Black Mirror 6 (2023) è la sesta stagione di una delle serie più iconiche della piattaforma, arrivata a ben quattro anni di distanza dalla precedente, con cinque nuovi episodi.
Ecco il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Black Mirror 6?
Possibilmente no.
In attesa di Black Mirror 6, per motivi che non so neanche spiegare, ero sicura che gli autori avessero imparato dagli errori e dalle critiche che avevano ricevuto per la scorsa stagione. Anche perché altrimenti sarebbero risultati ridicoli.
E invece non potevo immaginare quanto grande fosse il loro coraggio.
Questo nuovo ciclo di episodi, molto banalmente, non c’entra niente con Black Mirror: per buona parte sono puntate di scarsissimo valore, riuscendo a salvarsi solamente per il terzo episodio – che sembra quasi Black Mirror – e l’ultimo, che è abbastanza piacevole.
Ma, se amate Black Mirror, passate oltre.
Joan is Awful
Questo episodio è terribile.
Joan is awful è esattamente quello che non volevo vedere da Black Mirror: praticamente una parodia, con un cattivo gusto di rara bruttezza che neanche nei peggiori b-movie dei primi Anni Duemila.
Inoltre, un episodio basato su concetti di una tale ingenuità che solo un bambino o un complottista in pieno delirio potrebbe pensare: non vi devo spiegare io quanto il motivo per cui Joan viene derubata della sua vita sia irrealistico e pretestuoso, vero?
Ma diventa ancora più assurdo se si pensa alla questione di Salma Hayek – o chi per lei: Netflix dovrebbe essere la prima a sapere che produzioni e attori sono vincolati da contratti blindati e compilati pedissequamente dopo intense contrattazioni.
Avrebbe potuto funzionare diversamente?
Se Black Mirror fosse stato sé stesso avremmo potuto avere una puntata alla White Bear o alla 15 milions merits: sarebbe bastato fare un effettivo world building e ambientare la storia in un futuro possibile, come si era sempre fatto…
Loch Henry
A questo punto ho cominciato a chiedermi se stessi ancora guardando Black Mirror.
Di per sé Loch Henry non è una brutta puntata: mi ha convinto molto il montaggio e la regia in certi tratti dal taglio quasi documentaristico, che poi si riallaccia al finale, e che riesce in generale a far immergere piuttosto bene nella storia raccontata.
Tuttavia, non è Black Mirror.
Sembra più che altro una puntata di una serie fra il true crime e il mistery, però neanche particolarmente brillante a livello di scrittura: io non sono mai stata una persona particolarmente intuitiva nello scoprire i colpi di scena dei film, anzi.
Invece in questo caso praticamente dal primo minuto avevo intuito quale sarebbe stato il plot twist finale, e per due motivi: è incredibilmente banale, ed era anche l’unico modo per dare un senso alla puntata, che aveva un disperato bisogno di questo shock finale.
E, se la critica voleva essere la cannibalizzazione delle tragedie, diventata piuttosto di moda negli ultimi tempi, è veramente debole…
Beyond the sea
Finalmente una puntata di Black Mirror.
Anche se…
Solitamente preferisco quando gli episodi sono ambientati in un prossimo futuro – come era tipico della serie nella maggior parte dei casi – ma questi Anni Sessanta alternativi tutto sommato non mi sono dispiaciuti.
Finalmente, un racconto con al centro una tecnologia che, più che soluzioni, si porta dietro le paure stesse del suo creatore.
E devo dire che, anche se il risvolto romantico fra David e Lana era abbastanza prevedibile, comunque è stato costruito in maniera intelligente e funzionale, lasciandoti addosso una sottile angoscia che permea tutto l’episodio…
Il problema è il finale.
Purtroppo, ho avuto la spiacevolissima sensazione che volessero chiudere l’episodio con un colpo di scena sconvolgente, ma che si siano dimenticati di costruirlo a dovere, raccontando in maniera convincente la crescente pazzia di David.
Sarebbe stato molto più interessante sempre un finale aperto, ma con David che uccideva Cliff, magari lasciandolo per sempre a vagare nello spazio, e magari in maniera anche più inquietante viveva la sua vita, all’insaputa di Lana…
Mazey Day
È possibile fare una puntata pure peggiore della prima?
Assolutamente sì, se sei Mazey Day.
Arrivati a questo punto io voglio immaginare – e sperare – che abbiano sbagliato writers room e che questa fosse in realtà la puntata pilota di una serie di terza categoria di Netflix, una brutta copia di Teen Wolf, e che abbiano fatto confusione.
Perché non so veramente con quale coraggio abbiano prodotto questo episodio sotto l’etichetta Black Mirror.
In prima battuta sembra una critica scialbissima e fuori tempo massimo al mondo dei paparazzi, uno dei simboli dei primi Anni Duemila. Poi, sempre con l’idea di lasciare a bocca aperta lo spettatore, diventa un fantasy.
Senza che di fatto questa puntata ci abbia raccontato niente di rilevante, senza che sembri neanche che lo volesse neanche fare. Almeno in Joan is Awful hanno cercato di inserire – pur malamente – un elemento fantascientifico.
Qui neanche quello…
Demon 79
Demon 79 è una puntata effettivamente molto carina.
Mi ha ricordato come toni Shaun of the Dead (2004) e Dirk Gently (2016-2017): una sorta di horror comedy apocalittica, con un umorismo ben dosato e dei personaggi che effettivamente funzionano a dovere.
In particolare, nonostante avrebbe funzionato meglio come un effettivo film, a differenza di Beyond the sea il finale è ben costruito, e il cambiamento – o maturazione diabolica – della protagonista è altrettanto ottimamente raccontato.
E allora qual è il problema?
Ancora una volta, non è Black Mirror.
Nonostante io non sia una fan sfegatata di questa serie, né una purista della prima ora, mi rendo conto di quanto, nonostante in questo caso la qualità sia buona, uno spettatore appassionato si possa sentir preso in giro, e per l’ennesima volta.
Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) è una serie animata di produzione Netflix, scritta e diretta dal fumettista Zerocalcare– la seconda produzione a suo nome dopo Strappare lungo i bordi (2021).
Di cosa parla Questo mondo non mi renderà cattivo?
Un vecchio amico di Zerocalcare torna a Roma dopo una lunga assenza, ma sembra incapace di reinserirsi nel difficile microcosmo del quartiere…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Questo mondo non mi renderà cattivo?
Sì, ma…
Questo mondo non mi renderà cattivo rappresenta un punto di svolta abbastanza importante per la pur breve produzione seriale di Zerocalcare.
Se infatti Strappare lungo i bordi (2021) riprendeva – per toni e soggetto – la sua opera prima, La profezia dell’Armadillo (2012) – con questa nuova serie si passa a tematiche ben più mature della sua produzione più recente.
Per questo il prodotto ha un inaspettato tono ben più politico e attuale, andando a trattare con grande franchezza, nonché con una verosimiglianza quasi dolorosa, tematiche molto forti della nostra contemporaneità.
Insomma, arrivateci preparati.
La cornice narrativa
La struttura narrativa di Questo mondo non mi renderà cattivoè abbastanza simile a quella della serie precedente.
Si racconta infatti ancora una volta un progressivo avvicinamento ad un evento determinante della storia, che però rimane oscuro allo spettatore praticamente fino alla finedegli episodi.
Tuttavia, la cornice narrativa in questo caso èben più solida: l’arresto e l’interrogatorio giustificano effettivamente il perché l’elemento fondamentale della trama rimanga nascosto per la maggior parte del tempo.
E, anche se l’idea che il racconto alla fine sia solo una confessione con l’Armadillo l’ho trovata un po’ debole, il risvolto della scena, dal sapore comico-grottesco, mi ha tutto sommato convinto.
Ricucire i rapporti
Il mondo di Zerocalcare è incredibilmente verosimile.
Quante volte durante la nostra vita ci siamo lasciati alle spalle moltissimi rapporti che si sono improvvisamente spezzati, senza un vero motivo, senza che nessuno sapere quasi il perché, se non che la vita che va avanti…
Da qui il pesante imbarazzo nel tentativo di riconciliazione con Cesare, che ha il suo picco drammatico nella scoperta che il vecchio amico sia in realtà dell’altra sponda, quella da lui combattuta e disprezzata ogni giorno…
Ma il perché è anche peggio…
L’esasperato isolamento
Raccontando il dramma di Cesare, Zerocalcare in realtà ci mostra un problema ben più ampio.
In Italia è presente purtroppo una tristissima realtà per cui determinate categorie sociali – nello specifico i tossicodipendenti e i carcerati – diventano irrimediabilmente degli emarginati.
Anche se intraprendono un percorso, che, in teoria, dovrebbe portare ad un loro reinserimento…
E questo si traduce proprio nella storia di Cesare: andare a rifugiarsi nelle frange politiche più estreme e radicali pur di trovare qualcuno con cui fare gruppo, qualcuno che veramente ci accetti senza giudizi…
Oltre la propaganda
Il dramma di Sara è anche più disturbante.
L’amica, da sempre considerata come baluardo della giustizia e della correttezza, prende una strada del tutto inaspettata, associandosi alle posizioni di quel gruppo sociale che, almeno all’apparenza, è contrastato da tutti.
E le sue motivazioni sono davvero strazianti.
Rimasta per anni reclusa in una sorta di limbo dell’impossibilità di realizzazione personale e lavorativa – estremamente tipico nel mondo del lavoro italiano odierno – si presenta finalmente per lei la prospettiva di realizzare il suo sogno.
Ma subito lo stesso le è strappato via, e per pure questioni ideologiche, che è tanto facile accettare se non vanno a colpirti sul personale, ma che sono ben più difficili da digerire quando mettono un ostacolo a quella piccola vittoria personale tanto agognata…
Tuttavia, Sara si dimostra ancora una volta la più intelligente del gruppo, andando a scoperchiare quella propaganda tossica che allontana l’attenzione dagli effettivi problemi più sotterranei e strutturali.
E, soprattutto, mai risolti.
Questo mondo non mi renderà cattivo finale
A primo impatto, il finale di Questo mondo non mi renderà cattivopotrebbe risultare molto sbrigativo, e non effettivamente conclusivo.
Tuttavia, ripensandoci a posteriori, riesco a capire le motivazioni di questa scelta abbastanza anomala per una narrazione seriale, in particolare mancante di una quasi ovvia riconciliazione fra Zero e Cesare.
Da una parte, penso che Zerocalcare abbia voluto raccontare una storia quanto più vera, tratta dalla propria esperienza personale – che quindi non ha avuto, come comprensibile, un effettivo lieto fine.
Inoltre, questo finale è apprezzabile per la sua onestà: nonostante il gruppo di Zero non sia veramente dalla parte di Cesare per tutta una serie di motivi, sceglie comunque di difenderlo, di fare la cosa giusta.
Questo mondo non mi renderà cattivo fumetto
Se avete apprezzato la serie e volete scoprire l’opera cartacea di Zerocalcare, ecco qualche consiglio.
Se non avete mai letto nulla di suo, vi consiglio in linea generale di andare in ordine cronologico, nello specifico di cominciare proprio dall’opera prima, La profezia dell’armadillo (2012).
Tuttavia, se dopo questo volete esplorare i riferimenti interni alla serie, vi consiglio di leggere – nel seguente ordine – Un polpo alla gola (2012), Macerie Prime (2017) e Scheletri (2020).
Andor (2022 – …) è una serie tv spin-off di Star Wars,prequel di Rogue One(2016) e pubblicata su Disney+ fra le diverse offerte dell’Universo Espanso della saga, ma con risultati piuttosto magri…
Di cosa parla Andor?
Andor è alla ricerca della sorella scomparsa, innescando una serie di eventi imprevisti che lo porteranno a ripensare alla propria vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Andor?
Assolutamente sì.
Ma…
Andor è una di quelle serie che possono dare molte soddisfazioni, ma devono anche essere approcciate con grande pazienza. In particolare, questa serie non gode purtroppo del più robusto degli inizi – anzi.
Ma, dopo aver superato lo scoglio delle prime due puntate, la terza porta ad una svolta consistente che comincia veramente a risvegliare l’interesse, in maniera assolutamente inaspettata.
Da lì, diversi archi narrativi incredibilmente avvincenti.
Ci ho messo un tempo veramente considerevole per riuscire effettivamente ad iniziare la serie perché purtroppo i primi due episodi sembravano non raccontare niente di davvero interessante, ma essere un’introduzione piuttosto lunga che non si capiva dove portasse.
Ed infatti la svolta che avviene alla fine del terzo episodio è assolutamente inaspettata, ma che mette finalmente in moto le vicende, soprattutto introducendo il personaggio più interessante della serie: il misterioso Luthen Lael.
Per questo credo che rilasciare questa serie settimana per settimana sia stato un azzardo: molti spettatori probabilmente non sono stati catturati dal primo episodio e non hanno proseguito.
Ammetto che anche io avrei fatto lo stesso…
L’heist movie
Il primo arco narrativo è l’heist movie.
E mi ha particolarmente sorpreso: quando Andor parla con gli altri membri del gruppo riguardo ai pochi giorni necessari per attuare il piano, mi aspettavo che la storia si sarebbe prolungata per diverse puntate e che questo fosse il focus della serie.
E invece mi sbagliavo.
Questa trama occupa non più di un paio di puntate, seguendo quindi una scansione temporale piuttosto coerente, senza allungarsi più del dovuto. La costruzione narrativa è avvincente e la tensione, sopratutto nell’episodio decisivo, è palpabile.
E non sono rimasta del tutto sorpresa dall’inevitabile carneficina alla Rogue One…
La fuga
La mia trama preferita rimane comunque quella della fuga dalla prigione.
Anche se i motivi per cui Andor viene incarcerato sono per certi versi pretestuosi, è una linea narrativa fondamentale per la formazione del protagonista. Infatti in questo contesto Andor smette di essere il lupo solitario e impara a lavorare in gruppo.
Ma, sopratutto, comprende l’importanza della lotta con l’Impero, che fino a quel momento non aveva sentito come propria.
Infatti la situazione in cui si trova è un’evidente esasperazione della situazione che opprime la galassia tutta, e che necessità di una ribellione.
E si comincia proprio da qui.
Inoltre ho particolarmente apprezzato il personaggio di Kino Loy, interpretato da un Andy Serkis che sono finalmente riuscita ad apprezzare per le sue doti recitative.
Probabilmente perché finalmente assume un ruolo che gli calza a pennello, non tanto diverso da quello di Cesare in Rise of the Planet of the Apes…
È solo l’inizio
La chiusura di Andor è davvero ottima.
Arrivati alle battute finali si capisce finalmente di cosa tratta la serie, anche se si è cominciato a comprenderlo solo passo dopo passo in un mare magnum di storie e personaggi: come nasce la Ribellione all’Impero, da quali sentimenti e da quali emozioni.
Infatti Andor supera quel semplicismo – pur apprezzabile e funzionante – che caratterizzava Una nuova speranza (1977) su questo argomento, che riduceva il tutto ad una lotta fra bene e male dal taglio quasi favolistico.
Al contrario in questa serie la Ribellione si arricchisce di nuovi significati, con una messinscena e delle tematiche che riescono a far sentirci sentire vicini i personaggi e le loro importantissime motivazioni.
Andor
L’altro nato negativo di Andor sono alcuni dei personaggi di contorno.
Benché si tratti di un gusto veramente personale, ci tengo a sottolineare come non tutte le figure che si muovono nella serie le ho trovate veramente interessanti, anzi a volte mi sentivo veramente disinteressata dalle loro sorti.
Dal lato degli antagonisti, ho apprezzato lo sforzo di dare un nuovo volto all’Impero con il personaggio di Dreda Meero, ma la stessa l’ho trovata in ultima analisi un villain abbastanza macchiettistico ed esplorato meno del dovuto.
Per i personaggi positivi, ho trovato veramente eccessivo lo spazio regalato a Bix, l’interesse amoroso di Andor, nonostante sia coinvolta in un racconto di prigionia e tortura piuttosto interessante e innovativo.
Neon Genesis Evangelion (1995 – 1996) di Hideaki Anno è una delle serie tv anime più di culto della storia della serialità giapponese (e non solo). Un prodotto con una gestazione molto complessa, con diversi prodotti successivi e derivativi.
In Italia ebbe diverse versioni di doppiaggio, la prima nel 1997.
Articolo scritto con il prezioso contributo – diretto e indiretto – di Carmelo.
Di cosa parla Neon Genesis Evangelion?
2015, Giappone. Il quattordicenne Shinji Ikari, dopo aver perso i contatti col padre per anni, viene scelto come pilota dell’EVA-01, uno dei mecha dall’origine misteriosa, col solo obbiettivo di combattere gli Angeli…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Neon Genesis Evangelion?
Assolutamente sì.
Ma arrivateci preparati.
Non è un caso che Evangelion sia diventata una serie così tanto di culto: rappresenta un incontro veramente peculiare fra una trama fantascientifica e con diversi momenti d’azione, con una riflessione profonda sulla natura umana.
Infatti, si alternano momenti intensamente riflessivi, non poche volte assai sibillini, a sequenze puramente comiche e di passaggio, che riescono però a rendere la narrazione meno pesante e complessivamente molto godibile.
Cos’è per me Evangelion
A cura di Carmelo
È un esperimento televisivo, una lezione di filosofia e psicologia fatta ad animazione, che a detta del suo creatore tende a trasformare lo spettatore medio passivo, che guarda un determinato programma accettando quello che vede e sente passivamente seguendo l’arco narrativo fatto di causa ed effetto, azione e reazione.
In Evangelion lo spettatore diventa attivo cerca delle sue spiegazioni ed interpretazioni a quello che vede, creando un proprio mondo all’interno dell’anime stesso, oltre a riflettere sulle tematiche profonde che vengono proposte.
Evangelion è una sorta di puzzle.
Qualsiasi persona può vederlo e darne una propria interpretazione. In altre parole, stiamo offrendo agli spettatori [la possibilità] di pensare da soli, in modo che ogni persona possa immaginare il proprio mondo.
Hideaki Anno
Se avrete – come prevedibile – dubbi alla fine della visione, potrete tornare qui.
Troverete tutte le risposte.
Ma ce ne sono un paio a cui posso già rispondere…
Come guardare Evangelion
La visione di Neon Genesis Evangelion non può che – ovviamente – partire dalla serie tv originale, che trovate completa su Netflix (se avete dubbi sul doppiaggio, da qui potete passare alla parte dedicata).
Si compone di 26 episodi della durata di circa 20 minuti, i cui due finali sono stati riscritti in parte dal primo dei film successivi, The End of Evangelion (1997).
The End of Evangelion (1997)
Dal momento che gli ultimi due episodi della serie tv originale vennero prodotti a seguito di un importante taglio di budget, si nota subito l’evidente differenza rispetto al resto della serie.
Si tratta infatti di una coppia di episodi più che altro verbale, con una struttura narrativa per così dire nulla, che racconta principalmente a parole il concetto conclusivo che Anno, il creatore, voleva comunicare.
Quindi è meglio vedere The End of Evangelion?
In generale, sì.
Ma solamente perché è interessante vedere la conclusione vera – o, almeno, come era stata concepita originariamente dal suo creatore. Tuttavia, io personalmente preferisco la chiusura della serie: più immediata e francamente anche più chiara.
Al contrario, questo film (che in realtà sono due episodi più lunghi e uniti in un lungometraggio) è quasi saturo di elementi, volendo mostrare con immagini quello che di fatto il finale di serie racconta a parole, ma con anche diverse aggiunte.
E gli altri film successivi?
A dieci anni di distanza (2007-2021), uscì un quartetto di film chiamato Rebuild of Evangelion.
Gli stessi propongono una narrazione alternativa della storia (per i primi tre) e una conclusione diversa sia dalla serie che da End of Evangelion. Non avendoli visti non so cosa consigliarvi, anche perché le opinioni in merito sono molto miste.
Tuttavia, se questo tipo di progetto vi ispira e volete ancora altro di Evangelion, provate a dargli una chance.
Il doppiaggio di Evangelion
La questione del doppiaggio di Evangelion è tutt’oggi un tema molto caldo.
Quindi cerchiamo di fare il punto.
Il primo doppiaggio (1997)
Il primo doppiaggio italiano di Evangelion venne fatto sotto la doppia direzione di Fabrizio Mazzotta e Paolo Cortese nel 1997, con anche il coinvolgimento di Cannarsi.
Un doppiaggio molto fedele all’originale, che non manca di qualche linea di dialogo che appare un po’ arcaica e forzata, ma nel complesso è molto godibile e rende bene tutti i concetti della serie.
Il caso Cannarsi (2018)
Nel 2018 Netflix acquisì i diritti di tutti i prodotti del brand, e per questo portò un doppiaggio nuovo di zecca, sotto ancora la direzione di Fabrizio Mazzotta e, soprattutto, di Gualtiero Cannarsi.
Ed è qui che il Cannarsiometro impazzisce.
Con questa nuova edizione infatti scoppiò Il caso Cannarsi, per cui fu spernacchiato a destra e a manca da tutti, persino da chi nonsapeva neanche cosa fosse Evangelion – in quanto, oltretutto il problema era presente da anni.
E Netflix corse ai ripari.
Il nuovissimo doppiaggio (2020)
Proprio per via di queste polemiche, Netflix lo stesso anno dello scandalo annunciò un nuovo doppiaggio, che venne pubblicato due anni dopo.
Personalmente considero questo doppiaggio per certi versi più godibile, perché evidentemente più semplice rispetto ad entrambe le precedenti edizioni, ma che rischia anche di andare troppo a semplificare l’opera stessa…
Quale doppiaggio scegliere?
Dopo aver visto la serie sia col doppiaggio originale, sia con il doppiaggio del 1997, per un primo impatto all’opera io vi consiglio il primo doppiaggio – se riuscite a recuperarlo, per esempio un’edizione home video.
Tuttavia, anche il doppiaggio che trovate su Netflix è accettabile.
Ecco un video per avere un colpo d’occhio sulla situazione:
La depressione
Shinji è un protagonista imperfetto.
Viene improvvisamente trascinato in una vita nuova, una missione per cui non si sente pronto, ma che accetta per pena verso Rei, che nel loro primo incontro è ancora in un evidente recupero fisico dopo l’incidente che ha dovuto affrontare.
E infatti il primo contatto è già un trauma.
Ma la bellezza di Shinji sta proprio nel suo essere tremendamente fallibile: è un eroe incredibilmente quotidiano, realistico, in cui Anno è riuscito a raccontare la profonda depressione che aveva vissuto.
Ed infatti il suo percorso racconta l’uscita da questo stato di angoscia.
Lo stato mentale di Shinji può essere meglio spiegato considerando le tesi de La malattia mortale, opera fondamentale della filosofia di Kierkegaard.
Non a caso l’Episodio 16 porta il titolo della suddetta opera -「死に至る病、そして」, ovvero la malattia mortale, e…
In questo caso l’Angelo da sconfiggere è Leliel, la cui realtà fisica è la sua ombra, identificata come Mare di Dirac, che si rifà ad una teoria effettivamente esistente del fisico omonimo: il vuoto fisico è un mare infinito di particelle di energia negativa.
E proprio al suo interno Shinji viene assorbito.
Shinji Evangelion
All’interno di questa realtà parallela, che rappresenta fondamentalmente il Nulla, il protagonista viene costretto a rivivere una serie di eventi che lo porteranno alla disperazione, la malattia mortale, che uccide lo spirito.
E questa disperazione nel suo caso si articola nella sua seconda declinazione secondo Kierkegaard: il disperatamente non voler essere sé stessi.
E infatti Shinji racconta in più momenti nel corso della serie il suo odiare sé stesso, arrivando al punto – soprattutto in The End of Evangelion – di voler fuggire da tutto quello che gli sta attorno – e facendolo effettivamente per ben due volte.
Il suo sopravvivere alla malattia mortale avviene in due momenti: la prima volta appunto nell’Episodio 16, quando viene salvato dalla madre stessa – che poi corrisponde all’EVA-01. La seconda, nel finale – sia della serie, sia del film.
Infatti, in conclusione l’unico modo in cui Shinji può salvarsi è non solo accettare il suo essere, ma anche l’idea che lo stesso è definito dal suo rapporto con gli altri. Un relazionarsi che può avere effetti sia negativi che positivi, entrambi essenziali per la definizione del suo Io.
E infine il nostro eroe grida felice:
Il complesso del riccio Evangelion
Il complesso del riccio è esplicato all’interno della serie stessa nell’Episodio 4, ed è il collegamento fondamentale fra Shinji e il concetto generale della serie.
Secondo questa teoria, formulata dal filosofo Schopenhauer, che due esseri umani si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno l’uno con l’altro. Proprio all’interno dell’episodio, Shinji scappa perché, avendo ferito la sorella di Suzuhara, e si sente ferito a sua volta.
E infatti Misato dice:
Lo stesso capita ad alcune persone: Shinji in fondo al suo cuore è spaventato dal dolore che potrebbe provare e questo lo rende freddo e riservato.
Per questo vaga per la città, e riesce solo parzialmente a ritornare in sé stesso grazie all’incontro con Kensuke, che gli permette di ritrovare il calore umano che gli mancava.
Ma, nonostante tutto, decide comunque di abbandonare la Nerv.
Solo alla fine dell’episodio ci ripensa, facendo un piccolo passo avanti nella sua maturazione, ovvero quello che aveva predetto Ritsuko:
Presto si renderà conto anche lui che crescere in fondo è un continuo provare ad avvicinarsi e allontanarsi l’un l’altro, finché non si trova la distanza giusta per non ferirsi a vicenda.
Schopenhauer Evangelion
Infatti, la risoluzione di questo dilemma in Evangelion è diversa da quella proposta da Schopenhauer: il filosofo tedesco conclude che l’unica salvezza da questa solitudine è ricercare quel calore umano tanto desiderato dentro sé stessi.
Quindi non l’Uomo non bisogno niente di più che di sé stesso.
Invece, secondo la risoluzione di Evangelion, il progetto del Perfezionamento dell’uomo prevede la distruzione dell’individualità e l’unione di tutte le anime per riuscire a colmare quei vuoti causati da questo senso di solitudine insolvibile che condanna l’umanità al dolore.
Ma in entrambi i finali Shinji – e quindi Anno – si oppone a questa visione.
La scelta finale è quella di accettare il dolore che la propria individualità provoca, soprattutto nello scontrarsi con altre individualità diverse: un incontro che può provocare sia gioia che dolore, ma che anche definiscel’Uomo stesso.
E lo spiega bene lo stesso creatore:
È la storia della risoluzione, della volontà di stare insieme agli altri anche se si è bloccati dalla paura di toccare il prossimo, al costo di sopportare una vaga solitudine.
Hideaki Anno
La vendetta?
Come ogni personaggio di Evangelion, anche Misato ha un trauma importante alle spalle.
Sulle prime viene presentato come una donna allegra, quasi comica – e infatti su di lei grava molta parte dell’elemento umoristico dell’intera serie. Tuttavia, i suoi comportamenti così rozzi e disordinati vengono meglio spiegati quando scopriamo il suo passato.
La giovane Misato è infatti l’unica sopravvissuta al Second Impact, salvata proprio dal padre che aveva odiato per gran parte della sua vita. A questo trauma era seguito un periodo di stallo di ben due anni, di totale mutismo.
Ma anche di rinascita.
Infatti, come racconta la stessa Ritsuko:
Ma, per come Misato si impegna a lasciarsi alle palle il passato, lo stesso è sempre in agguato.
Anzitutto, con il suo rapporto con Ryōji.
La donna intraprende una relazione importante con quest’uomo piuttosto affascinante e carismatico, arrivando quasi ad annullare la sua stessa vita – mancando per un’intera settimana da scuola per stare insieme a lui.
Tuttavia, sceglie di troncare la relazione, perché si rende conto di essersi intrappolata nel complesso di Elettra. Infatti, Misato sente di star ricercando il suo stesso padre perduto in Ryōji, sentendosi anche in colpa per essersi approfittata di lui – sempre seguendo il medesimo complesso, che porta anche alla volontà di distruzione del genitore.
Misato Neon Genesis Evangelion
La Misato sul lavoro è un personaggio totalmente diverso.
Forte, autoritaria, in continuo conflitto con Ritsuko, determinata a portare a termine la sua missione: ottenere la sua vendetta contro gli Angeli che gli hanno portato via quel padre tanto amato ed odiato.
Ma riesce anche ad essere la madre di Shinji, una guida ma anche – sempre secondo lo stesso complesso di Edipo – un oggetto del desiderio sessuale del ragazzo.
Il dramma personale
Asuka presenta una caratterizzazione non tanto diversa da quella di Misato.
Anche il Second Children mostra all’esterno una facciata che serve a nascondere ciò che si cela nel suo animo. E, di nuovo, un trauma ha definito la sua personalità: la madre, ormai impazzita, che non la riconosceva, che non la guardava più…
Da cui l’ossessione di Asuka non solo di crescere in fretta, senza mostrare alcuna fragilità, ma di voler continuamente essere vista, riconosciuta come la migliore.
E da questo si sviluppa il conflitto con Shinji.
Per molti versi Shinji neanche capisce il motivo dell’odio di Asuka nei suoi confronti, ma i suoi rimproveri gli rimbombano continuamente nelle orecchie…
Asuka è banalmente gelosa di Shinji, gelosa del suo riuscire così facilmente ad avere tutte le attenzioni, senza di fatto impegnarsi allo stesso modo in cui fa lei – perché gli viene tutto troppo naturale, dal momento che l’EVA è stato costruito su misura per lui.
Infatti, la ragazza rappresenta la terza declinazione della malattia mortale secondo Kierkegaard: la volontà di voler essere sé stessi, ma senza riuscirci. E la sua disperazione aumenta con il diminuire del tasso di sincronizzazione con l’Eva, e, di conseguenza, della sua importanza per la missione della NERV.
Una seconda vita
Rei è il personaggio più enigmatico della serie.
Solo sul finale scopriamo che sostanzialmente si tratta di un essere creato artificialmente, con misto fra la coscienza di Yui e Lilith – con cui alla fine si ricongiunge, andando a creare una versione della madre di Shinji potenziata, che lo accompagna nel suo ripensamento fondamentale.
Ma il dramma di Rei è un altro.
Il First Children vive la prima declinazione della malattia mortale di Kierkegaard: il non essere disperatamente consapevoli di avere un Io. E infatti la ragazza è costantemente alla ricerca di un’identità, che trova continuamente frammentata in più personalità diverse – che in effetti la compongono.
Infatti, Rei è fondamentalmente un mezzo per portare a termine la missione della NERV, un contenitore, un oggetto prodotto in serie, senza una propria identità. E anche per questo desidera la morte, davanti alla prospettiva dell’inevitabile abbandono, una volta che il progetto sarà concluso.
Anche per questo sceglie di legarsi così profondamente ad Ikari: non solo il suo creatore, ma anche l’unico che gli ha dimostrato veramente affetto – come gli occhiali le dimostrano. E, per soddisfarlo, si sottopone del tutto ai suoi ordini, anche deumanizzandosi.
Ma non fino alla fine.
Rei Evangelion
Per questo Shinji e Rei si riescono a salvare vicendevolmente.
Tramite Shinji, il First Children riesce a capire il valore di un legame diverso da quello che lo lega artificiosamente all’EVA, e proprio secondo ancora il paradosso del riccio e la morale complessiva dell’opera: definire il proprio Io tramite il contatto con gli altri.
E infatti nel finale di The End of Evangelion si rifiuta di essere per l’ennesima volta il mezzo di Ikari per ritrovare la moglie perduta, ma sceglie invece di legarsi a Lilith – e quindi e liberare una parte del suo essere originario – per salvare Shinji.
Asuka e Shinji Evangelion
Asuka è il personaggio che più respinge Shinji, ma quello anche da cui il protagonista è più attratto.
Da questo punto di vista, a parte alcuni scivoloni soprattutto in The End of Evangelion, sono rimasta piuttosto soddisfatta dalla rappresentazione di questo lato della personalità del protagonista – quasi inevitabile trattandosi di un adolescente.
Come testimoniato da inquadrature dal sapore fortemente voyeuristico, Shinji scopre la sua sessualità proprio tramite Asuka, in particolare quando vorrebbe baciarla mentre è addormentata.
Ma Asuka è anche il personaggio da cui non riesce bene a prendere le distanze, ferendosi continuamente…
Al contrario il rapporto con Rei non ha alcuna componente sessuale, ma rappresenta invece il desiderio di riavvicinarsi ai genitori.
Prima Ikari – per via dell’importante rapporto che la ragazza sembra avere con l’uomo – e poi alla madre stessa, che ritrova inconsapevolmente proprio nel First Children. Ma alla fine con Rei si crea un rapporto importante, che va oltre a tutto questo.
Anche solo per il gesto di umanità – uno dei pochi – che Shinji riesce a strappare alla ragazza: il sorriso alla fine del sesto episodio.
Il percorso tracciato
Ritsuko è un altro personaggio di difficile lettura.
Apparentemente una donna fredda e distaccata, concentrata unicamente sul suo lavoro, in realtà si rivela a poco a poco come un personaggio che vive nell’ombra dell’eredità materna.
Ritsuko infatti ha un rapporto molto conflittuale con la madre: se da una parte l’ammira come scienziata per le sue incredibili scoperte, dall’altra la biasima come madre e donna.
Ma, altrettanto inevitabilmente, segue il suo stesso percorso, ricalca i suoi stessi errori.
Infatti, diventa lei stessa quella donna distaccata e dedita solamente al lavoro, e allo stesso modo si lascia totalmente rapire dalle ambizioni di Ikari, divenendone il principale agente.
Allo stesso modo vive dell’invidia della posizione di Rei: come la madre aveva strangolato la bambina, così Ritsuko distrugge tutte le copie del First Children.
Ma le due si differenziano sul finale.
Se infatti Naoko sceglie di arrendersi davanti all’abbandono di Ikari, togliendosi la vita, al contrario Ritsuko sceglie di andarsene col botto, portando con sé tutto quello che ha creato.
Ma alla fine della sua vita deve anche accettare il tradimento della madre: il Magi Casper si rifiuta di seguire i suoi ordini, e dà ancora la vittoria a Ikari.
Il volto rivelatorio
Ikari è un personaggio pieno di contraddizioni.
Inizialmente appare come il totale antagonista, in particolare del figlio, che ha allontanato per anni, e che per la maggior parte del tempo tratta sgarbatamente e con grande freddezza.
Durante la serie viene dipinto sempre di più come il cospiratore nell’ombra, un serpente che ha sempre agito unicamente per il proprio profitto.
Ma la sua umanità sta proprio in Shinji e Yui.
Ikari evidentemente aveva avvicinato la futura moglie per approfittarsi della sua posizione, ma col tempo, inevitabilmente, si era legato indissolubilmentea lei.
Al punto di fare qualsiasi cosa per riaverla al suo fianco.
Il trauma della perdita del suo unico amore è infatti stato rivelatore del significato e del peso che hanno le relazioni con gli altri, soprattutto quelle importanti.
E per questo ha allontanato Shinji: è consapevole che la sua vicinanza col figlio riporta alla luce domande sulla moglie a cui non vuole rispondere, è così del fatto che un rapporto così importante come quello col figlio gli porterebbe gioia, ma anche tanto dolore.
Tale padre, tale figlio insomma.
Da notare anche il suo cambiamento fisico: se nel passato era un uomo che stava sempre a volto scoperto, con dei lineamenti che già di per sé raccontavano la sua natura insidiosa, nel presente è invece una figura nell’ombra i cui occhi, specchio dell’anima, sono spesso celati…
E l’unico affetto che davvero si concede è quello verso Rei, ma solo perché la vede come il mezzo per riuscire, finalmente, a ricongiungersi con Yui.
L’eredità di Evangelion
A cura di Carmelo
Il 4 ottobre 1995 viene trasmesso su Tokyo Channel 12 alle 18:30 il primo episodio di Neon Genesis Evangelion, una serie che si rivelerà rivoluzionaria e innovatrici per il genere.
Fra le innovazioni più importanti, vanno citati i numerosi riferimenti religiosi, filosofici e psicologici, una profonda introspezione psicologica dei personaggi, portata avanti tramite diversi monologhi interiori dei protagonisti e i momenti di calma e silenzio.
Gli stessi sono molto importanti, come ricorda Makoto Shinkai, autore nipponico ancora in rampa di lancio per Your Name (2016):
Ma l’ innovazione più importante di Evangelion è stata di inaugurare un nuovo e duraturo periodo fertile per l’animazione televisiva indicato con il termine di nuova animazione seriale giapponese.
In particolare, ha portato ad una maggiore autorità dei produttori, una concentrazione delle risorse in un minor numero di episodi, un’impostazione registica più vicina alla cinematografia dal vero.
E infine ha portato anche ad un drastico ridimensionamento del rapporto di dipendenza dai soggetti manga e ad una maggior libertà dai vincoli del merchandising (inteso come fonte d’ ispirazione obbligatoria).
Tuttavia, nonostante l’incredibile successo della sua opera – anzi, forse proprio per quello, Anno nel 2006 affermò:
L’opera innanzitutto visiva nota come Evangelion è stata realizzata assecondando desideri diversi. Il desiderio di ricollegare l’animazione giapponese, in rovina, alle sue origini. Il desiderio di abbattere il dilagare della chiusura d’animo.
Ho riflettuto sulla ragione di rivolgersi, oggi, ad un titolo del passato, di oltre 10 anni fa. Sento che Eva ormai è vecchio.
Ma negli ultimi 12 anni non ci sono stati anime più nuovi di Eva.
E con queste parole presento la Rebuild of Evangelion.
In realtà, ad oggi possiamo modestamente affermare quanto si sbagliasse: basta guardarsi indietro per vedere quanti prodotti televisivi anime di altissimo livello siano nati sotto l’influenza di Evangelion, che ha contribuito alla maturazione del genere.
Tutte le risposte alle domande più frequenti sul Neon Genesis Evangelion.
Cos’è successo durante il First Impact?
Il First Impact avvenne in un momento indefinito del passato, quando la Luna Nera si schiantò sulla Terra, precisamente nell’odierno Giappone. La stessa era stata inviata dalla Prima Razza Ancestrale, entità extraterrestri, avanzatissime tecnologicamente, e creatrici di vita.
La Luna Nera conteneva Lilith, uno dei Semi della Vita, entità extraterrestri inviate appunto dalla Prima Razza Ancestrale per portare la vita su diversi pianeti nell’Universo.
Ma l’arrivo di Lilith non è stato altro che un errore, perché sulla Terra era già presente un altro Seme della Vita, Adam.
Quest’ultimo venne neutralizzato tramite la Lancia di Longino, non potendo così procreare una progenie, cosa che fece invece Lilith: la sua progenie sono i Lilin, le creature della Terra, fra cui gli umani.
Chi sono gli angeli?
Generalmente parlando, gli Angeli di Evangelion sono i figli di Adam, che tornano sulla Terra e la attaccano per riottenere il possesso della stessa.
A questo fine vogliono rientrare in contatto con Lilith.
Per questo l’obbiettivo degli Evangelion è quello di distruggere gli Angeli ed impedire loro di compiere la loro missione – ovvero causare il Third Impact.
Cos’è successo durante il Second Impact?
Il Second Impact avvenne il 13 Settembre 2000 in Antartide, e fu il risultato di un esperimento guidato dal Dr. Katsuragi, il padre di Misato, finalizzato al risveglio di Adam – il gigante di luce – e al suo contatto di quest’ultimo con DNA umano.
Di fronte all’imminente catastrofe, gli scienziati riuscirono a neutralizzare nuovamente Adam tramite la Lancia di Longino, riducendolo allo stato embrionale.
Ma era troppo tardi.
Le conseguenze furono terribili: scioglimento della calotta polare, un improvviso spostamento dell’asse terrestre, innalzamento del livello dei mari e conseguente cambiamento delle stagioni – in Giappone, un’estate eterna.
Tutti i partecipanti alla missione morirono, si salvò solo Misato Katsuragi salvata dal padre, mentre Gendō Ikari riuscì a scappare per tempo portando con sé tutti i materiali dell’esperimento.
Cosa sono gli Eva?
Gli EVA sono dei giganteschi automi da combattimento antropomorfi, creati grazie agli studi della Dr.ssa Yui Ikari, sotto la guida della SEELE, al fine di combattere gli Angeli e portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.
Con l’eccezione dell’EVA-01, che è creata da Lilith, tutti gli EVA sono creati a partire da Adam. Anche se apparentemente sembrano dei robot giganti senz’anima, nel corso della serie si scopre che in realtà sono delle creature organiche, la cui armatura che li ricopre soffoca la loro volontà.
La stessa si libera quando l’EVA entra nella Modalità Berserk, e prende il sopravvento sul pilota, agendo autonomamente.
Chi è Rei Ayanami?
Rei Ayanami è il First Children e pilota dell’EVA-00.
Anche se viene presentata come la figlia di una conoscente, in realtà si sa poco sul suo passato: è sicuramente un essere artificiale, creato da quello che rimaneva dopo l’assorbimento di Yui Ikari dall’EVA-01 e da Lilith, con cui si ricongiunge in The End of Evangelion.
Il personaggio ha tre incarnazioni: Rei I, la bambina che si vede nel flashback, uccisa da Naoko Akagi nel 2010; Rei II, il personaggio che si vede nella maggior parte della serie; Rei III, dalla seconda parte dell’Episodio 23 fino al finale.
Cos’è la NERV?
La NERV è un’organizzazione creata dopo il Second Impactper combattere gli Angeli, essendo quindi responsabile della creazione degli Evangelion.
Per quanto sia sulla carta sotto il controllo delle Nazioni Unite, in realtà agisce in maniera abbastanza indipendente, in parte controllata dalla SEELE, col fine di portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.
La NERV deriva anche da un assorbimento della Gehirn, organizzazione sempre nata dopo il Second Impact e responsabile della creazione dei Magi.
Cos’è la SEELE?
La SEELE è un’organizzazione segreta che lavora alle spalle della NERV, in parte controllandola e finanziandola.
La teoria alla base dell’organizzazione è che l’Umanità la stirpe sbagliata, in quanto nata da Lilith, mentre la vera stirpe che dovrebbe dominare la terra è quella dei figli di Adam, quindi gli Angeli.
Per questo lavorano ad un unico obbiettivo: il Perfezionamento dell’Uomo.
Cos’è il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo?
Il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo è l’obbiettivo segreto portato avanti dalla SEELE con l’aiuto della NERV.
Il fine ultimo di questo progetto è riuscire ad unire tutti i figli di Lilith, i Lilin – quindi l’umanità – nell’uovo di Lilith come un unico essere, così da portare ad un perfezionamento appunto dell’uomo, per colmare i vuoti del suo animo derivanti dall’individualità.
Cosa succede nel finale?
Esistono due finali di Evangelion: quello della serie e quello di The End of Evangelion – anche se per molti tratti sono simili.
Nel finale della serie tv i due episodi sono un momento di riflessione per tutti i personaggi, in particolare per Shinji: distrutto dopo aver ucciso Kaworu Nagisa, sente di odiarsi e voler scomparire.
Tuttavia, riesce in ultimo ad accettare di vivere in un mondo popolato da altre persone, le cui relazioni potrebbero anche ferirlo, ma che sono essenziali per definire la sua identità.
The End of Evangelion spiegazione
The End of Evangelion è più complesso.
La NERV ha sconfitto tutti gli Angeli, ma la SEELE scopre il tradimento di Ikari – che non vuole portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo come da loro richiesto – e quindi manda l’esercito per sterminare la base, in particolare i piloti degli EVA, e prenderne possesso.
Asuka combatte i nuovi EVA, riuscendo inizialmente a vincere, ma poi venendo sopraffatta. Shinji, distrutto dalla morte di Kaworu Nagisa, viene trascinato e messo in salvo da Misato – che muore nel tentativo – e sale sull’EVA-01.
Mentre gli EVA riescono a sconfiggere l’EVA-01, Rei si rifiuta di seguire il piano di Ikari – quello di fondersi con lui – e invece si fonde con Lilith, che diventa un essere gigantesco con le sembianze di Rei, che assorbe Shinji al suo interno.
A questo punto, contro i piani della SEELE, Shinji può decidere l’andamento del Piano di Perfezionamento.
Shinji desidera a questo punto che tutti muoiano, compreso sé stesso, ma viene aiutato nel suo processo di consapevolezza dall’anima di Yui contenuta dentro l’EVA-01, mentre le anime di tutta l’umanità si sono fuse in un’unica entità.
Quando Shinji accetta infine di vivere in un mondo popolato da individualità diverse – quindi rifiutando il Perfezionamento – gli EVA diventano di pietra precipitano sulla terra, mentre l’EVA-01 si smembra e si dirige verso lo spazio con l’anima di Yui.
Infine, Shinji si risveglia sulla spiaggia insieme ad Asuka, tenta di strozzarla, ma la mano della ragazza sulla sua guancia – primo gesto di vero affetto – lo fa scoppiare a piangere ed allentare la presa.
Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+ di genere thriller. Come sempre, un ottimo prodotto seriale, che Apple non sembra voler far conoscere al mondo…
Di cosa parla Black Bird?
Jimmy è uno spacciatore arrogante e spocchioso, che viene condannato a 10 anni di galera. E il suo biglietto d’uscita è particolarmente salato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Black Bird?
Assolutamente sì.
Black Bird è un thriller piuttosto atipico, che affronta diversi temi, fra cui un problema molto attuale negli Stati Uniti (e non solo): l’incubo delle carceri, che si sente in tutta la sua drammaticità.
E la prigione che diventa lo sfondo claustrofobico di un gioco fra le parti, retto da due attori di grandissimo talento, per una storia che riesce a tenerti col fiato sospeso fino all’ultimo…
Insomma, da recuperare.
La maschera
Inizialmente Jimmy è un insopportabile arrogante, che pensa di avere sempre una via d’uscita e di poter fregare chiunque con la sua nota furbizia.
E infatti nel carcere, dopo appena sette mesi, lo troviamo perfettamente ambientato, a capo di un discreto, ma funzionante commercio interno.
E questa stessa arroganza la userà anche per smascherare Larry, cercando di prendere il posto del fratello.
Il protagonista diventa infatti quasi un alter ego di Gary: superiore al fratello per fascino e sfrontatezza, ma comunque profondamente disturbato dal comportamento quasi bestiale che l’uomo rivelacol tempo.
E, come alla fine il fratello maggiore di Hall ammette di non avere la forza di controllare Larry per tutta la vita, Jimmy perde del tutto il controllo davanti alla vera natura del suo fratello acquisito.
Non lo faccio per voi
Se inizialmente lo smascheramento del killer era solo il biglietto di sola andata per uscire di prigione, non ci vuole molto perché i segreti di Larry diventino insostenibili.
Sulle prime Jimmy gioca a fare il gradasso, il cool guy che la sa più lunga di tutti e che sminuisce persino il ragazzo strambo, ma tutto sommato innocuo, accondiscendendo le sue parole per farlo confessare.
Ma quando Larry comincia veramente a rivelare quanto sia visceralmente malvagia e disturbata la sua mente, è il momento in cui Jimmy comincia davvero a crollare.
Una faccia di bronzo alla luce del sole, un uomo terrorizzato nel segreto della sua cella.
E allora passa alla mossa finale, la più difficile che permette veramente di far del tutto svelare la natura di Larry: mettere in dubbio la veridicità della sua storia. Un’accusa insostenibile per un individuo che ha inseguito tutta la vita il desiderio di riconoscimento sociale.
E anche se Jimmy prova a portare Larry, in un ultimo, disperato tentativo, sulla giusta via, capisce infine che è impossibile. E allora perde il controllo.
Ma la bestia vera si deve ancora rivelare…
La bestia sopita
Larry è il lupo travestito da agnello.
Apparentemente è un uomo solo, con le sue stramberie e i suoi peculiari comportamenti con le donne – e non solo – ma fondamentalmente innocuo.
In realtà i confini della sua follia non sono neanche concepibili: che la sua violenza per le donne derivi da una personalità multipla, da una concezione dell’altro sesso coltivata negli ambienti sbagliati o dai traumi infantili, non è dato a sapere.
Sappiamo solo che la sua apparente mansuetudine è del tutto ingannevole: Larry è una bestia incontrollabile, solo apparentemente sopita, che non ha il minimo rimorso per la sua condotta, anzi arriva proprio a giustificarla…
The Last of Us (2023 – …) è una serie tratta dall’omonimo videogioco, di cui condivide showrunner e creatore – Neil Druckmann. Un elemento che è stata la forza e la sconfitta della serie…
Nonostante evidentemente non ci fosse sicurezza al riguardo, The Last of Us è stata una serie da record: se si guardano gli indici degli ascolti, gli stessi sono raddoppiati nel corso della messa in onda degli episodi.
Di cosa parla The Last of Us?
Un virus parassita si diffonde all’improvviso, a macchia d’olio, distruggendo la società dalle fondamenta. Vent’anni dopo, ancora non si trova una cura e il mondo è a pezzi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale pena di vedere The last of Us?
In generale, sì.
Non ho (ancora) giocato al videogioco, ma la mia ignoranza non mi ha portato alcun reale problema: la storia è perfettamente fruibile anche senza avere la minima idea del mondo di gioco, forte anche della fedeltà e della coerenza delle trame raccontate rispetto al prodotto originale.
Tuttavia, non manca di difetti e potrebbe essere meno attraente di quello che il trailer suggerisce: di fatto è un road movie, concentrato più sulle relazioni fra i personaggi che sul mondo di gioco, con un focus molto forte sui suoi protagonisti
In più – ed è il principale problema – non ha una narrazione effettivamente organica, ma piuttosto episodica. Insomma, non aspettatevi una grande serie con una storia unitaria di zombie, ma piuttosto un buddy movieambientato in un mondo post apocalittico, cadenzato con la cosiddetta avventura della settimana.
Insomma, apprezzabile, ma da approcciare con la giusta forma mentis.
Un inizio troppo vicino
L’inizio di The Last of Us è forse la parte più azzeccata.
La serie si apre con una sequenza che getta le basi per farci comprendere la natura dei fungi e quindi dell’epidemia che presto prenderà piede. Segue una lunga sequenza dedicata a mostrarci i personaggi nel passato, che vivono la loro vita ignari di quello che sta già succedendo intorno a loro.
Con una tensione palpabile e perfetta per trenta lunghissimi minuti.
E poi tutto crolla: in un attimo la società è distrutta alle fondamenta. Non ci sono più uomini o donne, non ci sono più esseri umani, ma solo potenziali infetti. E capiamo – e sentiamo – profondamente il trauma di Joel…
E il salto in avanti di vent’anni riesce, in pochi minuti, a raccontare perfettamente quanto la situazione sia persino peggiorata: un innocente bambino viene accolto in una QZ, ma è infetto. Nella scena successiva lo troviamo nella pila di cadaveri che Joel sta raccogliendo…
E quei cartelli di avvertenze su come comportarsi vi ricordano qualcosa?
Costruire una relazione
Il cuore della narrazione è la relazione fra Joel e Ellie.
Spesso il resto della storia viene sacrificato per dare sempre maggior spazio al costituirsi del loro rapporto. Rapporto che, soprattutto sulle prime, è fortemente antagonistico: Joel vive Ellie come un peso.
Infatti l’uomo è stato indurito dalla vita, dalla morte della figlia e dai venti durissimi anni dove ha visto il mondo crollare. E infatti la loro relazione si costruisce a poco a poco: per un terzo degli episodi Joel tratta la ragazzina anche piuttosto sgarbatamente, cercando di domare la sua sfacciataggine.
Ma Ellie è un personaggio talmente frizzante e piacevole che per Joel è impossibile non affezionarsi e ritrovare in lei la figlia perduta. E, il misto di piccoli momenti che strappano una risata inaspettata – le terribili barzellette – e delle grandi sfide davanti alle quali i protagonisti vengono messi, costruisce un rapporto importante ed intenso.
E questo è possibile soprattutto per i due attori protagonisti.
Anche senza conoscere il videogioco, posso sicuramente dire che Pedro Pascal e Bella Ramsey siano stati due ottimi protagonisti, che sono riusciti a portare in scena una coppia intrigante e in continua evoluzione, per quanto opposta nel carattere.
Ma l’importanza della loro storia è anche parte del problema.
Un mondo senza pericoli
La totale centralità della loro relazione è soffocante per tutto il resto.
Non che manchi in realtà un buon world building: vengono raccontate le varie facce di questo nuovo e spietato mondo post apocalittico, frantumato in piccole comunità che pensano solo a se stesse, per cui il resto del mondo è il nemico.
Tuttavia, si sente la mancanza di una minaccia.
Gli infetti ci sono e quando ci sono sempre terrificanti, rubano la scena persino ai protagonisti, in particolare nel picco del quinto episodio, con la terrificante orda che azzanna, distrugge e smembra tutto quello che gli capita a tiro.
E gli attori degli infetti sono stati veramente ottimi.
Tuttavia la loro presenza è troppo sporadica: manca un numero sufficiente di scene che riesca a giustificare la continua tensione che dovremmo provare quando i personaggi escono dalle zone sicure.
Anzi, spesso viene anche detto che in determinate luoghi gli infetti non ci sono proprio…
La mancanza di organicità
The Last of Us sembra voler raccontare una storia unitaria e un viaggio piuttosto lineare, con alcune deviazioni lungo il percorso.
Tuttavia, manca di un’effettiva organicità.
Ci sono fin troppe puntate in cui il viaggio si ferma per fin troppo tempo, con episodi che non sono semplici deviazioni, ma intere storie a parte o occasioni per approfondire meglio la psicologia dei personaggi.
Nonostante molte di queste storie siano indubbiamente interessanti e introducano personaggi indimenticabili – fra cui la bellissima storia di Bill e Frank – al contempo rovinano inevitabilmente il ritmo della storia principale, che risulta eccessivamente spezzettata e troppo sbrigativa in alcuni snodi cruciali.
Lo svolgimento sembra voler portare una storia unitaria e completamente focalizzata sul mondo e soprattutto i protagonisti, ma al contempo si perde appuntoin molte altre storie tangenziali. Non sarebbe stato per questo più onesto portare una serie con una struttura verticale – ovvero episodica – senza sforzarsi nell’altro senso?
Il finale
Il finale di The Last of Us è stato molto discusso.
Si è criticato soprattutto il minutaggio troppo ridotto per portare in scena un momento così importante della storia di Joel e Ellie. Personalmente io ho trovato la durata dell’episodio più che giusta, e non ho sentito il bisogno di avere a disposizione più tempo per raccontare questo importante momento conclusivo.
Al contrario, accolgo la critica circa la mancanza di introduzione di questo finale: niente nell’episodio precedente racconta l’approcciarsi ad una conclusione – e sarebbe bastato veramente poco. E l’episodio stesso non sembra una conclusione, se non quando effettivamente i protagonisti arrivano al punto di arrivo.
Tuttavia, ho trovato estremamente interessante il dubbio morale che il finale vuole trasmettere: stiamo dalla parte di Joel o la sua è solamente una scelta egoistica? Un tema che sarà indubbiamente esplorato nella seconda stagione, e che rivela la precarietà del rapporto fra i protagonisti…
Recensione The Last of Us
Il prezioso contributo di Cristiano (@cristianodalianera), con un’opinione forse non tanto diversa dalla mia, ma sicuramente più colorita…
Il preambolo
L’attesa di The Last of Us era vincolata all’aspettativa, altissima, che il progetto videoludico aveva instillato.
Una videogame action-survival horror tutto trama, con complicate digressioni emotive e un sottobosco di non detto ad arricchire la narrazione. Praticamente Resident Evil diretto da Alejandro González Iñárritu (anche grazie alle suggestioni sonore di Gustavo Santaolalla), cosa poteva andare storto?
Infatti il gioco – uscito nel 2013 – è stato devastante sul fronte pubblico e critica, alzando l’asticella della qualità e diventando, a tutti gli effetti, il canto del cigno della PlayStation 3. Naughty Dog, nella persona dell’ideatore Neil Druckmann, deve aver pensato: ho un prodotto cinematografico fatto e finito!
Ed è partito subito il progetto per un lungometraggio che, in origine, prevedeva la regia di Sam Raimi ed un cortometraggio animato sotto l’egida Sony Pictures.
Ma qualcosa è andato storto.
L’adattamento
Una produzione che ha preso piede con un cattivo auspicio: la critica al casting di Bella Ramsey per il personaggio di Ellie. L’accusa è stata di non essere bella abbastanza per interpretare la protagonista. Su Pedro Pascal un dubbioso assenso: alla fine Joel è musone quanto basta.
Risolto il problema delle facce, bisognava affrontare il problema della storia.
Come affrontare la trasposizione del videogame?
Le vie maestre sono due: quella lunga e quella corta.
La via lunga prevede un approfondimento costante, lo sviluppo di una trama orizzontale complessa, avvincente, appassionante. Una sorta di soap-opera con un substrato di apocalisse che aromatizzi il tutto, lasciando sedimentare l’affetto per i personaggi in una crosta cementizia inscalfibile.
La via breve prevede una serie di episodi dalla trama pressoché verticale, rifacendo shot-for-shot intere sequenze del videogame, ad uso e consumo del videogiocatore incallito (e un po’ tossico) che opera la metà della magia della messa in scena: lo dimo ma non lo famo, e la fantasia dello spettatore ci mette il resto.
Il risultato
Spaparanzati davanti al primo episodio, già assaporavamo la lentezza della costruzione narrativa di una serie di spessore, un lungo viaggio nell’abisso e nella risalita. Una collocazione da manuale per tempi tecnici e narrativi, condito dalla necessaria crudeltà che è ingrediente imprescindibile a far montare la rabbia che ci tiene incollati allo schermo: vogliamo tutto e lo vogliamo ORA.
Il secondo episodio prosegue, un po’ in sordina, ma è preparatorio. Ci sfreghiamo le mani in attesa del bagno di sangue, della fuga rocambolesca, del salvataggio all’ultimo minuto.
Episodio tre: La Casa nella Prateria prepper edition.
Beh, sono scelte narrative. Il review bombing dell’episodio a causa dei temi LGBTQ+ me l’ha fatto stare persino simpatico, anche se realizzato in maniera eccessivamente ruffiana. Vabbè, alla fine ci sta una battuta d’arresto.
Magari non è uscita proprio come uno s’aspettava.
Quattro e Cinque, con uno straccio di orizzontalità, sembrano andare troppo a rilento ed in maniera abbastanza inconcludente. La quinta è tipo la versione tamarra di Zombie di Romero, con un finale wtf che riporta la speranza alla quota di sicurezza.
È il giro di boa – uno pensa – da qui in poi è il delirio.
Episodio sei: latte alle ginocchia feat. cameo del cane Chopper di Stand by me.
Episodio sette: sismance in flashback feat. UNO DI NUMERO infetti. Grossa suspense.
La qualità del prodotto, tecnicamente parlando, è sopraffina.
Inquadrature, sequenze, fotografia, scenografia, recitazione. Tutto, davvero eccellente. La narrativa, presa per singolo episodio, è superiore alla media per tantissimi versi.
Nell’insieme, invece, è sconclusionata e, come dicono quelli bravi, anti-climatica.
La gestione dei tempi, relativamente coerente col singolo episodio, è stata gravemente sottostimata nell’ottica della serialità. Si iniziava a sentire il prurito alle corna dall’episodio tre, che nella prospettiva della serie completa risulta essere una colossale perdita di tempo, preziosissimo tempo da investire nella costruzione del rapporto fra i protagonisti.
E non è stata l’unica.
L’episodio sei è una serie di montagne russe in accelerazione e decelerazione su cose essenziali, se la serie avesse avuto davanti altre dodici puntate. Il tutto si traduce in un filler-spiegone dall’effetto soporifero che ammazza una tensione emotiva già moribonda.
L’inseguimento dei tempi videoludici si è fatto, tra l’episodio cinque e sei, insostenibile. E mentre il giocatore incallito si è esaltato nella riproposizione pedissequa delle sequenze di gioco, lo spettatore medio si infilata schegge di bambù sotto le unghie.
La costruzione del rapporto padre-figlia si risolve in un vortice di frasi fatte e ripescaggio di formule abusate. Il ruolo del cattivo poggia tutto sulle spalle del genere umano – homo homini lupus – che occhei vabbene abbiamo capito.
Gli infetti compaiono quattro volte in nove puntate, livello di pericolosità: li elimina una donna in travaglio con un temperamatite.
Alla fine The Last Of Us si è rivelato un enorme equivoco.
Chi si aspettava il taglio epico del videogame ha dovuto fare i conti con l’assenza della componente interattiva, che trasporta lentamente il videogiocatore nella storia e gode di un lusso che questa serie non si è concessa: il tempo.
Chi si aspettava la narrazione autoriale di La Guerra Mondiale degli Zombi – il libro di Max Brooks, non il film – attraverso gli occhi di due anime perse nella fine del mondo ha dovuto fare i conti con una realizzazione confusionaria e frammentata che pecca nell’unica cosa di cui si senta davvero la mancanza: il tempo.
La conclusione
Una promessa mancata che si divide tra chi la difenderà a spada tratta – Guarda! L’hanno rifatta uguale! – e chi l’ha subita maturando lo spegnimento per ogni forma di entusiasmo.
Personalmente ho ravvisato una fortissima componente riempitiva, sia emotiva che sostanziale, da chi conosceva la trama e chi era pieno di aspettative. In realtà il migliore adattamento da un videogame non c’è stato, e la serie ondeggia fra la mediocrità e la sufficienza.
L’esperimento mentale necessario sarebbe quello di togliere dal prodotto il brand The Last of Us e darlo in pasto allo spettatore qualunque: si toccherebbero vette di disinteresse che sono la cifra di un prodotto tenuto in vita da un pernicioso fungo parassita che assomiglia all’accanimento terapeutico.
Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.
Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante:Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.
E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.
Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.
Perché Watchmen è un’opera fondamentale
Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.
I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.
Una paura vera, reale.
Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroinella società statunitense.
Insomma, prodotti come The Boyse Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.
Il resto, lo lascio alla vostra lettura.
Watchmen di Snyder
Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.
Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:
Iniziare col botto
Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.
È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.
Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.
Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.
Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…
Un casting bello a metà
Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.
Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.
Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.
A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.
Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.
Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.
Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.
E si collega anche il primo grande problema della pellicola.
Attualizzare i costumi?
Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.
Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.
E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.
Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.
L’eccesso
Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).
Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.
In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.
E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.
Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.
Il finale (e oltre)
Il finale mi ha non poco innervosito.
Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.
La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.
Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.
Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.
Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.
La miniserie Watchmen
Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.
E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.
Is this a requel?
Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.
Come Scream 5(2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.
E per me è un ottimo requel.
Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.
Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.
Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.
Il Dr. Manhattan.
Un dio in pigiama
Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.
Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.
E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.
Il problema è il resto del tempo.
Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.
Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.
Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.
Un mistero stratificato
Watchmen è una serie che vive di tensioni.
Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.
Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.
Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.
A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione dinon fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.
Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.
L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.
E privandolo della sua fantastica unicità.
La ridicolizzazione dei villain
Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.
Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.
E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.
Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.
E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.
E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.
Come è giusto che sia.
Costumi terreni
Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.
In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.
Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôlecredibile.
Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.
E già solo il costume è un discorso a parte.
Una rete di riferimenti
La serie è piena di riferimenti al fumetto.
Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…
Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.
Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.
La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.
In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.
Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.
Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.
E spiegare soprattutto il perché.
Serie tv Watchmen
Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.
Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.
Anzi, li si stravolge.
Ma partiamo dai pro.
La sequenza iniziale
La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.
Il razzismo.
Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.
Quindi la serie punta su temi molto attuali.
Seventh Kavalry
Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.
E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…
In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.
Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.
I poliziotti come vigilanti
Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.
Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.
Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.
La scrittura della serie
La scrittura della serie è molto buona.
Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.
Ma non basta.
Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.
Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.
Passiamo quindi ai contro.
L’incoerenza di Laurie
Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.
Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.
Ma non è neanche quello il problema peggiore.
La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.
Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?
Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.
Questo non è Manhattan
La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.
Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.
Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.
Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.
Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.
Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.
Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.
Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.
Dr. Manahttan Watchmen serie
Questo non è il Dr. Manhattan.
Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.
E, soprattutto, non brilla.
Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.
La distruzione di Adrian
Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.
Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.
Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.
Adrian Veidt Watchmen
In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.
E ancora peggio il finale.
Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.
Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.
Cyberpunk: Edgerunners (2022) è una serie tv ispirata al videogioco omonimo – Cyberpunk 2077. La serie è stata distribuita in tutto il mondo da Netflix e, come abbastanza prevedibile, non avrà una seconda stagione.
Un aspetto che ha influito non poco sulla riuscita del prodotto…
Di cosa parla Cyberpunk: Edgerunners?
Nella città autonoma di Night City, dominata dalla criminalità e dalla dipendenza cybernetica, David Martinez è un ragazzo di appena 17 anni che cerca di vivere una vita normale. Un incidente mortale cambierà per sempre la sua vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Cyberpunk: Edgerunners?
In generale, sì.
Per quanto non manchino i difetti, Cyberpunk: Edgerunners è una serie molto piacevole da guardare, con ambientazioni affascinanti e personaggi intriganti, le cui vicende sono raccontate in maniera scorrevole e coinvolgente.
L’unico problema è l’evidente intenzione – o necessità – di comprimere una storia piuttosto lunga in soli dieci episodi da poco più di venti minuti, andando in certi punti a sacrificare la possibilità di essere davvero coinvolti con i personaggi in scena e le loro dinamiche.
Tuttavia, non per questo non è una serie da recuperare, anzi.
Posso guardare Cyberpunk: Edgerunners se non ho giocato al videogioco?
Posso godermi la serie anche senza conoscere il videogioco?
Assolutamente sì.
Ovviamente come tutti i prodotti derivativi, conoscere l’opera originale permette di comprendere più immediatamente quanto mostrato in scena. Tuttavia, personalmente, anche senza aver giocato al videogioco, non ho avuto problemi di fruizione – anche perché la storia è del tutto indipendente.
Un unico avvertimento: la maggior parte della loredel mondo non viene esplicitamente spiegata, ma si possono intendere abbastanza facilmente i concetti raccontati partendo dal contesto.
Un’animazione particolare
I disegni e l’estetica della serie mi sono piaciute a tratti.
I disegni di per sé non mi hanno entusiasmato: come in certe scene erano molto dettagliati e con un character design molto interessante, in altre mi sembravano molto abbozzati e poco poco d’impatto.
Niente da dire invece per l’estetica generale del prodotto: oltre a riprendere – per quello che ho potuto vedere – piuttosto fedelmente il taglio artistico del videogioco, riesce efficacemente a raccontare una città degradata, ma anche piena di fascino, da cui emergono per contrasto i colori accesi delle insegne neon e dei vestiti stravaganti dei personaggi…
Piuttosto particolare la scelta, in alcune scene, di utilizzare una messinscena di immagini immobili, in cui magari si muove solamente il fumo di una sigaretta, mentre si susseguono dialoghi in scena attraverso voci fuori campo. Al contempo, è molto ben riuscita la resa della follia dei personaggi, particolarmente quella di David.
Gli occhi che si sdoppiano, il tratto di matita molto calcato sui tratti del volto, il montaggio psichedelico delle scene: tutti elementi di grande impatto e fascino.
Una storia semplicemente lunga
La storia è piuttosto semplice e prevedibile per certi versi, ma nondimeno piuttosto coinvolgente.
Infatti, il problema principale non è la storia in sé, ma la sua gestione. A posteriori appare piuttosto evidente che si aveva a disposizione un’unica stagione, e per questo si è dovuto raccontare in poco tempo una storia che avrebbe avuto bisogno in realtà di almeno due stagioni.
Infatti, nel corso di appena dieci episodi, conosciamo il protagonista, lo vediamo crescere, diventare capo di una gang, rimanere per sempre segnato dalla morte di personaggi che abbiamo visto per pochissimo tempo…
In particolare, gli elementi per cui sono andati più di fretta sono il personaggio di Maine – che ci viene raccontato in un paio di episodi e che muore a metà stagione – e il rapporto fra David e Lucy. Quest’ultimo è stato l’elemento più problematico, dal momento che molto del coinvolgimento emotivo del finale è legato alla loro relazione.
In un mondo ideale, l’idea migliore sarebbe sarebbe stata di spalmare la narrazione su venti episodi e dividerla in due stagioni, e gettando i semi della relazione con Lucy nella prima stagione e facendola sbocciare solamente in seguito, e al contempo chiudendo il primi ciclo di episodi con la morte di Maine.
Iconici (e non)
Il character design dei personaggi è uno degli elementi che mi ha più convinto della serie.
Tutti i personaggi, anche quelli più secondari e che vediamo per pochi episodi, hanno il loro aspetto particolare e iconico, che li rende subito riconoscibili e davvero affascinanti. Il mio personaggio preferito in questo senso è Lucy, nonostante – come per tutte le altre donne della serie – sia una stereotipo su gambe.
Un aspetto che in realtà un po’ mi aspettavo da un prodotto di questo tipo, dove spesso i personaggi femminili sono stereotipati, oltre ad essere ipersessualizzati in maniera quasi ridicola. In questo caso, la caratterizzazione di Lucy mi ha semplicemente mi ha un po’ guastato il coinvolgimento col suo personaggio – che non mi ha personalmente detto molto – e, sopratutto, con la sua relazione con David.
Ed è un peccato, perché il finale l’ho comunque apprezzato.
La lotta impossibile di Cyberpunk
Ho avuto la fortuna di poter inserire questo piccolo contributo di Matteo, che ha giocato al videogioco e che ha voluto raccontarci il tema portante dell’opera.
“Preferiresti vivere in pace da signor nessuno, e morire vecchio, puzzando di piscio, oppure andartene col botto, profumare di fiori, ma non arrivare al tuo trentesimo compleanno?”
Dexter DeShawn, adagiato sul sedile posteriore della sua auto, aspira profondamente dal suo sigaro ed esala una densa nube di fumo bianco. Il primo incontro con uno dei più celebri fixer di Night City introduce uno dei temi portanti affrontati sia nel gioco sia nella serie: ontologia, come la definisce Dex.
Qual è il posto dell’individuo in una società distopica come quella di Cyberpunk 2077?
Che differenza può fare il singolo contro il potere delle megacorporazioni che, a poco a poco, invadono ed erodono la libertà personale, finché nemmeno la propria mente è un luogo sicuro e non ci si può fidare più neanche della propria memoria?
In un mondo in cui è preferibile rimanere a digiuno piuttosto che andare in giro senza armi all’avanguardia e in cui è comune integrare il proprio corpo con innesti cybernetici finché il sistema nervoso non collassa a causa dell’eccessivo sforzo richiesto per gestirli (dando origine all’inquietante fenomeno della cyberpsychosis), non è difficile immaginare come l’obiettivo di molti non sia sopravvivere il più possibile, bensì vivere più intensamente ed essere ricordati più a lungo.
È questa la vita di molti di coloro che scelgono la via del mercenario (merc), saltando di lavoro in lavoro e rischiando la pelle quotidianamente per guadagnarsi da vivere, facendo il possibile per ostacolare le corporazioni in una lotta disperata.
Mr V Cyberpunk
Ma quella contro le megacorporazioni è una resistenza futile.
Chi le combatte non può sperare di vincere, di sfuggire al loro giogo, ma solo di causare il maggior danno possibile ed essere ricordato dai sopravvissuti per aver trovato una morte gloriosa. Prima di venire catturato da Adam Smasher, Johnny Silverhand riesce a piazzare un ordigno esplosivo nel cuore dell’Arasaka Tower, ma, dopo averla rasa al suolo nel 2023, scopre che un’altra ne ha preso il posto cinquant’anni dopo.
Inamovibile simbolo del potere delle corporazioni che si staglia, nero ed immutabile, contro le sagome colorate al neon che compongono lo scenario cittadino.
David Martinez riesce a liberare Lucy dal nuovo quartier generale del colosso economico gestito da Saburo Arasaka, ma anche lui viene fermato per mano di Smasher. Appena un anno dopo, anche V intraprende la stessa strada, quando il suo destino e quello della corporazione giapponese finiscono per diventare inevitabilmente legati dopo che un lavoro prende una direzione inaspettata.
Tutto ciò che rimane dei più celebri mercenari di Night City è un drink sul menù dell’Afterlife con il loro nome.
His Dark Materials (2019 – 2022) è una serie tv di genere fantasy e avventura tratta dall’omonimo ciclo di romanzi di Philip Pullman, uno dei più importanti autori della letteratura fantastica. La seconda trasposizione, dopo la dimenticabilissima trilogia mancata, iniziata con il film del 2007, La bussola d’oro.
Un esperimento riuscito?
Di cosa parla His Dark Materials?
Ambientato (inizialmente) in un mondo immaginario – che a grandi linee corrisponde ad una Londra di fine Ottocento in stile cyberpunk – la serie segue le avventure della giovane Lyra, una bambina con capacità fuori dal comune…
Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:
Vale pena vedere His Dark Materials?
In generale, sì.
Per quanto il mio interesse per la serie sia leggermente calato col passare delle stagioni, rimane comunque un prodotto veramente di alta qualità, a livello di scrittura, effetti speciali e ambientazione. Ma era difficile fare qualcosa di pessimo avendo alla base un’opera così immensa come quella di Pullman, che fra l’altro è produttore esecutivo della serie.
E la sua presenza è stata fondamentale.
In generale se vi piacciono le storie fantasy che si intersecano profondamente con l’elemento fantascientifico, con mondi immensi da scoprire e con poche sbavature, non ve la potete perdere.
Perché il film di His dark Materials era un disastro
Questa sezione è doverosa, perché non vorrei che alcuni spettatori che non hanno conoscenza dell’opera di Pullman, si lascino frenare dalla cattiva qualità di questa pellicola.
I problemi del film erano di fatto due: la mancanza di aderenza all’estetica dell’opera e la scelta della trattazione del materiale.
Anzitutto, l’estetica del film era incredibilmente e inutilmente patinata, in primo luogo facendo sembrare la protagonista, Lyra, che era una ragazzina ribelle e di origini abbastanza umili, una piccola principessa. Senza contare che hanno cercato di puntare su attori di grido come Nicole Kidman e Daniel Craig, una scelta, in ultima analisi, davvero poco indovinata.
Inoltre – e questo quasi per forza di cose – si è tagliato molto dall’opera originale, confezionando un prodotto di meno di due ore, che arriva a spezzare la trama del primo volume.
Per fortuna si sono fermati – e per forza di cose, dato lo scarso successo.
Da qui in poi farò spoiler stagione per stagione.
La prima stagione di His Dark Materials
La prima stagione copre il primo libro, La bussola d’oro (1995).
Una protagonista diversa
Un elemento che potrebbe un po’ allontanare il pubblico è la poca simpatia di Lyra.
Lyra è in effetti un personaggio complesso, che corrisponde perfettamente alla sua controparte cartacea, e che però è del tutto funzionale alla trama e che la differenzia molto da altre protagoniste femminili di prodotti analoghi.
Non un’insopportabile Mary Sue, ma una protagonista molto determinata, irriverente e coraggiosa, e il cui carattere impetuoso è anche motore delle vicende. E, al contempo, è avventata e per questo spesso fallibile – nella maniera migliore possibile.
Prendersi i propri tempi
Proprio secondo questo stesso ragionamento, Lyra non impara subito ad usare l’Aletiometro (la bussola d’oro), ma ci mette quasi metà della stagione.
Ed è parte di una tendenza complessiva della serie: davanti ad un materiale di base piuttosto corposo, si prende i propri tempi e dedica intere puntate anche ad un unico argomento. È il caso della storia di Iorek e del ritrovamento di Roger, quest’ultimo un primo assaggio che ci porta alla pazzesca penultima puntata, dedicata a Bolvangar.
L’unico momento in cui la serie corre moltissimo è fra la prima e la seconda puntata: nel giro di poco tempo, Lyra salva Lord Asriel e conosce Mrs. Coulter. Non una scelta che mi abbia dato fastidio, anzi piuttosto funzionale a far immergere immediatamente lo spettatore nella storia.
L’indiscutibile superiorità di Mrs. Coulter
Il mio personaggio preferito della stagione è stata indubbiamente Mrs. Coulter, la cui interprete, Ruth Wilson, supera ad ampie falcate l’interpretazione di Nicole Kidman nel film.
Ruth Wilson è proprio il caso di un’attrice che oltre ad essere bravissima, ha proprio il physique du role: appare sempre come una donna infida e macchinatrice, ma anche piuttosto fascinosa.
E infatti è ben rappresentata dal suo daimon: molto bello e affascinante da vedere, ma imprevedibilmente violento e feroce.
E raggiunge il suo apice quando Tony Costa si introduce nella sua casa e lei, con incredibile eleganza e capacità, si comporta esattamente come il suo daimon, a dimostrazione di quanto siano profondamente complementari.
Ampliare il mondo
Il villain principale della stagione – e della storia in generale – è rappresentato dal Magisterium, ben poco esplorato nel film dedicato.
Grave errore, ottimamente superato in questo caso.
Non solo questa diabolica istituzione è raccontata attraverso diversi personaggi, tutti ugualmente iconici e interessanti, ma è anche rappresentato nella sua imponenza e rigidezza attraverso i suoi edifici e interni dalle linee dritte e taglienti, immerse in un bianco e nero molto netto.
Al contempo un altro ampliamento interessante è stato quello di Bulvangar, che va a spiegare un elemento che non era chiarito neanche nel libro: cosa succede ai bambini tagliati?
Il problema di Will
L’unico errore che mi sento di segnalare di questa stagione è la gestione di Will.
Per come sia stato giusto introdurlo più ampiamente già nella prima stagione – nel libro aveva solo un capitolo all’inizio del secondo volume – purtroppo è l’elemento più debole della narrazione.
Durante la visione, come ero incredibilmente coinvolta nella narrazione di una storia dai toni fantastici e avventurosi di Lyra, di contrasto mi interessava davvero poco la vicenda più terrena di Will.
E secondo me non avrebbero neanche dovuto dedicargli tutto quello spazio…
La seconda stagione di His Dark Materials
La seconda stagione copre il secondo libro, La lama sottile (1997).
La materia di partenza
Il materiale di partenza era piuttosto limitato – un libro di meno di 300 pagine, contro le 350 del primo volume e le 450 del terzo.
Tuttavia, questa stagione è ben riuscita ad ampliare la trama in due direzioni: Lord Boreal e Mary Malone
Per quanto mi sia complessivamente piaciuta, è indubbio che la storyline di Boreal serve principalmente per aggiungere materiale alla trama, anche se comunque offre diversi spunti per ampliare i personaggi, sopratutto Mrs. Coulter.
Altro discorso è Mary Malone.
Mary Malone è uno dei miei personaggi preferiti della serie.
Una bellissima introduzione, che poi prende strade altrettanto interessanti nella stagione successiva e serve a rendere meglio il lato più scientifico della storia, andando a contestualizzare ottimamente il discorso della Polvere nel più vicino concetto della Materia Oscura.
E serve anche per dare maggiore tridimensionalità a Mrs. Coulter.
Ampliare il personaggio
In questa stagione il personaggio di Marisa Coulter viene ampiamente approfondito, e vengono anche chiariti alcuni dubbi che erano sorti nella prima stagione.
Si capisce definitivamente che questa donna incredibilmente intelligente ha per tutta la vita inseguito il sogno di essere riconosciuta per quello che era, sempre limitata dal suo essere donna in un mondo dominato dal maschile.
E questo ben si capisce con il confronto con Mary Malone, che rappresenta quello che lei non ha mai potuto essere.
Inoltre, si capisce perché riesce a stare così lontana dal suo daimon: una sfida che si è autoimposta per riuscire a mantenere un controllo su se stessa, diventando così invincibile, riuscendo anche a controllare poi gli Spettri.
Troppo?
Come abbiamo detto per la prima stagione, il personaggio di Lyra può risultare facilmente antipatico.
Ho fatto un po’ fatica ad apprezzarla in questo ciclo di episodi, perché, sopratutto nel rapporto con Will, risulta a tratti veramente sgradevole. Tuttavia, si è riuscito anche a bilanciare questo elemento. Infatti, il personaggio viene costantementepunito per la avventatezza.
Al contempo, nonostante volessero imbastire una trama del tipo enemy to lovers con Will, questo aspetto l’ha un po’ guastata.
Delusione?
Fin dalla prima stagione, per me era chiarissimo che il padre di Will non era morto e che sarebbe stato importante per la serie.
Infatti gran parte di questa stagione è dedicata al suo personaggio, andando a costruire la suspense per il ricongiungimento con il figlio. Tuttavia, lo stesso è veramente troppo veloce, troppo improvviso e si conclude in un attimo, senza che sia stato minimamente esplorato.
Un elemento che ho sofferto veramente tanto, uno dei pochi momenti in cui la serie corre tantissimo, quando avrei voluto almeno una puntata dedicata…
La terza stagione di His Dark Materials
La terza stagione copre il terzo libro, Il cannocchiale d’ambra (2000).
Il primo impatto
Nonostante la qualità sia rimasta sostanzialmente invariata, la terza stagione è stata quella che ho meno apprezzato.
E in parte è dovuto anche al primo impatto che ho avuto.
Ho visto la prima puntata appena uscita, e mi sono sentita molto delusa perché le ambientazioni e le tecnologie utilizzate mi sembravano davvero fuori luogo rispetto a quello che avevo visto finora.
In realtà, guardando nel complesso gli episodi a posteriori, riconosco che si mantenga un equilibrio e una coerenza per tutto il tempo. Quindi forse, alla lunga, mi ha meno coinvolto anche per lo sviluppo delle vicende – davvero lento – che mi hanno catturato di meno rispetto ai precedenti episodi.
La questione degli angeli
Dopo due stagioni in cui avevo adorato ogni elemento dell’estetica e degli effetti speciali di His Dark Materials, gli angeli non mi hanno del tutto convinto.
Niente da dire per le loro versioni immateriali – davvero suggestive – ma non mi hanno convinto nella loro forma umana, per il modo in cui sono truccati e sopratutto per gli occhi estremamente azzurri, che dovrebbero apparire molto strani, ma che a me sono sembrati solo posticci.
Ancora meno mi ha convinto Metatron: per quanto sia interessante la scelta dell’attore – lo splendido Alex Hassell, visto recentemente in Macbeth (2021) – la cui fisicità piuttosto arcigna crea un interessante contrasto con il suo personaggio, nel complesso anche la sua estetica mi è sembrata moltodozzinale.
Peccato.
La bellezza di Mary
La storyline di Mary Malone, sopratutto sul finale, è stata la mia isola felice.
Il suo personaggio e la sua storia li ho trovati davvero soddisfacenti, anche con il piccolo racconto del suo passato che ha reso molto tridimensionale un personaggio già piacevolissimo.
Oltre a questo, assolutamente adorabile il suo rapporto con i Mulefa, di cui impara passo passo la lingua e che riesce infine a salvare, capendo finalmente la questione che l’aveva assillata per tutta la sua vita.
Unica pecca: avrei voluto che fosse raccontato meglio il cannocchiale d’ambra – che non viene mai chiamato così nella serie, anche perché non assume mai quella forma.
Caos
La vicenda di Marisa e Asriel mi è piaciuta a tratti.
Secondo me per certi versi si spinge troppo sull’imprevedibilità e le macchinazioni di Marisa, che cambia continuamente fazione e che, alla fine, pensa solamente a se stessa, pur con un colpo di scena finale piuttosto indovinato.
Al contempo, per quanto mi sia piaciuta tutta la storia di Asriel – il grande assente della scorsa stagione – meno mi ha convinto il suo modo di relazionarsi sia con Lyra che con Marisa: per la prima la costruzione del rapporto è davvero monca, per la seconda i suoi continui perdoni sono troppo poco credibili.
E ad Asriel si lega anche il problema di Will.
Il problema di Will (ancora)
Come per la prima stagione, Will si è rivelato un personaggio molto difettoso, e per più motivi.
Anzitutto, purtroppo, più si andava avanti con la storia e, sopratutto quando si confrontava con Lyra, si vedeva l’abisso di capacità recitative fra i due attori: come Dafne Keen si dimostra molto capace nonostante la giovane età, Amir Wilson non riesce andare oltre a poche espressioni accigliate.
Ed è un grande problema quando è il coprotagonista, se non il protagonista della scena.
In secondo luogo, si dimostra sostanzialmente inutile al piano di Asriel: fino all’ultimo mi aspettavo che uccidesse l’Autorità e che fosse utile al progetto di distruzione del Regno dei Cieli.
Al contrario, la vittoria contro Metatron è per mano di Asriel e Marisa, senza che Will neanche abbia mai parlato con Asriel.
L’amore non costruito
Un altro problema che riguarda Will è la costruzione del rapporto con Lyra.
Da certi punti di vista è un problema a metà: il rapporto fra Lyra e Will non è tanto un amore romantico, ma un amore che verte sopratutto sulla maturazione sessuale dei due personaggi, particolarmente quello di Lyra.
Tuttavia, sul finale si spinge molto l’acceleratore sul dramma puramente romantico, volendo creare una conclusione molto lacrimevole. Purtroppo, complice la costruzione poco vincente e le scarse capacità recitative di Amir Wilson, mi ha coinvolto veramente poco.
Per capirci, mi sono commossa molto di più vedendo Mary che scopriva il suo daimon…
Il finale
Il finale era il mio grande dubbio.
Non ero sicura che volessero ricalcare l’esatto finale del libro – che era davvero tremendo e tristissimo. E invece l’hanno fatto eccome.
Per fortuna hanno avuto quantomeno il buon gusto di ammorbidirlo un minimo, facendo capire che comunque Lyra e Will sono riusciti a vivere delle vite piacevoli e soddisfacenti.
E, sopratutto, hanno tolto la parte più dolorosa del finale: nella serie si dice che comunque Lyra, nel tempo, ha di nuovo imparato a leggere l’Aletiometro. Nel libro lei doveva allenarsi ogni giorno per il resto della sua vita, riuscendo a leggerlo solamente nel giorno della sua morte.
Wednesday (2022 – …) è una serie tv di produzione Netflix, creata da Alfred Gough e Miles Millar, le cui prime tre puntate sono state dirette da Tim Burton. Un prodotto che ha avuto un successo incredibile, sopratutto per il balletto di Jenna Ortega, diventato virale su TikTok.
Ma non è solo questo il motivo della sua popolarità.
Di cosa parla Wednesday?
Wednesday Addams, dopo aver tentato di punire i suoi compagni di scuola quasi uccidendoli, viene espulsa dalla scuola e mandata in un collegio per ragazzi speciali – frequentato, fra gli altri, da sirene, lupi mannari e altre creature magiche. Ma un mistero incombe sulla scuola…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Wednesday?
Dipende.
Wednesday non è sicuramente la serie che mi aspettavo: credevo che mi sarei trovata davanti ad un Le terrificanti – e lo sono davvero! – avventure di Sabrina 2.0, quindi un prodotto molto focalizzato sulle dinamiche teen e con l’elemento trash strabordante.
Invece la serie si concentra principalmente sulla parte mistery e per questo è complessivamente godibile, andando ad ingranare sopratutto nella seconda parte.
Non manca di alti e bassi, comprese le dinamiche teen– che comunque ci sono – a tratti veramente noiose – e ve lo dice un’appassionata del genere teen drama. Il problema più grande riguarda ovviamente Wednesday: se siete appassionati del personaggio e sopratutto dei film degli Anni Novanta, vi sconsiglio di guardare questa serie.
Potreste arrabbiarvi moltissimo.
Un’ottima interprete…
Avevo già ampiamente tessuto le lodi di Jenna Ortega per Scream 5 (2022)
E anche qui non mi ha deluso.
Non era per nulla facile mantenere un certo tipo di espressività e apparente impassibilità per l’intera serie, pur riuscendo al contempo a trasmettere le diverse emozioni per il suo personaggio, sopratutto nei momenti in cui si trova più in difficoltà.
Ma Jenna Ortega non solo ne è perfettamente in grado, ma è anche riuscita a diventare assolutamente iconica nel suo personaggio. Sicuramente essere in abile mani – anche se temporaneamente – come quelle di Tim Burton ha contribuito.
Ma io spero che questa serie sia solo il primo passo di una promettente carriera.
…un personaggio eccessivo
Il problema principale di Wednesday è proprio la protagonista.
O, meglio, la sua assurda caratterizzazione.
Wednesday è un personaggio eccessivo, e da ogni punto di vista: è capace di fare ogni cosa, di risolvere ogni mistero, possiede delle conoscenze inimmaginabili, che vanno ben oltre all’ambito più grottesco e orrorifico che la caratterizzava originariamente.
Ne deriva un personaggio veramente insostenibile – a meno che non ce ne si innamori, ovviamente – una insopportabile so-tutto-io che guarda tutti dall’alto al basso. E, anche più grave, che compie azioni effettivamente criminali e violente, dai cui gli altri personaggi persino si dissociano.
E qui sta il principale problema.
L’importanza della contestualizzazione in Wednesday
Prima di scrivere questa recensione, mi sono guardata il film del 1991, La famiglia Addams, per riuscire meglio a comprendere i problemi del personaggio della serie – che erano in realtà già lampanti anche senza aver visto il film.
Nella pellicola Wednesday è un personaggio secondario della storia, che fa cose strane e grottesche all’interno di una famiglia che già di suo è strana e inquietante.
E funziona per due motivi.
Anzitutto, non esce praticamente mai dal contesto familiare, in cui le sue azioni sono ben integrate e per questo funzionano, anche dal punto di vista comico. Al contempo, non va mai fino in fondo nei suoi progetti violenti – e anche lì sta parte del fascino e dell’ironia del personaggio.
Invece la Wednesday della serie tv, per quanto Netflix ci voglia convincere del contrario, viene messa all’interno di un contesto fondamentalmente normale – nel senso che, se si tolgono i poteri ai personaggi, sono dei normalissimi adolescenti con dinamiche molto classiche.
Al contempo, questo personaggio va fino in fondo nelle sue azioni, in scene davvero al limite del disturbante, che vanificano l’elegante equilibrio che invece caratterizzava il personaggio originale.
Allo stesso modo i suoi genitori non hanno un briciolo dell’iconicità degli attori dei film.
E a questo punto una domanda sorge spontanea…
Perché Wednesday ha avuto così tanto successo?
La risposta più ovvia potrebbe essere perché il balletto è andato virale su TikTok.
In realtà io credo che quello sia solamente la punta dell’iceberg.
Per quanto a me – e magari anche a voi che mi state leggendo – possa dare fastidio la caratterizzazione del personaggio, è proprio ad esso che probabilmente la serie deve il suo successo.
Dopo anni di protagoniste di prodotti teen timide e che devono farsi strada in un mondo nuovo, con questa serie i creatori hanno voluto portare in scena un personaggio incredibilmente potente, senza freni, e nella maniera più estrema possibile.
E infatti allo stesso modo mi viene da pensare che, analogamente al film di Jim Carrey, parte del successo di Wednesday sia dovuto a questo sogno di potenza che rappresenta – e che molto spesso caratterizza l’adolescenza.
Sopratutto se si è stati dei ragazzini emarginati, è facile aver avuto dei sogni di rivincita e di invincibilità verso gli altri, anche a volte andando a spaziare – nella formidabile fantasia adolescenziale – nell’elemento magico e surreale.
E Wednesday può essere, nonostante tutto, un sogno a cui rifarsi.
Da qui, la grande attrattiva del personaggio.
La (non) prevedibilità del mistero
Uno dei motivi per cui Wednesday non è scaduta nelle trame più banali e scontate, è proprio la costruzione di un mistero che, tutto sommato, risulta efficace.
L’elemento teen è infatti molto secondario – e vista la qualità, per fortuna! – mentre al centro della storia troviamo proprio i misteriosi omicidi e tutte le vicende connesse, che si intrecciano anche con l’evoluzione della protagonista.
Da un certo punto di vista il mistero può risultare molto prevedibile: la villain, interpretata da Christina Ricci, lascia un indizio molto evidente fin da quanto appare per la prima volta in scena con i suoi stivali coperti di fango – che saranno poi l’elemento risolutivo del mistero.
Tuttavia, nonostante tutto, qualche elemento non è del tutto prevedibile – quasi fino all’ultimo ho avuto il dubbio su chi fosse l’Hyde, se Tyler o Xavier. E questo anche perchè la serie utilizza una serie di piccoli trucchi per sviare lo spettatore dalla risoluzione.
Dalla passione artistica di Xavier – tratto tipico del mostro secondo il bestiario – fino ai capelli biondi della Dottoressa Kinbott, che ricordano quelli della bambina scomparsa, Laurel Gates, la serie dissemina diverse false piste.
Uno spettatore più esperto potrebbe non lasciarsi così facilmenteingannare
Ma la serie è rivolta ad un pubblico di giovanissimi, quindi va bene così.
La strada più difficile
Una scelta che davvero non ho compreso della serie – anche se forse è dovuto al mio non essere adolescente da un po’ – è questa volontà di andarsi ad incastrare in una rete di relazioni romantiche una più fastidiosa dell’altra.
Oltre alla relazione di Enid, veramente poco interessante, Wednesday è costantemente assillata da due personaggi maschili che le ronzano intorno in maniera anche leggermente viscida, finendo per portarla persino fuori dal suo personaggio.
La cosa più semplice – e forse anche più sensata – sarebbe stata quella di instaurare una relazione fra Wednesday e Enid, anche in maniera non necessariamente troppo sguaiata. Oppure – anche meglio – ma forse è troppo avanguardistico per Netflix – proporre una protagonista asessuale o anche semplicemente non interessata o pronta alle relazioni.
Ma sopratutto problematico appare il personaggio di Eugene.
Come ce lo vorrebbero presentare come il classico ragazzino sfigato che non riesce a farsi notare dalla ragazza di turno, in realtà è un rappresentante di una cultura molto tossica e diffusa anche oggi.
Infatti Eugene sbaglia in primo luogo a non arrendersi davanti al fatto che Enid non sia semplicemente interessata a lui, e continuando ad insistere in maniera veramente problematica. Il picco è in particolare è quando videochiama la ragazzina mentre questa è con Ajax e le chiede, con fare quasi accusatorio, cosa ci faccia lui lì.
Il male che ci hanno fatto certi teen drama è ancora incalcolabile…
Ballo Wednesday
Tornando invece al balletto diventato virale su TikTok, lo stesso ha una storia un po’ particolare, sopratutto per chi non è pratico della piattaforma.
Anzitutto, è piuttosto interessante constatare che la scena nella serie tv ha molta meno importanza di quanto si potrebbe pensare: è un momento simpatico, di passaggio, all’interno di una puntata che parla di tutt’altro.
E sopratutto, contrariamente a quanto pensavo, non è un momento di realizzazione o di rivincita della protagonista, come tipico di questi prodotti.
Ancora più interessante se si pensa che la canzone che è diventata virale del video non è la canzone effettiva della scena: nella serie Jenna Ortega balla sulle note di Goo Goo Muck dei Cramps, mentre nel video diventato virale su TikTok la canzone è Bloody Mary di Lady Gaga.
Ma se guardate la scena, in effetti non potrebbe calzare più a pennello: