornare al remoto passato e ritrovare nei suoi modelli un’esperienza più autentica.

La scelta, ancora oggi, è solo nostra.

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Sex Education – Un cambiamento necessario

Sex Education (2019 – 2023) è una delle serie più popolari di Netflix che ha avuto, fra le altre cose, il merito di lanciare la splendida Emma McKay e, più in generale, di segnare un punto di non ritorno nel genere teen drama.

La serie è composta da quattro stagioni, di otto episodi ciascuna.

Di cosa parla Sex Education?

La serie ruota intorno ad un nutrito gruppo di adolescenti, accumulati da un unico elemento: la scoperta della propria sessualità.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Sex Education?

Asa Butterfield e Ncuti Gatwa in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Assolutamente sì.

Per quanto come serie non abbia sempre brillato – soprattutto nel suo finale – rimane comunque uno dei migliori prodotti teen degli ultimi anni, andando a sdoganare molti tabù e parlando finalmente con sincerità e rispetto al target di riferimento.

Nondimeno, la serie non manca di trattare anche diverse problematiche legate al mondo degli adulti: insomma, se vi lascerete trasportare dai drammi e dalle storie di questi fantastici personaggi, ne rimarrete assolutamente travolti.

Otis Sex Education

Otis è il personaggio più completo di Sex Education, in quanto rappresenta più di tutti la maturazione di un ragazzo adolescente.

Il punto di partenza del suo personaggio è il sentirsi fuori posto: mentre tutti i suoi compagni hanno già cominciato ad esplorare la propria sessualità, il nostro protagonista è limitato da un blocco – che poi scopriremo essere più mentale che fisico.

Per questo i timidi tentativi nello scoprire il sesso – prima con Lily, poi con Ola – si rivelano fallimentari, anzi umilianti, definendo ancora più nettamente la distanza fra lui e Maeve, invece famosa per la sua variegata attività sessuale.

Asa Butterfield in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Ma il lato peggiore della sua condizione è l’essere così esperto sulla carta in materia sessuale – tanto da saper efficacemente consigliare i suoi compagni – ma di risultare invece incapace di aiutare sé stesso…

…fino alla fine della stagione.

Lo splendido cliff-hanger del primo ciclo di episodi racconta i primi passi di questo giovane protagonista nello scoprirsi anche dal punto di vista sessuale, prima baciando la nuova fiamma – Ola – poi – finalmente! – riuscendo a procurarsi quel piacere da solo.

Debutto

Asa Butterfield e Mimi Keene in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Una scelta intelligente in questo senso è non legare il debutto sessuale del protagonista alla relazione con Maeve: al contrario, un inaspettato intercorso con Ruby diventa l’occasione per affrontare l’importantissimo tema della contraccezione di emergenza.

Vedere degli adolescenti tanto maturi da sapersi tutelare senza l’aiuto degli adulti è uno dei tanti messaggi fondamentali della serie.

Ed è così importante non aver legato il tema della prima esperienza sessuale all’interesse amoroso in quanto molto spesso lo stesso è appiattito proprio all’ambito relazionale e amoroso, senza considerare molti altri ed importanti elementi…

…come la sicurezza, il consenso, l’esplorazione a piccole tappe.

Esplorazione

Asa Butterfield e Mimi Keene in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Ma l’esplorazione sessuale di Otis, più che nei goffi tentativi di approccio con Ola, passa, a partire dalla terza stagione, ancora attraverso Ruby: nel penultimo ciclo di episodi Otis si riscopre particolarmente attivo e desiderabile dal punto di vista sessuale.

Un momento di passaggio fondamentale, in cui il protagonista riesce finalmente a conoscersi e autodeterminarsi – sfuggendo al controllo di Ruby – e al contempo a fare i conti con le difficoltà relazionali che portano alla fine del loro rapporto.

Purtroppo la relazione con Ruby avrebbe avuto bisogno di molto più tempo – almeno un’altra stagione: nell’ultimo ciclo di episodi i due si riscoprono solo timidamente come amici

…ma Otis non ha abbastanza tempo per capire cosa è veramente meglio per sé stesso.

Lasciarsi

Asa Butterfield e Emma Mackey in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

La relazione con Maeve è uno dei temi più tormentati di Sex Education.

Il loro rapporto sboccia in maniera piuttosto classica fin dalla prima stagione, nel quale i due compongono un’improbabile coppia in affari, con Otis che cerca persino di mettere i bastoni fra le ruote a Jackson alle spalle della stessa amica – e potenziale amante.

Ma la loro relazione è impossibile.

Asa Butterfield e Emma Mackey in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Non tanto perché vengono messi loro continui ostacoli sulla loro strada, ma piuttosto perché loro per primi sono incapaci di dare veramente il via al loro rapporto: Maeve e Otis sono due persone molto timide, chiuse e testarde.

Questo porta al crearsi di un’insormontabile incomunicabilità, così che riescono a confessare i loro sentimenti solamente nel finale della terza stagione, per poi essere nuovamente divisi…

Asa Butterfield e Emma Mackey in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

E quel breve lasso di tempo – ancora una volta, veramente troppo poco – che hanno per esplorare effettivamente la loro relazione è scandito solamente da incomprensioni, appuntamenti andati male e, infine, l’inevitabile separazione.

Un finale indubbiamente importante, dove i due capiscono quanto sia molto più importante per il lavoro futuro lavorare su sé stessi e sulle proprie carriere, piuttosto che inseguire questo amore ancora acerbo...

…ma io spero comunque che, fuori scena, ci sia un lieto fine…

Maeve Sex Education

Maeve può contare solo su sé stessa.

Questa misteriosa ragazza vive di una facciata che gli è stata costruita addosso dai suoi stessi compagni – e bulli – e si lascia infelicemente incasellare nel ruolo di mangiauomini, di giovane donna scorbutica e, di conseguenza, con cui nessuno vuole fare amicizia.

Maeve infatti parte come personaggio che vive dietro le quinte, che sfrutta la sua intelligenza solamente per poter sbarcare il lunario, ma senza permettere agli altri di scoprire il suo vero carattere.

Emma Mackey in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

La sua evoluzione passa sia attraverso ad Otis – una delle poche persone che la aiuta e non la esclude – ma soprattutto attraverso Ms. Sands, che diventa l’ambasciatrice di questa brillante ragazza…

…nonostante la stessa cerchi continuamente di autodistruggersi.

Infatti Maeve, per quanti venga spinta e cerchi effettivamente di spiccare il volo, è tenuta a terra dalla pesante eredità della sua famiglia, composta da individui che hanno da tempo perso la strada – e che sono incapaci di redimersi.

Specchio

Emma Mackey in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Purtroppo Maeve si rispecchia inevitabilmente in queste figure, sicura dell’impossibilità di poter provare un’altra strada, persino quando – all’inizio della seconda stagione – comincia finalmente a diventare sicura di sé stessa.

Il fratello e la madre sono di fatto dei fantasmi che la perseguitano, sia dentro che fuori scena.

Questo provoca un’insicurezza di fondo, che Maeve si trascina fino alla quarta stagione, fino alla nuova scuola e al programma che già di per sé racconta il suo essere una ragazza eccezionale e promettente.

Futuro

Emma Mackey in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Non a caso, è proprio il funerale della madre che la porta a fare un passo indietro, apparentemente definitivo.

La perdita della problematica genitrice si accompagna anche all’ennesimo confronto con il fratello, su cui ancora una volta non può contare, e che, insieme alla delusione del nuovo insegnante, sembra tarparle le ali.

Ma è grazie ad una figura materna secondaria – l’inaspettata Jean Milburn – che viene finalmente riconosciuta per i suoi meriti, e così prende la decisione più dolorosa della sua vita.

Ovvero, mettere per la prima volta al primo posto totalmente sé stessa.

Eric Sex Education

Il percorso di Eric è quello che ho più apprezzato della serie, nonché quello che secondo me è risultato infine più completo.

Il personaggio parte apparentemente come la più classica delle macchiette comiche: l’amico gay del protagonista, che corrisponde alla linea comica della serie.

Ma Eric è molto più di questo.

Paura

Ncuti Gatwa in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Grazie anche alla splendida recitazione di Ncuti Gatwa, il personaggio di Eric si smarca piuttosto velocemente dal ruolo di comic relief, e diventa invece protagonista di una delle tematiche fondamentali di Sex Education:

l’accettazione del sé.

Infatti questo baldanzoso ragazzo aveva portato avanti anche quasi con sfrontatezza il suo modo di vestirsi ed esprimersi, persino davanti al bullismo di Adam. Ma basta un errore di Otis ed una terrificante aggressione per farlo spegnere.

Rinascita

Ncuti Gatwa in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Per la rinascita del suo personaggio, Sex Education sceglie una via non scontata, ma che ho apprezzato fino all’ultima battuta.

Di fatto Eric rinasce riscoprendo la sua comunità e le sue radici, e abbracciandole in un modo nuovo, pur davanti alla disapprovazione del padre, il cui ricongiungimento alla fine della prima stagione è fondamentale per il battesimo di questa nuova forma…

…capace persino di tenere testa ad Adam.

Ncuti Gatwa e Asa Butterfield in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Questo percorso legato alla cristianità è interessante proprio perché inaspettato, ma assolutamente fondamentale per raccontare una realtà molto pressante: il mondo delle persone queer legate al cristianesimo.

Proprio nella quarta stagione Eric mostra tutte le difficoltà ad integrarsi in una comunità che, per molti tratti, è apertamente ostile anche solamente all’idea di qualcosa fuori dall’ordinario – o quello che è considerato tale.

La riscrittura di Gesù e poi di Dio stesso secondo un nuovo immaginario è splendida quanto provocatoria: con queste nuove immagini Sex Education si propone proprio di portare in scena un’idea nuova di religione.

E così la chiusura ideale di Eric è proprio quella di diventare pastore, essendogli stato affidato il compito da Dio stesso di aprire la strada, come un novello Mosè, ad una cristianità nuova ed aperta al cambiamento e all’integrazione.

Crescere

Ncuti Gatwa e Asa Butterfield in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Un elemento portante di Sex Education è l’amicizia fra Otis e Eric.

I due ragazzi sono cresciuti insieme, ma per tutte e quattro le stagioni intraprendono vie e strade diverse, arrivando molto vicino al baratro del growing apartlett. crescere separati – e della conseguente separazione.

La quarta stagione serve proprio a Eric a smarcarsi momentaneamente dalla figura di Otis, e scoprire delle personalità più nelle sue corde, in particolare parte di quell’esplosiva comunità queer con cui non aveva mai avuto veramente un contatto.

Ma, infine, i due riescono ad accettare le reciproche differenze e a trovare uno spazio anche nelle realtà più apparentemente peregrine dell’amico, è così a continuare la loro amicizia, pur nelle loro diverse inclinazioni.

Scegliere

Ncuti Gatwa e Connor Swindells in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

La storia relazionale di Eric è fondamentale per più motivi.

Parte inizialmente con un innamoramento impossibile con il suo persecutore – Adam – da cui però rimane diviso per tutta la seconda stagione, intraprendendo invece una relazione con il magnetico Rahim.

La terza stagione è invece dedicata all’esplorare del rapporto con Adam, dopo la splendida dichiarazione nel finale del precedente ciclo di episodi, ma che si rivela passo a passo sempre più impossibile.

Ncuti Gatwa e Connor Swindells in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Questa dinamica, per quanto triste, è un elemento che differenzia Sex Education da molte altre serie teen analoghe.

Non ci troviamo semplicemente davanti ad un solo modello di omosessualità, banale e stereotipico, ma ad un ventaglio di personaggi tutti diversi fra loro, a rappresentare proprio una sessualità che non si può appiattire ad un solo modello.

Allo stesso modo, è fondamentale anche per rappresentare come l’outing di ogni persona queer corra a velocità diverse: come Eric ha già spiccato il volo e diventa infine rappresentante della sua comunità, Adam deve ancora muovere i primi passi.

Ma Eric non può aspettarlo...

Adam Sex Education

Adam e suo padre percorrono due strade parallele e sostanzialmente analoghe.

Partono entrambi dallo stesso punto: un ruolo che sta loro stretto, sentito quasi come necessario per la definizione della propria identità, ma utile solo a nascondere paure e fragilità

Ruoli

Connor Swindells in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Se infatti Michael è l’aspro preside della scuola, incapace di ascoltare i suoi alunni, così Adam ricopre la figura del bullo, andando a colpire proprio quel personaggio che invidia per la sua capacità di esprimersi liberamente: Eric.

Questo comportamento è dettato dalle loro origini comuni: entrambi sono figli di bulli.

Alistair Petrie in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Se infatti Michael soffre anche da adulto i traumi infantili derivati sia dal comportamento del padre che del fratello – rivelati solo nella terza stagione – allo stesso modo Adam è terrorizzato dal genitore e dal suo giudizio.

Tuttavia, è anche una finezza della serie non raccontarli come dei villain tout-court, ma scegliere invece di lasciar loro un margine per mostrare la loro insicurezza, che a volte, soprattutto nel caso di Michael, è quasi comica.

Scoperta

La scoperta del sé avviene per strade differenti.

Per Adam passa attraverso la travagliata relazione con Eric, che gli permette di comprendere che lunghezze deve ancora percorrere per riuscire ad accettarsi.

Così vi è un importante passo avanti nel finale della seconda stagione, che però non è seguito da altrettanta intraprendenza quando finalmente Adam inizia la sua prima relazione queer.

Connor Swindells in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

E, nonostante la stessa giunga alla fine prima del tempo, è comunque un’occasione per il personaggio di conoscersi meglio, anche nelle sue debolezze, e così trovare anche una passione che possa cominciare a definirlo.

In questo senso il punto di arrivo della quarta stagione è la giusta chiusura del suo personaggio: lasciatosi alle spalle quella scuola in cui non aveva mai eccelso, Adam trova finalmente qualcosa in cui splendere.

Rottura

Anche la scoperta di Michael passa in qualche modo per una rottura.

Dopo aver perso il ruolo che lo definiva, l’uomo si trova impossibilitato a ricoprirlo nuovamente, anzi dovendo sottostare – di nuovo – alle angherie del fratello, riaprendo vecchie ferite d’infanzia.

Ma, all’interno del suo dramma, della sua impossibilità di riconnettersi sia col figlio che con la moglie, anche Michael scopre qualcosa di nuovo: la passione per la cucina.

Anche se è un elemento non abbastanza esplorato all’interno della serie, è la chiave per Michael per cominciare finalmente a definirsi come persona, persino in qualcosa di così stereotipicamente femmineo, che il suo vecchio sé avrebbe ripudiato.

Incontro

Connor Swindells e Alistair Petrie in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Il ricongiungimento fra Adam e il padre è stato uno dei miei momenti preferiti dell’ultima stagione.

Nonostante entrambi abbiano fatto diversi passi avanti nella loro vita – anzi proprio per questo – li divide ancora un amaro contrasto non del tutto risolto, che per Adam si concretizza nella paura della ricomposizione di quel opprimente quadro familiare.

Al punto che il ragazzo si sente una pedina nelle mani del genitore, un mezzo dello stesso per riconquistare la madre e così il suo sicuro ruolo paterno.

Connor Swindells e Alistair Petrie in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Ma questo scontro è anche il momento in cui Adam riesce finalmente ad esprimere apertamente quella rabbia covata per anni, e a ribadire la necessità che il padre diventi effettivamente una figura paterna, e non un patriarca opprimente.

E così la famiglia si può ricongiungere, ma solo dopo che i suoi protagonisti hanno vissuto un periodo di transizione e scoperta.

Ruby Sex Education

Ruby è uno dei miei personaggi preferiti di Sex Education.

Parte con il ruolo della ragazza popolare e bulla – una rivisitazione della figura di Regina George, insomma – ma dalla seconda stagione in poi si riscopre in altre vesti.

Come per Adam, anche per Ruby il suo ruolo da bulletta era derivato da una sofferenza passata, da cui aveva cercato di liberarsi diventando lei stessa la carnefice: da bed-wetter a cock-biter il passo è breve.

Scoperta

Mimi Keene in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

La riscoperta avviene soprattutto tramite la relazione con Otis, con cui si apre in una maniera che non aveva mai fatto prima, mostrando quel lato della sua vita che aveva celato persino ai suoi migliori amici.

Infatti Ruby cova interiormente un profondo dolore, sia per la condizione del padre, che per le sue umili origini, a cui si aggiunge la relazione con Otis, che non va come avrebbe sperato.

Inizio

Mimi Keene in una scena di Sex Education (2019 - 2023), serie tv Netflix

Nella quarta stagione il suo personaggio viene spogliato e così arricchito: ritrovatasi sola e senza amici, Ruby punta subito a far parte del gruppo popolare nella nuova scuola.

Ma in questo tentativo riesce anche a riscoprirsi in altro modo, confrontandosi con il suo passato – O, aka Sarah – e risolvendolo non con la ripicca, ma con il ripensamento.

Anche se un po’ monco, il suo finale racconta una Ruby più sicura, che vuole far parte di un nuovo gruppo in maniera diversa, ovvero nascondendosi molto di meno: non a caso, indossa i pantaloni fatti dalla madre, di cui fino a poco prima si era vergognata…

Eric Sex Education

Lily è uno dei personaggi più rappresentativi di Sex Education, che purtroppo esce definitivamente di scena alla fine della terza stagione.

Sulle prime Lily è alla disperata ricerca di un’esperienza sessuale, che le permetta di raccontare con più sincerità e consapevolezza il lato erotico dei suoi fantasiosi racconti fantascientifici, parte fondamentale della sua stessa personalità.

La scoperta della sua sessualità è forse un po’ meno vincente di altre: se sulle prime poteva essere interessante il kink del role play, il problema del vaginismo è portato in scena con un po’ troppa leggerezza.

Ma anche meno mi è piaciuto il personaggio di Ola, veramente insipido e senza personalità, che ha quel poco di interesse per quanto sia legata al personaggio di Lily stesso, in particolare quando la stessa viene censurata e umiliata nella terza stagione.

Jean Sex Education

Jean è, grazie soprattutto alla splendida interpretazione di Gillian Anderson, uno dei personaggi più esplosivi di Sex Education.

Una donna che è stata più volte messa alla prova dalla vita, in particolare dal turbolento matrimonio, che l’ha portata addirittura ad un breakdown mentale, e che si è costruita la sua piccola quotidianità con il figlio e le relazioni occasionali.

Il cambiamento arriva con l’entrata in scena di Jakob, personaggio con cui intraprende relazione molto altalenante, che si conclude in una sostanziale incompatibilità di vedute e di stili di vita, oltre all’impossibilità di reclamare la paternità di Joy.

Guida

Ma, mentre Jean fatica nelle relazioni, soprattutto in quella con Otis, diventa al contempo una guida importante per molti dei personaggi della serie, a cui trasmette i suoi preziosi insegnamenti per una sessualità più libera e consapevole.

Il suo percorso si conclude in qualche modo con la gravidanza, che le permette di riscoprirsi come madre, ma di vivere anche il dramma della depressione post-partum, un’occasione per la serie di raccontare una maternità definita anche da delle importanti ombre.

Manca purtroppo per il suo personaggio un riallacciare in maniera decisiva il rapporto con Otis, che avrebbe definito anche una maturazione dello stesso, che però si risolve solamente in poche, insufficienti, battute

Aimee Sex Education

Aimee è il personaggio che è più alla ricerca di una sua identità.

Il suo punto di partenza è insipido: fa parte del gruppo popolare della scuola perché lo sente come fondamentale per la sua identità, coltivando così solo segretamente l’amicizia con Maeve, e incastrandosi all’interno di una relazione insoddisfacente…

…in cui non fa altro che fingere di essere qualcun altro.

Personalità

I primi passi nella direzione giusta sono lasciare Adam e scegliere invece un altro ragazzo che le permetta veramente di cominciare ad esplorare la sua sessualità, e abbandonare il gruppetto di Ruby per coltivare invece l’amicizia positiva con Maeve.

Ma i punti di svolta, nel bene e nel male, avvengono dalla seconda stagione.

Nel penultimo ciclo di episodi Aimee comincia a sviluppare una sua personalità, intraprendendo un hobby che all’inizio sembra un disastro, ma che piano piano diventa un tratto distintivo del suo personaggio.

Trauma

Al contempo in questa stagione si sviluppa anche un dramma non indifferente, che è raccontato con un realismo piuttosto amaro, delle donne che non riescono ad accettare neanche con sé stesse di essere state aggredite.

Un trauma irrisolto che la porta ad allontanare sia il fidanzato che l’amica, per poi cominciare a rimettersi in piedi grazie all’aiuto delle sue compagne – vittime anche loro – e, in ultimo, grazie ad Isaac, che la aiuta a affrontare il trauma grazie ad una nuova passione: la fotografia.

Jackson Sex Education

In quattro stagioni, Jackson è forse il personaggio a cui vengono affidate più tematiche – forse anche troppe.

Il suo personaggio parte nel ruolo di star dello sport e beniamino del preside, intraprendendo una relazione non usuale con Maeve, purtroppo destinata al totale fallimento.

Scoperta

Il punto più interessante del suo personaggio è però nella seconda stagione, in cui cerca definitivamente di smarcarsi dal ruolo che ha portato sulle spalle per tutta la vita – la promessa dello sport…

…per provare invece un’altra passione e riscrivere così il rapporto con le sue madri.

Meno incisivo è il suo percorso nella terza e quarta stagione: prima tentando un rapporto con Cal, poi scoprendo altri lati della sua sessualità, e infine venendo finalmente a conoscenza delle sue turbolente origini.

Molti temi, che però avevano bisogno di più tempo per un personaggio indubbiamente interessante.

Viv Sex Education

Intorno al personaggio di Viv ruotano due importanti tematiche: il sexting e le relazioni abusive.

Nella seconda stagione il suo personaggio compie un interessante passo avanti, passando dall’essere il genio della scuola ad aprirsi anche a qualcos’altro grazie a Jackson, che diventa nel tempo anche il suo maggiore punto di riferimento.

Fantasia

Nella terza stagione Viv rischia nuovamente di ricadere in un modello non sano, ma per fortuna è anche capace di salvare sé stessa, e anzi di diventare la miccia che scatena la rivolta degli studenti negli ultimi episodi.

Parallelamente Viv racconta un tema veramente poco affrontato nelle serie teen: il sexting, che, insieme all’autoerotismo, permette di conoscersi meglio come persona e come coppia, esplorando vie meno canoniche, ma altrettanto intriganti.

Ma la parte che mi è piaciuta di più del suo personaggio si svolge nella quarta stagione.

Svolta

Per quanto avrebbe avuto bisogno di più episodi, la tematica della relazione tossica è raccontata in tutta la sua angoscia: un rapporto che nasce con un affetto improvviso ed inarrestabile – il cosiddetto love bombing – ma che svela poi il suo lato più violento.

Ed è fondamentale rappresentare un personaggio che riesce, pur fra mille dubbi e anche grazie al supporto dei suoi amici, a ribellarsi ad una situazione che rischiava di finire in tragedia…

…andando però anche a sottolineare come il suo ragazzo tossico possa affrontare un percorso di terapia e così superare questi problematici comportamenti.

Isaac Sex Education

Anche se non gode di ampissimo spazio nella serie, Isaac è un personaggio fondamentale per ben due motivi.

Anzitutto, offre finalmente la possibilità di rappresentare un personaggio disabile che non sia una figurina sullo sfondo, il classico personaggio di buon cuore che deve essere costantemente compatito dagli altri personaggi.

Anomalo

Al contrario Isaac presenta un carattere piuttosto turbolento, respingendo qualunque tipo di umiliante pietismo nei suoi confronti, e diventando quasi il villain del finale della seconda stagione.

Insomma, prima che un ragazzo disabile, Isaac è un personaggio assolutamente tridimensionale.

Inoltre la sua presenza nella serie permette anche di esplorare un tema veramente poco trattato, ovvero quello del desiderio e della soddisfazione sessuale di persone che apparentemente non posso averla – con Maeve prima, con Aimee dopo.

Invisibile

In ultimo, nella quarta stagione Isaac dà voce a quegli ostacoli invisibili agli altri, ma determinanti per una persona disabile, mostrando come anche cambiare un singolo elemento – l’ascensore rotto e le scale bloccate – può stravolgere la percezione del mondo.

Una scena che apre le porte anche ad un altro tipo di disabilità, ancora meno raccontata: la sordità.

Cal Sex Education

Cal e gli altri personaggi queer della quarta stagione introducono un tema ancora poco esplorato nei prodotti teen: le difficoltà della disforia di genere.

Il suo personaggio attraversa varie fasi in cui cerca di definirsi, prima come persona non-binary, poi ricercando un’identità forse più maschile, o almeno cercando di privarsi uno dei tratti sessuali primari – il seno – che aveva sempre cercato di nascondere.

Transizione

Il suo personaggio passa dall’essere piuttosto ribelle e sfuggente nella terza stagione – in cui si affrontano le difficoltà di una persona non binaria in una realtà definita dal bianco e nero – a diventare il protagonista della non semplice transizione.

In questa fase Cal vive diversi impulsi, che in principio permettono di riscoprire una sessualità esplosiva e incontrollabile, poi di sentirsi addosso il peso di un corpo in cui non si riconosce, e che non permette di integrarsi veramente all’interno della realtà scolastica.

Solitudine

Purtroppo Cal è un altro personaggio che avrebbe avuto bisogno di un’altra stagione intera per concludere il suo percorso, arrivando solo al primo passo: superare degli istinti suicidi purtroppo propri di molte persone transessuali…

…e al contempo aprirsi davvero alla transizione, non solo sessuale, ma anche relazionale.

In una quinta stagione che non vedremo mai, sarebbe stato splendido vedere un Eric che accompagnava Cal nel suo percorso di accettazione…

Hope Sex Education

Anche se la terza stagione non mi ha convinto fino in fondo, Hope non solo è un ottimo villain, ma è anche quello che permette di più ai personaggi di fare gruppo e di riscoprirsi.

Apparenza

Se si fa attenzione, la sua natura è svelata fin dalla sua primissima apparizione, soprattutto se la si confronta con Michael Groff: Hope si racconta – ed inizialmente viene percepita – come un personaggio cool, aperto al confronto con gli studenti.

In realtà è indicativo il modo in cui è vestita: totalmente di nero, con dei vestiti anche molto accollati, quindi con un colore che assorbe tutti gli altri, nello specifico i colori caldi e pieni della scuola – che persino Michael Gross indossava.

E infatti Hope spegnerà – o, meglio, tenterà di spegnere – i colori degli adolescenti, riducendoli ad una grigia neutralità.

Controllo

Come si scopre nel finale di stagione, questo comportamento deriva dal suo confronto ben poco sereno con le aspettative sociali: se anche Hope un tempo era una ragazza piena di sogni, questi le sono stati spenti dalla crudezza del mondo adulto.

Per questo la nuova preside cerca di trasmettere questa necessità di controllo e di rispetto delle regole – anche in picchi decisamente eccessivi come quello della retrograda educazione sessuale – perché i suoi alunni siano già pronti ad un mondo ostile.

In questo modo però Hope non si rende conto della necessità degli adolescenti di esprimersi e così di scoprire sé stessi, anche sbagliando, ma evitando così di diventare degli adulti grigi e senza personalità.

E questo passa anche dalla ribellione contro Hope che inevitabilmente avviene.

Sex Education Mean Girls

Sex Education è pieno di citazioni ad altri cult teen – e non solo.

Seguono spoiler su Mean Girls (2004), High School Musical (2006), Breakfast Club (1985) e Juno (2007).

Mean girls è in assoluto il film più citato, più o meno esplicitamente.

Se già di per sé il gruppetto dei ragazzi popolari è uno specchio aggiornato al nuovo decennio delle plastics, la prima citazione effettiva arriva alla fine della seconda stagione, quando il preside Groff sparge le pagine degli appunti di Jean in giro per la scuola, proprio come Regina George con il Burn Book alla fine del film:

Nella terza stagione, l’entrata in scena di Viv con il fidanzato è un riferimento esplicito alla famosa scena della camminata finita male di Cady con le sue nuove amiche (da 0:21):

Così ci sono altre due citazioni nella quarta stagione.

Anzitutto, nella prima puntata sia Ruby che Michael mangiano seduti in bagno, esattamente come la protagonista di Mean girls:

E nella penultima puntata, quando c’è la rivolta scolastica, uno dei ragazzi disabili interviene e qualcuno fra la folla dice che non viene neanche in questa scuola, come omaggio alla famosissima scena alla fine del film:

Un’altra citazione che ho semplicemente adorato è il ribaltamento della terrificante sequenza di Juno (2007) sull’aborto:

Così, anche se più indirettamente, Sex Education cita anche High School Musical, con l’imbarazzo di Jackson nel far parte del musical scolastico, allo stesso modo di Troy nel film.

Infine come non citare lo splendido riferimento a Breakfast Club nella scena della seconda stagione in cui le ragazze vengono obbligate a scrivere un tema su cosa le accomuni:

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Steins;Gate – Una comica temporalità

Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō è una serie anime di stampo fantascientifico, nello specifico sulla tematica dei viaggi nel tempo.

La serie venne trasmessa nel 2011 in Giappone, per poi essere portata in Italia nel palinsesto notturno di Rete 4. Nel 2013 è uscito un film sequel della serie, e successivamente nel 2018, uno spin-off televisivo dal titolo Steins;Gate 0.

Di cosa parla Steins;Gate?

Okabe è un sedicente scienziato pazzo che lavora nel suo Laboratorio di Gadget Futuristici, ma che si trova a doversi scontrare con le terribili conseguenze del viaggio nel tempo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Steins;Gate?

Okabe in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Assolutamente sì.

Steins;Gate è una di quelle serie che riesce a lavorare ottimamente nella costruzione dei caratteri dei personaggi e dei loro rapporti, con un gustosissimo apparato comico che ben si alterna ai più drammatici eventi riguardanti il viaggio nel tempo.

Proprio per questo motivo è considerabile uno dei migliori eredi di Evangelion, da cui riprende proprio l’equilibrio fra gli elementi più puramente umoristici e le riflessioni esistenziali e (fanta)scientifiche.

Insomma, non ve la potete perdere.

Ecco anche una piccola guida la visione.

Steins;Gate serie tv

Con il prezioso contributo di Carmelo.

Steins;Gate si compone di tre prodotti principali: due serie e un film.

Ma quali vale la pena di guardare?

La serie originale

La serie originale, composta da 24 episodi, è l’ovvio punto di partenza, oltre ad essere il prodotto fra tutti più riuscito.

Una serie con una struttura narrativa piuttosto peculiare, che si compone fondamentalmente di due tronconi: la prima parte è dedicata alla costruzione dei personaggi e del mistero del viaggio nel tempo, mentre nella seconda prevale l’elemento action e più strettamente emotivo.

Una serie quindi complessivamente coerente con sé stessa, che non ha tendenzialmente bisogno di alcun ampliamento.

Anche se…

Il film

Nonostante apparentemente la serie non abbia alcun bisogno di un seguito, il film – intitolato Steins;Gate: The Movie – Load Region of Déjà Vu – si rivela sorprendentemente un ottimo epilogo.

Senza entrare nello specifico, vi basti sapere che nel finale della serie il protagonista riesce ad arrivare ad una situazione conclusiva, e nella pellicola sequel viene raccontato come la affronta sul lato emotivo.

Steins;Gate 0

Steins;Gate è difficile da spiegare senza fare spoiler.

Ma, per capire quanto fosse nient’altro che un prodotto che voleva cavalcare il successo della serie, è sufficiente dire che questa sorta di rebuilt vanifica totalmente il finale della serie, oltre a mandare a gambe all’aria molti concetti fondamentali dell’opera principale.

Come se tutto questo non bastasse, si calca ancora di più la mano sulle relazioni fra i personaggi, ma mancando del tutto della delicatezza che invece caratterizzava la serie madre.

Insomma, fermatevi prima.

Una finzione…molto reale

Okabe appare da subito come un personaggio bizzarro.

Un giovane scienziato, del tutto convinto di poter costruire incredibili gadget futuristici e, soprattutto, una macchina del tempo, che finge continuamente di parlare al telefono e di essere costantemente minacciato dall’Organizzazione.

La maggior parte degli episodi della prima parte della serie ruotano su questa dicotomia: anche se il protagonista continua per molto tempo a fingersi impegnato in missioni fondamentali, minacciando gli altri personaggi in modi che sembrano veramente senza senso…

…questa fantasia diventa del tutto reale: più Okabe continua a costruire – anche con l’aiuto dei suoi compagni – nuovi apparecchi per modificare il tempo – e di conseguenza la realtà – più la minaccia dell’Organizzazione – il SERN – diventa pressante e reale.

Okabe in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Il picco drammatico per certi versi è la rivelazione di John Titor, che gli affida il ruolo di messia: da quel punto in poi il protagonista modificherà sempre più profondamente il tessuto temporale, sempre più spinto da motivazioni più emotive che scientifiche.

Ma comunque Okabe non smette mai di essere veramente uno scienziato pazzo: per sua stessa ammissione, anche nel futuro continuerà a comportarsi come un adolescente, immerso in quella fantasia fantascientifica che si è rivelata molto più vera di quanto lui stesso si aspettasse.

Ma l’elemento fondamentale è Mayuri.

Facciamo che io ero…

Il rapporto fra Mayuri e Okabe è inizialmente molto nebuloso.

La ragazzina sembra incredibilmente ingenua e totalmente in balia alle fantasie dell’amico – nonostante la differenza di età – ma appare anche come il nucleo della maggior parte delle relazioni che ruotano intorno al Laboratorio.

Ma il suo personaggio diventa fondamentale soprattutto quando diventa il perno emotivo nella missione di riportare la giusta linea temporale ed evitare sia la Terza Guerra Mondiale che la distopia del SERN.

Le puntate dedicate al suo salvataggio sono quelle emotivamente più devastanti, ma che provano anche l’efficacia della serie nel riuscire a costruire efficacemente il rapporto fra il protagonista e Mayuri.

Mayuri in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

In particolare, il flashback di Mayuri sulla tomba della nonna – riproposto più volte, anche nel film – racconta la totale leggerezza e semplicità del suo personaggio, con la mano protesta ad afferrare il sole…

…atto che però viene interpretata da Okabe come una sorta di rapimento, come il momento in cui la sua più affezionata compagna d’infanzia si volatizzerà nell’aria – un dolorosissimo foreshadowing di quello che accadrà in futuro.

E infatti proprio in quel momento il giovane protagonista promette, anche se in maniera infantile e tramite una sorta di gioco delle parti – io sono lo scienziato pazzo, e tu sei il mio ostaggio – di prendersi per sempre cura di Mayuri.

Steins;Gate Mayuri

Ed è tanto più dolce e doloroso quando questa promessa viene effettivamente messa alla prova: Okabe cade nella totale disperazione, si stressa quasi fino alla pazzia per poter salvare una persona così tanto cara, così necessaria per la sua stessa esistenza.

Ma, al contempo, è tanto più doloroso che, nel suo tentativo di tenerla in vita, Okabe finisce quasi per trascurarla, diventando schivo e distante e, di conseguenza, facendo dubitare a Mayuri la solidità del loro rapporto.

Ed è un esempio di ottima scrittura il coincidere delle sue necessità personali con il salvataggio dell’umanità tutta.

Anche perchè, per Okabe, Mayuri è tutto il suo mondo.

Salvarsi a vicenda

Kurisu in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Il rapporto fra Kurisu e Okabe è tanto bello quanto doloroso.

Okabe fa la conoscenza della sua futura compagna quando questa è morta, per poi ritrovarla viva un momento dopo: un primo indizio dell’esistenza e della possibilità del viaggio temporale, effettivamente comprensibile solamente a posteriori.

Entrambi sviluppano verso l’altro un rapporto apparentemente molto conflittuale, fatto rimbeccate e nomignoli, che vengono però nel tempo sempre più alternate da momenti di confidenza e di timido affetto.

Come per Mayuri, anche per Kurisu il rapporto con Okabe raggiunge il suo apice nel momento più tragico: dopo essersi confidata più volte con la sua assistente sulla morte di Mayuri, il protagonista si ritrova davanti alla possibilità di perdere un altro importante affetto.

Kurisu in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Ma il dolore per la perdita di Kurisu è in realtà determinante per la maturazione del protagonista, che deve, in maniera piuttosto rocambolesca, sia salvare la sua amata, sia fingere che sia morta per non impedire lo svolgersi degli eventi futuri – e il suo stesso arco evolutivo.

Ma Kurisu non è una semplice ragazza nel frigo, anzi è sostanzialmente la protagonista del film che fa da epilogo alla serie, nel quale diventa assume il ruolo di motore fondamentale perché Okabe possa finalmente accettare quella realtà che aveva costruito con tanto impegno, ma che vive come irreale.

Kurisu Steins;Gate

Kurisu in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Infatti, se in un primo momento il protagonista sembrava sereno nella sua creazione temporale, accettando anche con una certa maturità la situazione, soprattutto nei riguardi di Kurisu – non serve che siano insieme, ma semplicemente che lei sia viva – in realtà brandelli delle terrificanti memorie delle altre linee temporali lo perseguitano.

Così la missione di salvataggio del compagno è anche un momento fondamentale per Kurisu, che impedisce di fatto a sé stessa di ricadere in una dolorosa contraddizione: continuare a provare a salvare Okabe, ma non farlo mai effettivamente, per non infrangere la promessa fatta…

Salvare il futuro

Suzuha è uno dei personaggi che inizialmente appaiono più misteriosi nella serie.

Conoscendo il tema centrale della trama, non è in realtà troppo difficile indovinare fin da subito che si tratta di un viaggiatore nel tempo, ma è una finezza non indifferente della scrittura darle proprio il ruolo di John Titor.

Proprio per come sarà poi per Mister Braun, anche in questo caso si sceglie giustamente di non far coincidere l’identità di un personaggio misterioso con qualcuno di esterno al gruppo principale dei personaggi, rendendo così la trama più compatta e funzionale.

Suzuha in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Proprio per questo Suzuha rimane per certi versi ai margini della scena per la prima metà della serie, ma diventa un personaggio chiave sul finale, con il ruolo di messaggero fra il presente e il futuro.

Nondimeno, la sua figura è arricchita da diversi elementi che la rendono incredibilmente tridimensionale, a partire dalla rivelazione – quasi comica per certi versi – riguardo all’identità del tanto ricercato padre.

Suzuha Steins;Gate

Suzuha in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Una rivelazione che potrebbe far quasi sembrare Steins;Gate una telenovela, ma che è invece fondamentale per il finale: proprio grazie all’amicizia con Daru, Okabe è già sicuro che la figlia diventerà parte integrante del loro gruppo.

Ben più drammatica è invece la scoperta del passato di questa giovane viaggiatrice del tempo, che Okabe deve ancora una volta salvare proprio in modo che la stessa possa poi spingerlo nella direzione corretta per il salvataggio di Mayuri e, di conseguenza, di tutta l’umanità.

Ricordo e percezione

Faris in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Nonostante siano personaggi assai secondari, Faris e Ruka sono portatrici di un concetto fondamentale: il potere del ricordo.

La tematica è fondamentale per la tragica storia di Faris: anche se sembra un personaggio superficiale e sciocco, in realtà la ragazzina si rivela ben più matura nell’accettare nuovamente la morte del padre, necessaria per il salvataggio del mondo.

E questa accettazione deriva proprio dall’idea di essere comunque riuscita a mettere in salvo, almeno una volta, almeno in una linea temporale, il caro genitore, e di poter così conservare nella sua memoria il ricordo di dieci splendidi anni insieme.

Ruka in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Spostandoci più dal lato della percezione, Ruka racchiude al suo interno una delle tematiche più delicate della serie.

Per quanto sembri e voglia in effetti essere una ragazza, il suo personaggio è intrappolato in un corpo maschile che la fa incredibilmente soffrire, oltre a rendere impossibile il concretizzarsi di una relazione romantica con Okabe.

Per questo anche lei deve raggiungere un compromesso con sé stessa, e proprio grazie all’aiuto dell’amico, che fin da subito, in maniera quasi sorprendente, l’aveva accettata per quello che si sentiva di essere, indipendentemente da tutto…

Un ingranaggio

Anche se ha un minutaggio limitato, il personaggio di Moeka merita un discorso a parte.

Questa misteriosa ragazza racconta infatti l’altro lato della distopia della SERN – anche se ancora in divenire: Moeka è troppo timida e chiusa in sé stessa per integrarsi veramente nel Laboratorio, lasciandosi invece facilmente abbindolare dall’Organizzazione.

Ma in questo modo non fa altro che diventare una pedina e far coincidere tutta la sua personalità solamente con questo ruolo, vivendo nel culto del misterioso FB, che si rivela essere nient’altro che Mister Braun, nient’altro che un altro ingranaggio del mostruoso meccanismo della SERN.

Per questo secondo me Moeka è uno dei pezzi della storia che vanno meglio a posto sul finale, prendendo il lavoro di Suzuha – che in quella linea ancora non esiste – nel negozio di elettronica sotto al Laboratorio, di cui riesce finalmente a far veramente parte.

L’irresistibile linea comica

Daru in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

In chiusura, voglio spendere due parole su Daru.

Daru è fondamentalmente la linea comica della serie, e poco altro. E per questo l’ho adorato: un personaggio portatore di una comicità che è davvero nelle mie corde, che anzi mi ha piuttosto stupito di trovare in un prodotto di questo genere.

Al punto che, nella maggior parte dei casi, quando Daru dava voce alle sue perversioni, era come se vedessi sullo schermo le stesse battute che avrei fatto io in quel momento – e nello stesso modo.

Forse a non tutti potrebbe piacere, ma secondo me l’inserimento di una linea comica così semplice e sfacciata è il comic relief – nel senso più letterale del termine – più funzionale e giusto per dare respiro ad una narrazione in molti momenti davvero emotivamente devastante.

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Black Mirror 3 – La prima prova

Black Mirror 3 (2016) è la terza stagione della serie cult creata da Charlie Brooker, la prima dopo l’acquisizione di Netflix.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 3?

Assolutamente sì.

Black Mirror 3 presenta tre puntate davvero fantastiche Nosedive, Shut up and dance e San Junipero – e, per l’altra metà, episodi magari un po’ meno originali nelle tematiche, ma comunque robusti e interessanti per le riflessioni che propongono.

Insomma, ancora una stagione veramente ottima, nonostante il maggior numero di episodi, e, soprattutto, nonostante a questo punto Black Mirror fosse passata sotto la direzione di Netflix, i cui effetti si vedranno più avanti…

Nosedive

Bryce Dallas Howard in una scena di Nosedive (Caduta Libera), Black Mirror 3

Nosedive è la mia puntata preferita di Black Mirror in generale.

Un episodio capace di prendere un concetto molto semplice e reale – la popolarità sui social media – e trasformarlo in una storia colorata con tante pennellate di confortanti tinte pastello, che però nascondono un incubo quanto mai vicino a noi.

E così, anche se indirettamente, parla di noi: un mondo molto spesso filtrato dall’immagine che diamo attraverso i social media, dove spesso e volentieri mostriamo solo le parti migliori della nostra vita, nascondendo tutto il resto.

Bryce Dallas Howard in una scena di Nosedive (Caduta Libera), Black Mirror 3

Particolarmente evidente il concetto nella scena del bar, quando la protagonista vuole immortalare il momento con una foto estremamente finta: in realtà il caffè è terribile, il biscotto non l’ha neanche mangiato…

Ma vuoi mettere l’ottenere per questo l’approvazione degli altri?

E così muore ogni tipo di genuinità, sia positiva che negativa, che però esplode in questa magnifica, quanto stranamente rincuorante, chiusura dell’episodio…

Playtest

Wyatt Russel in una scena di Playtest (Giochi pericolosi), Black Mirror 3

Non amo particolarmente Playtest, anche se è una puntata di tutto rispetto.

In particolare, funziona molto bene la costruzione della tensione: in totale contrapposizione con i toni profondamente orrorifici del finale, il protagonista appare per buona parte della puntata spensierato, guascone.

Il classico personaggio che ride in faccia alla morte.

Wyatt Russel e Wunmi Mosaku in una scena di Playtest (Giochi pericolosi), Black Mirror 3

E in questo modo riesce a far tranquillizzare anche noi, che empatizziamo facilmente con il suo personaggio e che ci immergiamo in questa situazione così apparentemente tranquilla, quasi noiosa.

Invece entriamo in un incubo che cita Cronenberg più volte – il ragno umanoide ricorda il suo analogo in Il pasto nudo (1991), mentre il plug nel retro della nuca richiama da vicino eXistenZ (1999).

E, per aggiungere orrore all’orrore, una costruzione alla Inception (2010) ci lascia con una sola una domanda in mente: quanto siamo pronti a farci penetrare dalle tecnologie e intelligenze artificiali, capaci potenzialmente di sconvolgerci la mente così profondamente?

Shut Up and Dance

Alex Lawther in una scena di Shut up and dance (Zitto e balla), Black Mirror 3

Shut Up and Dance è una delle puntate più di impatto per un semplice motivo.

Tutto quello che succede nella puntata, potrebbe facilmente accadere nel mondo reale.

Quanto potrebbe essere facile che anche il più attento di noi installi senza volerlo un virus sul proprio computer e si faccia involontariamente spiare, anche nell’atto più innocente, che però, se fosse svelato al mondo, gli rovinerebbe per sempre la vita?

E così è perfettamente credibile che un troll qualunque su internet covi dentro di sé una strana voglia di giocare con degli sconosciuti, terrorizzarli e fargli fare cose apparentemente senza senso, per il puro ludibrio.

E per questo il finale è così scioccante, così perfetto.

San Junipero

Gugu Mbatha-Raw e Mackenzie Davis in una scena di San Junipero, Black Mirror 3

San Junipero è una delle puntate più amate di Black Mirror.

Anzitutto perché fu un episodio che uscì al momento giusto: dopo il successo recente di Stranger Things, era appena scoppiata la moda degli Anni Ottanta, con una ricerca delle atmosfere vintage di cui la puntata è piena.

Al contempo, è una puntata necessaria: al tempo – e in realtà ancora oggi – c’era un disperato bisogno di personaggi queer che non fossero semplicemente incasellati in stereotipi facilmente digeribili per il pubblico medio, ma qualcosa di più profondo e rappresentativo.

Ma è anche molto più di questo.

Mackenzie Davis in una scena di San Junipero, Black Mirror 3

San Junipero è una dolcissima storia romantica, ma anche una riflessione sulla morte, sulla vecchiaia e, per una volta, una prospettiva positiva su un futuro possibile, uno sguardo su quello che oggi chiameremmo l’ancora acerbo Metaverso.

Non solo un giocattolone come lo pensano molti, ma una possibilità concreta per molte persone di avere una seconda possibilità che, per i più vari motivi, possono non aver avuto nella vita reale, e così anche una felice prospettiva di aldilà

Men Against Fire

Men Against Fire forse non è una delle puntate più brillanti di Black Mirror, ma comunque offre spunti di non poco interesse.

Di fatto questo episodio racconta quella che sarà la guerra del futuro, e di come i progressi tecnologici potranno servire anche per ingannare la mente dei civili quanto dei militari, così da rendere la loro vita un po’ più semplice nello sconfiggere il nemico.

E così i nuovi conflitti diventano delle effettive guerre lampo, dove non c’è più assolutamente il dubbio di star uccidendo qualcuno che bisogna distruggere, dove l’empatia, la fratellanza, quello scrupolo che ferma il soldato dal premere il grilletto, è scomparso per sempre…

Hated in the Nation

Hated by the Nation è una puntata un po’ meno ricordata di Black Mirror, ma è indubbiamente molto interessante.

Di fatto si rimescolano le carte in tavola di White Bear e Shut up and dance: di nuovo la facilità della gogna pubblica, in questo caso nella spersonalizzazione e alienazione della nostra identità online, dove ci permettiamo di dire e fare cose che mai faremmo nella vita quotidiana.

Ma infine le persone veramente colpite sono gli autori stessi della condanna, che hanno augurato la morte e ricoperto di insulti persone normali, totalmente indifferenti alle conseguenze delle loro azioni, ma sicuri di essere intoccabili in quanto parte di un gruppo di colpevoli.

E, ancora una volta, è tanto più inquietante se si pensa come questa realtà potrebbe essere dietro l’angolo: il riconoscimento facciale è una tecnologia ormai consolidata, utilizzata in Cina proprio per motivi politici, la crisi delle api è un problema tutt’ora dibattuto…

Il resto è ormai la nostra quotidianità.

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Black Mirror 4 – Scricchiola che ti scricchiola…

Black Mirror 4 (2017) è la quarta stagione creata da Charlie Brooker, la seconda distribuita direttamente da Netflix, composta da sei puntate.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 4?

Georgina Campbell e Joe Cole in una scena di Hang the Dj (Black Mirro 4)

In generale, sì.

Black Mirror 4 è la stagione in cui questa serie comincia a mostrare la sua crescente debolezza, con puntate abbastanza in linea con lo spirito originario – USS Callister e Arkangel – e altre del tutto fuori contesto – Crocodile e, soprattutto, Black Museum.

Tuttavia, non siamo ancora del tutto ai picchi di bruttezza della stagione cinque e sei, dove per la maggior parte gli episodi potrebbero essere presi da una qualunque altra serie di Netflix che non si chiama Black Mirror

Insomma, dategli una chance, ma non aspettatevi molto…

USS Callister

Jessie Plemons in una scena di Uss Callister, Black Mirror 4

USS Callister è una delle cose migliori che sono successe a Black Mirror dopo l’acquisizione di Netflix.

Nonostante, infatti, la puntata sia di fatto un ripescaggio della stessa tecnologia di San Junipero e di fatto una riproposizione più edulcorata di quello che si era visto in White Christmas, la possibilità di utilizzare Star Trek – di cui Netflix ha i diritti – la rende una simpatica chicca.

Un episodio che rappresenta un futuro molto verosimile – sostanzialmente si parla degli attuali visori della realtà virtuale, ma più avanzati – ovvero il prossimo passo nel mondo del gaming – che, personalmente, non vedo l’ora che si realizzi.

Cristin Milioti in una scena di Uss Callister, Black Mirror 4

In particolare, era quasi necessario che questo racconto fosse positivo.

Anche se la resa del villain non è del tutto equilibrata – si spinge un po’ troppo l’acceleratore su come sia uno sfigato asociale, andando a ricalcare un classico stereotipo – preferisco che racconti Daly come una mela marcia che usa male una tecnologia avveniristica.

Sarebbe stato infatti fin troppo banale anche per Black Mirror voler demonizzare una novità che sta già diventando il presente, finendo così per andare a ingrossare le fila di chi critica molto ingenuamente i videogiochi – e i nuovi media in genere – definendoli alienanti.

Una puntata insomma dove la rappresentazione di un futuro auspicabile era di fatto necessaria…

Arkangel

Arkangel è forse la puntata più Black Mirror dell’intera stagione.

Al centro vi troviamo una tecnologia che potrebbe potenzialmente risolvere moltissimi problemi, e che non pochi genitori accetterebbero ad occhi chiusi per proteggere i loro figli, ma che, di fatto, impedisce ai bambini di crescere.

La scoperta del mondo, con i suoi lati positivi e negativi, l’affrontare le nostre paure, il metterci alla prova per capire i nostri limiti, sono tutti dei momenti fondamentali che definiscono la nostra personalità, ma soprattutto il nostro rapporto col mondo esterno.

In più, superata una certa età, appare evidente come un figlio non si senta più al sicuro rimanendo sotto il costante controllo dei genitori, non riuscendo così a crearsi il proprio spazio privato e la propria indipendenza.

Ma, alla fine della puntata, riusciamo davvero ad essere contro la scelta di Marie oppure, in un certo senso – che noi siamo genitori o meno – riusciamo a capirla e ad empatizzare con lei?

Insomma, al posto suo ci saremmo veramente comportati diversamente?

Crocodile

Andrea Riseborough in una scena di Crocodile, Black Mirror 4

Qui si cominciano a sentire i primi scricchiolii.

Crocodile purtroppo non è una puntata di per sé brutta, ma è molto fuori contesto se stiamo parlando di Black Mirror: di fatto è un thriller, anche un discreto thriller, ma in cui l’elemento tecnologico è puramente accessorio, e non porta a nessuna riflessione di sorta.

Di fatto, è semplicemente un’invenzione che potrebbe aiutare a sbrigare molte situazioni burocratiche o a fare luce più facilmente su alcune questioni da chiarire, ma alla fine sembra un po’ un ripescaggio di The Entire History of you, ma molto meno graffiante.

Insomma, poco originale, poco Black Mirror.

Hang the DJ

Georgina Campbell e Joe Cole in una scena di Hang the Dj (Black Mirro 4)

Hang the DJ è una puntata che personalmente apprezzo.

Non sono una grande fan delle storie romantiche, ma in questo caso la puntata mi ha colpito per la sua scrittura particolarmente intelligente e mai banale, che riesce a delineare il rapporto fra i protagonisti in maniera simpatica e, soprattutto, credibile.

L’ho trovata un po’ una versione più edulcorata di The Lobster (2015) – da cui potrebbe serenamente aver preso spunto – per raccontare una tecnologia che sarebbe veramente rivoluzionaria se fosse effettivamente messa sul mercato…

Forse l’unica cosa che mi convince non del tutto di questo episodio è il fatto che, più che una puntata di Black Mirror, sembra un episodio promozionale che racconta l’ultima novità di Tinder

Metalhead

Maxine Peake in una scena di Metalhead (Black Mirror 4)

Metalhead è un esperimento interessante.

Però capisco perché molti non l’hanno accolto bene.

Una regia a suo modo sperimentale, sicuramente molto intraprendente nell’uso di una fotografia tutta particolare, che però rende perfettamente le atmosfere cupe e post apocalittiche di questo episodio.

La protagonista è di fatto una novella Sarah Connor di Terminator (1984), che si muove in spazi vuoti e abbandonati, lottando fino all’ultimo non tanto per portare a termine la missione, ma proprio per salvare la sua stessa vita.

E il metalhead ha un character design veramente indovinato.

Ma, nonostante tutti questi meriti, ancora una volta non è Black Mirror.

Sembra più un mediometraggio sperimentale da presentare a qualche festival, mancante proprio di due elementi fondamentali che caratterizzano la serie di cui fa parte: la riflessione sociale e, soprattutto, un world building adeguato a contestualizzare la vicenda.

Anzi, sembra proprio che l’episodio voglia giocare su questo mistero di fondo riguardo al decadimento dell’umanità, lasciando quasi volutamente un’enigmaticità di fondo sulla figura del metalhead, di cui non sappiamo né l’origine, né la funzione…

Black Museum

Letitia Wright in una scena di Metalhead (Black Mirror 4)

Qui assistiamo al vero crollo.

Black Museum vorrebbe essere tantissimo White Christmas, ma ne è totalmente incapace: appare davvero come uno di quei clip show delle sitcom, ovvero un’accozzaglia di brevi storie per tirare insieme una puntata.

E fossero storie interessanti…

Sono solo un ripescaggio poco originale di molto di già visto in Black Mirror, nello specifico San Junipero, White Bear e il già citato speciale di Natale fra la seconda e terza stagione.

E, soprattutto, manca del tutto la critica sociale che rende Black Mirror tale.

Troviamo invece una sequela di invenzioni che sono per molti versi un more of the same l’una dell’altra, e che sembrano più create per scioccare lo spettatore, delle invenzioni di uno scienziato pazzo, più che qualcosa di veramente su cui riflettere.

Oltretutto, dopo tutto quello che si vede nella puntata, il finale è tutto tranne che felice: Nish deve convivere con sua madre nella sua testa – incubo vero – e affigge la stessa condanna ad un personaggio negativo, con un occhio per occhio veramente terribile…

Come se tutto questo non bastasse, ho odiato questo fanservice auto celebrativo.

Insomma, un mezzo disastro.

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Black Mirror 5 – In picchiata

Black Mirror 5 è la quinta stagione della serie creata da Charlie Brooker, per la seconda volta sotto la direzione di Netflix – e si vede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 5?

Sì e no.

Guardatela nel caso non ve ne freghi nulla di Black Mirror e non vi dia fastidio passare da una puntata all’altra di racconti con un sottofondo fantascientifico e futuristico, ma anche con uno spessore molto blando: sostanzialmente, prodotti di puro intrattenimento.

Se state ancora cercando Black Mirror, non lo troverete in Black Mirror 5, dove ormai la linea editoriale ha deragliato in tutt’altra direzione, avendo come punto di arrivo una sconclusionatissima sesta stagione…

Striking Vipers

Pom Klementieff in una scena di Striking Vipers (Black Mirror 5)

Questa puntata è un gigantesco boh.

Striking Vipers di fatto ripesca l’idea di USS Callister – già di per sé non così originale – e la riporta in una storia piuttosto moscia, una rivisitazione poco interessante di una banalissima vicenda di tradimenti.

Come è diventato ormai normale per Black Mirror a questo punto, è un episodio che è piuttosto un divertissement, una variazione sul tema futuristico del tutto mancante di quel mordente, di quegli spunti di riflessione che dovrebbe caratterizzare questa serie…

Smithereens

Andrew Scott e Damson Idris in una scena di Smithereens (Black Mirror 5)

Smithereens poteva essere una puntata incredibile.

Se non fosse un episodio di Black Mirror.

Una storia con una buona costruzione della tensione e del mistero – per così dire – con un attore protagonista straordinario come Andrew Scott, semplicemente perfetto nella parte, ma di fatto sprecato per una puntata così poco ispirata.

Troviamo infatti un messaggio di fondo che, per la serie in cui si trova, è davvero molto debole e scontato, non aggiunge di fatto niente a tante cose che abbiamo già sentito, non amplia la discussione…

Insomma, una storia anche toccante, ma che manca ancora una volta di una riflessione di qualche interesse.

Rachel, Jack and Ashley Too

Miley Cyrus in una scena di Rachel, Jack and Ashley Too (Black Mirror 6)

Nonostante secondo me non sia la peggiore puntata di Black Mirror, è quella che in questa stagione va più fuori strada.

Infatti, Rachel, Jack and Ashley Too più che una puntata di questa serie, mi ha ricordato quelle teen comedy di inizio Anni 2000, alla Big Fat Liar (2002), dove i giovanissimi protagonisti si trovano a dover combattere contro degli adulti molto più forti di loro.

E la cosa peggiore è che, almeno sulla carta, l’idea alla base della tecnologia utilizzata, non era affatto malvagia, anzi: un ritratto cinico e piuttosto verosimile della concezione dello star power, con pop star costruite a tavolino, con un’immagine pubblica da mantenere ad ogni costo…

Il problema in questo caso è stato mettere anzitutto una protagonista adolescente con problemi da adolescente, che di fatto indebolisce fortemente il messaggio complessivo della puntata, riducendola ad un mediometraggio per ragazzi – niente di male di per sé, ma non in Black Mirror.

L’altro errore è aver dato così tanto spazio di manovra a Miley Cyrus, che verosimilmente ha interpretato sé stessa, funzionale per la parte drammatica, molto meno quando deve essere un comic relief veramente fuori luogo per la serie – ma perfetto per il tono della puntata…

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Black Mirror 1 – L’inizio dell’incubo

Black Mirror 1 è la prima stagione della serie ormai iconica nata dalla mente di Charlie Brooker, che al tempo venne trasmessa – così come la seconda stagione – su Channel 4.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 1?

Daniel Kaluuya e Jessica Brown Findlay in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

Assolutamente sì.

Per quanto questa prima stagione non sia la mia preferita, in questo terzetto di episodi racchiude tutto quello che è Black Mirror: futuro lontano, futuro prossimo e un drammatico presente, tutti accomunati da una sottile quanto ancora attualissima critica sociale.

Al contempo, è la stagione con le puntate veramente più disturbanti dell’intera serie, che lasciano un buco nello stomaco per molto tempo…

Ma ne vale la pena.

The National Anthem

La primissima puntata di Black Mirror è già tutto un programma.

Lo scandalo comincia a prendere piede passo dopo passo, seguendo il climax stesso della puntata, mettendo in scena un concetto drammaticamente reale – ancora di più oggi: non puoi fermare il web.

E così bastano nove minuti online che già tutto il mondo è a conoscenza del tuo scandaloso contenuto, ed inutili sono i tentativi di tenere sotto controllo la situazione: è diventato virale e, per questo, inarrestabile.

Rory Kinnear in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

Al contempo, i canali di informazione sono come dei cani sguinzagliati a caccia della notizia, a caccia della preda, pronti a tutto pur di portare a casa l’esclusiva, senza alcun tipo di scrupolo.

Ma tutta la situazione è solo una sceneggiata, volta solo a dimostrare un concetto: basta un video amatoriale caricato su YouTube per distogliere totalmente l’attenzione da tutto il resto, per svuotare le strade, per tenere tutti incollati allo schermo…

15 Millions Merits

Daniel Kaluuya in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

La seconda puntata è anche più scioccante e riesce a centrare veramente il punto.

Guardare 15 Millions Merits è come entrare materialmente all’interno dei nostri schermi – che sia la tv o il cellulare poco importa – e ritrovarsi in un incubo claustrofobico da cui non possiamo scappare.

In particolare, al tempo erano molto popolari – e in parte lo sono ancora – i cosiddetti giochi freemium, che contengono al loro interno potenziali micro-transazioni con soldi reali, camuffate dalla valuta interna al gioco.

Daniel Kaluuya in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

Così i personaggi si muovono in un mondo virtuale e illusorio, dove non è neanche possibile avere accesso alla luce del sole, in cui la loro grigia – letteralmente – e misera esistenza si contrappone in maniera drastica al mondo esplosivo e coloratissimo della tv.

Ma, proprio quando il protagonista trova uno scopo nella sua vita annoiata, fallisce due volte: la prima accompagnando Abi verso un sogno che in realtà è l’incubo dei talent show, in questo caso discarica per arricchire il mondo dei film per adulti.

E, soprattutto, fallisce nell’aprire gli occhi al pubblico, diventando lui stesso un pupazzo, un prodotto da servire nel marasma di contenuti disponibili, con cui asserire mentre si compiono le stesse azioni condannate…

The Entire History of You

Anche se non è la mia puntata preferita di questa stagione, The Entire History of You è quella che più si avvicina a quello che davvero adoro di Black Mirror.

Il grain è un’invenzione che, sulla carta, potrebbe risolvere tantissimi problemi: diventerebbe praticamente impossibile mentire, commettere crimini e rimanere impuniti, e sarebbe molto più facile ricostruire situazioni e dinamiche passate.

Tuttavia, la puntata dimostra molto chiaramente cosa verosimilmente succederebbe a molte persone: diventare del tutto ossessionati dai propri ricordi, andando ad inseguire e a rivivere infinite volte inutili particolari, senza riuscire più a vivere nel presente.

Nel caso di Liam, è il prototipo dell’uomo geloso con in mano un potere che non dovrebbe avere.

Fin dall’inizio si dimostra incredibilmente sospettoso della compagna, e in generale del tutto ossessionato dal rivivere momenti e particolari del suo passato, andando a ricercare i dettagli che confermerebbero la sua teoria: Fi non lo ama più.

E, se potrebbe apparire anche solo vagamente giustificato, dalle parole della moglie scopriamo che Liam ha avuto in precedenza comportamenti assai tossici – come sparire per giorni – che rappresentano proprio la sua volontà autodistruttiva e incapace di ricostruire un rapporto che, forse, poteva ancora essere salvato…

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Black Mirror 2 – Due puntate fanno un cult

Black Mirror 2 (2013) è la seconda stagione della serie nata dalla mente di Charlie Brooker, al tempo rilasciata ancora su Channel 4.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 2?

Assolutamente sì.

Come stagione è un pochino più altalenante rispetto alla precedente, ma gode anche di due episodi davvero grandiosi come White Bear e White Christmas, fra i più iconici dell’intera serie.

Complessivamente comunque tutte le puntate – quale più, quale meno – offrono spunti di riflessione veramente interessanti, mostrando situazioni che, se non sono il nostro presente, rappresentano un futuro più vicino di quanto sembri…

Be Right Back

 Domhnall Gleeson in una scena di Be Right Back (Black Mirror 2)

Be Right Back è forse una puntata in chiave minore di Black Mirror.

Infatti, a differenza dei precedenti episodi – e degli altri di questa stagione – non mi ha lasciato un particolare senso di angoscia, ma più che altro una sorta di rassegnazione e riflessione sul presente e su quello che sarà il prossimo futuro.

Probabilmente con le tecnologie odierne, e con la IA sempre più in ascesa, non sarebbe difficile creare quello che si vede in scena, almeno per la parte scritta e parlata. E probabilmente quello che per questa puntata è il futuro, per noi oggi è il nostro presente.

 Domhnall Gleeson in una scena di Be Right Back (Black Mirror 2)

Certo, le tecnologie odierne non potrebbero portare effettivamente in vita una persona morta con tutte le sue caratteristiche, ma solamente limitarsi a ricostruire una personalità basata su quello scampolo di informazioni che le offriamo.

Tuttavia, se dieci anni fa Black Mirror immaginava una realtà che non è tanto lontana dal presente, quanto ci vorrà perché potremo portare in vita le nostre copie artificiali perfette, praticamente indistinguibili, che vivranno insieme a noi?

E le vorremo ancora chiudere in soffitta come Martha?

White Bear

Lenora Crichlow in una scena di White Bear (Black Mirror 2)

White Bear è uno dei miei episodi preferiti di Black Mirror.

Semplicemente perché riesce a mettere in scena in maniera straziante quanto terribilmente verosimile un problema che, soprattutto oggi, è un germe sociale difficile da sradicare, anzi, è ancora più pericoloso: la gogna pubblica.

È così facile che una persona passi dall’essere il carnefice alla vittima, pur non essendo percepita come tale: dal momento che quell’individuo ha compiuto un’azione errata – di qualsiasi tipo – ci sentiamo legittimati a fare di lui quello che vogliamo.

E così una donna che ha compiuto un crimine così efferato, così ingiustificabile ed inscusabile come rapire, torturare ed uccidere una bambina, non può che essere torturata a sua volta, diventare l’attrazione di un parco tematico.

E non si può non rimanere ammutoliti mentre sentiamo le sue urla disperate di dolore, mentre vediamo come tutti gli attori in scena rimettano ogni cosa al suo posto per il prossimo giro di torture, mentre osserviamo i ghigni degli ospiti che potrebbero facilmente essere i nostri…

The Waldo Moment

The Waldo Moment è una puntata che, a posteriori, fa sinceramente paura.

Già nel 2013 Black Mirror è riuscito a rappresentare fedelmente quello che sarebbe stato il trionfo del populismo da lì a pochi anni, con i capipopolo, le voci fuori dal coro che portavano con sé una grande quantità di voti.

In questo caso Waldo è una marionetta vuota, che non fa altro che dare voce ai sentimenti più bassi dei votanti, che sbarrano il suo nome sulla scheda elettorale solamente per simpatia.

E così si potrebbero potenzialmente trovare con al governo un pupazzo manovrato nell’ombra da chissà quale lobby con chissà quale interesse, nascosta dietro ad un cartone simpatico e irriverente…

Bianco Natale Black Mirror 2

Due anni dopo la seconda stagione, è stato anche rilasciato uno speciale di Natale, che fra l’altro divenne uno degli episodi più di culto della serie stessa.

Di fatto sono tre storie che si intrecciano, in un mondo molto più vicino di quello che potremmo pensare: quanto manca prima che gli smartphone diventino parte del nostro stesso corpo?

E da qui si può implementare una tecnologia che sulla carta potrebbe potenzialmente risolvere il problema dello stalking e rendere effettivi gli ordini restrittivi, senza possibilità di errori.

Nella pratica, si darebbe in mano a persone comuni il potere di cancellare le persone dalla propria vita, anche solamente spinti da un momento di debolezza emotiva, che potrebbe però ad un atto irreparabile…

Ancora più inquietante la questione dei cookie, che mi ha ricordato molto Severance, ma con il concetto di base ha radici più lontane, addirittura in Asimov: i diritti dei robot – o AI che dir si voglia.

Proprio come per Be Right Back, è una tecnologia più vicina di quanto pensiamo, visto che già oggi siamo capaci di dialogare efficacemente con le intelligenze artificiali: il mondo mostrato in questo speciale potrebbe essere dietro l’angolo…