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Obi-Wan Kenobi – Un inutile girotondo

Obi-Wan Kenobi è l’ultima serie dell’universo di Star Wars, conclusasi questa settimana. Il terzo prodotto che la piattaforma propone agli appassionati della saga, dopo prodotti discutibili, ma nondimeno di grande successo, come The Mandalorian e The Book of Boba Fett.

Questa serie per me è un clamoroso fallimento, sotto tantissimi aspetti: registico, di scrittura, di coerenza, di distruzione del canon. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Tuttavia la serie ha avuto un enorme successo, e si vocifera già una seconda stagione…

Di cosa parla Obi-Wan Kenobi?

La serie si ambienta fra Episodio III ed Episodio IV (se non sapete di cosa sto parlando, ecco una guida per voi), ovvero nel periodo di apparente ritiro di Obi-Wan. Dieci anni dopo lo scontro con Anakin, lo jedi viene riportato sul campo per il rapimento della giovane Leila Organa, portandolo a scontrarsi con il suo mortale nemico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Guida alla visione

Perché non vedere Obi-Wan Kenobi

Moses Ingram e Vivien Lyra in una scena della serie Obi-wan Kenobi per Disney+

Le motivazioni per perdersi totalmente questa visione sono tanti e vari. Senza andare nello specifico, la serie di fatto non aggiunge niente a Star Wars. Anche se potrebbe sembrare il contrario, Obi-Wan Kenobi costruisce una storia arraffazzonata, senza né capo né coda, che non va ad arricchire il canone, ma, al contrario, a rovinarlo.

Troviamo diverse e terrificanti retcon, che vanno veramente a snaturare il senso della Trilogia Originale stessa. Oltre a questo, la trama è di un ripetitivo insostenibile e si basa solamente su fan service gratuito, e pure mal fatto. E non fatemi cominciare sui personaggi.

Perché vedere Obi-Wan Kenobi

Ewan McGregor in una scena della serie Obi-wan Kenobi per Disney+

Per me Obi-Wan Kenobi è una serie che può piacere a due condizioni: essere irrimediabilmente innamorati della trilogia prequel e godere quando si rimpasta il canone, tutto pur di avere del fan service.

Purtroppo questa è ormai la norma. Tuttavia, se tutto sommato serie come The Mandalorian e soprattutto The Book of Boba Fett vi sono piaciute e siete riusciti a passare sopra a tutto, allora potrebbe pure a piacervi. E magari, arrivando con aspettative bassissime, potreste pure godervela.

Ewan McGregor: crederci

Ewan McGregor in una scena della serie Obi-wan Kenobi per Disney+

Io voglio molto bene a Ewan McGregor ed è un attore che apprezzo molto. Purtroppo negli ultimi anni è entrato in una spirale molto negativa, inanellando un flop dietro l’altro: da Il ritorno al bosco dei 100 Acri (2018) non ne ha imboccata una.

Tuttavia, seguendo comunque da vicino la sua carriera, non ho mai visto un prodotto in cui McGregor non si sia quantomeno impegnato. E questo è anche il caso di Obi-Wan, personaggio per cui ha dimostrato un sincero entusiasmo.

Non a caso nella serie è il personaggio fra tutti più credibile. Tuttavia, in un gruppo di personaggio uno più improbabile e peggio interpretato dell’altro, non era tanto difficile. Nondimeno ammiro la passione che indubbiamente l’attore ci ha messo.

Baby Leila: che belli gli Anni Novanta

Vivien Lyra in una scena della serie Obi-wan Kenobi per Disney+

Baby Leila è stata il mio incubo. Non c’è niente di peggio di quando un prodotto vuole venderti un personaggio in un certo modo, mentre tu lo vivi completamente all’opposto. Il suo personaggio ha risvegliato le mie paure più recondite, in particolare il bambino di Bugiardo Bugiardo (1997), per me l’emblema dei bambini insopportabili dei film degli Anni Novanta.

Leila dovrebbe essere un prequel al personaggio della Trilogia Originale, e già questo è stato un passo falso: forse non ve lo ricordate, ma la recitazione della compianta Carrie Fisher, soprattutto in Una nuova speranza (1977) era insopportabilmente sopra le righe. Quindi provare a mimarne la recitazione è stata un’idea terribile

Oltre a questo, l’attrice in questo caso è obbiettivamente pessima. Potrebbe pure essere che sia stata diretta male, come d’altronde la maggior parte degli interpreti della serie, ma la sua recitazione è davvero scadente. E non giustificabile per via dell’età: vi ricordo che l’attrice al tempo delle riprese aveva nove anni, Jude Hill ne aveva dieci ai tempi delle riprese di Belfast (2021) e i protagonisti di Stranger Things avevano appena undici anni al tempo delle riprese della prima stagione.

Insomma, se si cercano, gli attori bambini talentuosi si trovano.

Reva, non ti ho capito

Moses Ingram in una scena della serie Obi-wan Kenobi per Disney+

Ammetto i miei limiti: non ho proprio capito il personaggio di Reva. Non ne ho capito la storia, il senso, le motivazioni, nulla. Parte come il villain più stereotipato possibile, con una recitazione agghiacciante e con sequenze da far invidia al Goblin di William Dafoe in Spiderman (2001).

Dopo, ne vengono rivelate le (prevedibilissime) motivazioni e da lì per cinque minuti assume un significato, poi si perde totalmente nell’ultima puntata. Non si capisce come abbia in primo luogo capito che il bambino di cui si parlava alla fine della quinta puntata fosse Luke e, più in generale, non si capisce cosa volesse fare e per quale motivo.

Mi dispiace veramente vedere un’attrice che è stata premiata con una candidatura agli Emmy per la sua interpretazione ne La regina degli scacchi appiattita in questo modo nelle mani di una regista davvero incapace.

Dart Vader: ma perché?

Molti fan si sono strappati le vesti nel sapere che Haiden Kristensen sarebbe tornato nei panni di Vader. E non ne ho capito il motivo, visto che l’attore è un riconosciuto cane ed si è fondamentalmente rovinato la vita con la sua interpretazione nella trilogia prequel.

Per fortuna non si vede praticamente mai in faccia, ma riesce comunque a rovinare nuovamente il personaggio con una recitazione corporea per nulla credibile. L’unico che avrebbe potuto aiutarlo poteva essere la storica voce del personaggio, James Earl Jones, che effettivamente lo doppia nella serie.

Tuttavia anche questo povero attore, ormai novantenne, si è rivelato totalmente incapace di tornare nel ruolo. Di fatto Vader sembra nè più nè meno che il cattivo di un videogioco Anni Novanta di Serie B, con un set preimpostato di frasi.

Una scrittura delirante

Insieme alla regia, la scrittura è se possibile il punto più basso della serie. In origine il progetto era di un film con un numero di eventi limitati. Quindi, dovendo fare una serie e non avendo la minima idea di cosa invertasi, si è scelto di duplicare gli eventi.

Così Leila viene rapita due volte, così abbiamo due scontri. E gli errori di sceneggiatura sono incalcolabili: come ha fatto Reva a sopravvivere all’attacco di Anakin? Con quale credibilità nella prima puntata Leila (ricordiamo, una bambina di dieci anni) parla come un’adulta, come la serie stessa sottolinea? Perché nella terza puntata Obi-Wan non è capace di aspettare un paio di minuti l’arrivo del suo contatto? Qual era il motivo di far rapire Obi-Wan nella quinta puntata per poi farlo scappare un attimo dopo? E si potrebbe andare avanti.

Sulla questione delle retcon, non voglio dilungarmi troppo. Mi basta nominare la più grave: per quello che vediamo in Una nuova speranza, non è credibile che Leila e Obi-Wan avessero il rapporto affettuoso mostrato nella serie.

Dare una serie ad un incapace

Prima di cominciare a dire solo il peggio sulla regia, devo spezzare una piccola lancia: ogni tanto azzecca qualche campo lungo con i personaggi in scena. Per il resto, disastro. Deborah Chow non è proprio capace di mettere i personaggi in scena e di farli muovere.

L’esempio più eclatante è sicuramente la puntata quattro nella sua interezza, nella quale Tala continua a comunicare con Obi-Wan e mette fuori gioco diversi personaggi senza che nessuno si accorga di nulla, nella maniera meno credibile possibile. E così Obi-Wan fugge con Leila nascosta sotto all’impermeabile, in un siparietto comico-grottesco che vorrebbe tenerti sulle spine, ma nella migliore delle ipotesi fa ridere.

Per non parlare della ridicola scena dell’inseguimento di Leila nella prima puntata, dove si vede che l’attrice sta effettivamente camminando e quelli che la inseguono fanno così evidentemente finta di correre da far veramente ridere.

Non so chi abbia avuto l’idea di mettere in mano ad una novellina una serie così importante, ma spero che si penta per il resto della vita.

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Stranger Things 3 – Finalmente l’horror

Stranger Things 3 ovvero la terza stagione di una delle serie di maggior successo di Netflix, fu la prima che ebbe il sapore di evento.

Il nuovo ciclo di episodi uscì dopo che i fan erano rimasti a bocca asciutta per ben due anni. E questa volta i Duffer Brothers vollero puntare sul fattore novità, dopo una seconda stagione che, pur ottima, sembrava un more of the same della prima.

In questa stagione invece ci si concentra molto di più sull’entrata dei protagonisti nell’età adolescenziale, proprio nell’estate prima del loro approdo al liceo, con tutte le conseguenze del caso (e non sempre piacevoli).

Ma la novità più importante, ulteriormente confermata dalla stagione successiva, è finalmente la scelta di puntare davvero sul genere horror.

Di cosa parla Stranger Things 3?

Nella terza stagione i protagonisti, ormai adolescenti, si districano nelle loro relazioni sentimentali appena sbocciate, con tutto il dramma che solo l’adolescenza può regalare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Stranger Things 3?

Sadie Sink, Caleb McLaughlin, Finn Wolfhard, Noah Schnapp e Millie Bobbie Brown in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Assolutamente sì.

La terza stagione di Stranger Things è fra le mie preferite, seconda solo alla prima. Sicuramente, se vi è piaciuta la serie fino a qui, non potete perdervi questa terza stagione, che porta grande freschezza al prodotto, smarcandosi dall’atmosfera di Halloween come le prime due.

Inoltre, come anticipato, ci si avvicina definitivamente al genere orrorifico, ispirandosi meravigliosamente alle atmosfere de La Cosa (1982), il principale riferimento dell’intera stagione.

E già questo è tutto un programma.

Top Stranger Things 3

Robin: una scelta vincente

Maya Hawke in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Robin è stata la scelta migliore che Stranger Things potesse mai fare. Per chi non lo sapesse, questa splendida attrice è figlia di Uma Thurman e Ethan Hawke, e questo ci dice già molte cose.

Un personaggio davvero stupendo, che in una sola stagione è entrata nel cuore dei fan dal primo minuto, confermando la capacità dei Duffer Brothers di saper introdurre e creare sapientemente nuovi personaggi, soprattutto femminili.

Robin viene da subito inclusa nella coppia esplosiva di Dustin e Steve, dimostrandosi immediatamente capace e di fatto fondamentale per sciogliere il mistero. Così è adorabile il suo rapporto con Steve: ci hanno illuso per un’intera stagione, introducendo invece a sorpresa il primo personaggio queer (dichiarato) della serie.

Un mistero ben costruito

Il Mind Flayer in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Dopo un tentativo di cambiare rotta nella seconda stagione, in questo ciclo di episodi si è deciso di tornare alle dinamiche della prima stagione, in cui i personaggi scoprono autonomamente un pezzo del mistero, per poi incontrarsi per il combattimento finale.

Ho decisamente preferito che il mistero fosse presente fin dalla prima puntata, così che le trame secondarie, soprattutto quelle teen, non siano così pressanti, ma anzi portino dei momenti importanti della trama. Proprio come nella prima stagione, appunto.

Inoltre, finalmente il personaggio di Billy, che avevo poco apprezzato alla sua introduzione, ha un senso di esistere. E in generale la trama horror l’ho trovata veramente ottima, terrificante al punto giusto, senza mai scadere nello splatter troppo spinto.

La follia dell’adolescenza

Caleb McLaughlin, Finn Wolfhard e Noah Schnapp in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Max dumped me like five times

Per quanto la parte teen sia quella che mi interessa di meno in assoluto, devo riconoscere che, a differenza di come era stata trattata la trama di Nancy nella prima stagione, in questo caso si procede con uno sferzante e quasi folle realismo.

Infatti, è assolutamente credibile che i protagonisti, comunque ancora molto giovani (dovrebbero avere ancora quattordici anni) non riescano a districarsi agevolmente in queste relazioni nuove di zecca.

Anche se, come spiegherò nella parte flop, su alcune cose hanno esagerato, tutto sommato è ben scritta.

La parte più triste è l’altro lato della medaglia, Will.

Indipendentemente da quello che viene rivelato nella quarta stagione, il suo personaggio si sente totalmente tradito dal nuovo atteggiamento dei suoi amici, che sono saltati sul carro dell’adolescenza prima di quanto lui si aspettasse e prima che fosse pronto a sua volta.

L’evoluzione di Eleven

Millie Bobbie Brown in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Per me questa non è la stagione migliore per il personaggio di Eleven. Tuttavia, secondo lo stesso ragionamento di quanto detto sopra, il suo comportamento è assolutamente credibile e realistico.

Lei infatti è sicuramente il personaggio più spaesato dalla sua relazione con Mike, e anche quella che ha il piglio più ribelle fin dalla prima stagione.

Purtroppo, come spiegherò dopo, il suo personaggio è davvero inquinato dalla presenza di Max, ma è quantomeno bello vederla evolversi in strade che non riguardino solamente i suoi poteri.

Oltre a questo, il rapporto con Hopper, per quanto faccia un passo indietro, è davvero esilarante, soprattutto per la scena in cui minaccia Mike. E per questo vi lascio qua sotto i bloopers, gustosissimi soprattutto per la scena appunto in cui Hopper cerca di parlare con Mike e El.

Personaggi secondari esplosivi

Oleh Yutgof e Priah Ferguson in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Come nella scorsa stagione, anche in questa sono stati introdotti (o reintrodotti) dei bellissimi personaggi secondari.

Anzitutto Erica, che era già presente nella scorsa stagione ma che in questo ciclo di episodi è diventata qui molto più protagonista. Io, personalmente, la trovo davvero esilarante. E mi piace molto anche il discorso che lei cerca di essere la cool girl che vuole prendere in giro di nerd, pur essendolo lei stessa.

E alla fine accettando questa parte di sé.

Ma la grande sorpresa di questa stagione è stato sicuramente Alexei, che segue purtroppo la stessa via di Bob nella scorsa stagione: un personaggio chiave, che adori fin dal primo minuto, che raggiunge il suo climax, e viene brutalmente eliminato appena ha concluso la sua funzione.

Flop Stranger Things 3

Max: la difficoltà di portare avanti un personaggio

Sadie Sink e Millie Bobbie Brown in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Per me Max rappresenta il problema principale della stagione: non sapersi dare dei limiti.

Il suo personaggio diventa inutilmente aggressivo e fondamentalmente stupido, facendosi portavoce in maniera del tutto insensata di ideali anche giusti, inquinati dal suo isterismo e dalla sua irrazionalità.

Oltre a questo, il fatto che Max stia sbagliando è evidente da quanto la regia indugi su Mike, che non sa come comportarsi davanti alla sua amica che sbotta cose assurde su come lui non sia a capo delle decisioni di Eleven.

Oltretutto Mike è un personaggio evidentemente positivo, che evidentemente si preoccupa di Eleven e della sua incolumità. E, dopo averla persa già una volta, è del tutto comprensibile. Insomma,

Max è una grande occasione persa di un personaggio introdotto molto bene, ma del tutto appiattito in questa stagione.

Il punto più basso di Nancy

Natalia Dyer in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Non è un mistero che per me Nancy sia la parte più debole di tutto Stranger Things, e in questa stagione raggiunge il suo punto più basso.

In questi episodi è infatti associata ad una dinamica se possibile ancora più ridicola e assurda di quelle di Max, in cui è fortemente bullizzata dalla redazione nel giornale.

Ma, appunto, per la dinamica poco credibile, non sono riuscita né a credere a quello che vedevo né ad esserne coinvolta.

I suoi atteggiamenti li trovo sempre al limite dell’estenuante, perché sembra sempre che faccia le cose non per un obbiettivo, ma per dimostrare qualcosa. Sicuramente è un personaggio in cui tante giovani donne possono identificarsi, soprattutto rendendola (a mio parare in maniera ridicola) la donna forte e protagonista dell’azione.

Non è il mio caso.

Devo piangere?

David Harbour e Winona Ryder in una scena di Stranger Things 3 (2019) serie tv Netflix dei Duffer Brothers

Per quanto la trama di Hopper e Joyce mi sia piaciuta molto, ho davvero mal sopportato, anche se a posteriori, l’apparentemente morte di Hopper, che è stata smentita immediatamente dalla scena post credit dell’ultima puntata.

Mi è sembrata la classica scelta che porta alla lacrima facile dello spettatore, togliendo di mezzo uno dei personaggi più amati della serie, con una costruzione anche abbastanza raffazzonata.

Il mio problema con La storia infinita

Questo non è di per sé un flop, ma una mia confessione.

La scena di Suzie e Dustin che, totalmente a sorpresa, cantano la canzone di La storia infinita (1984), ha fatto impazzire moltissimi.

Purtroppo, non è il mio caso: quel film non è per nulla un cult della mia infanzia. Ed è stato micidiale non trovarsi nel target per una scena che evidentemente voleva emozionare.

La stessa sensazione che si potrebbe provare quando, guardando Spiderman No Way Home (2021), vedere arrivare gli Spiderman di Garfield e Mcguire senza conoscerli per nulla.

Come in tutte le stagioni di Stranger Things, anche questa è piena di riferimenti a fenomeni culturali e sociali del periodo.

Ma in questo caso vale la pena di spenderci due parole.

Il primo riferimento importante riguarda i centri commerciali: l’apertura del nuovo shopping centre a Hawkins diventa la maggiore attrattiva per i protagonisti, ancora di più della Sala Giochi nella scorsa stagione.

Ed è assolutamente realistico: per centri così piccoli come Hawkins, avere a portata di mano un luogo in cui, a poca distanza, si potesse godere di tutti i benefici di vivere in una grande città, era una bellissima ed emozionante novità.

Ma ancora più interessante è inserire la New Coke, un caso studio di marketing fallimentare.

Nell’aprile del 1985 la Coca Cola provò a rilanciarsi cambiando la formula della sua bevanda iconica, scatenando delle asprissime polemiche (le stesse che vediamo nella serie, appunto).

Un esperimento brevissimo: l’11 luglio 1985 (pochi giorni dopo la conclusione della terza stagione) venne ripristinata la formula originale, denominata Coca Cola Classic.

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Stranger Things 2 – Niente cambia, tutto cambia

Stranger Things 2 è la seconda stagione di una delle serie tv di punta di Netflix, cresciuta di pubblico e popolarità nel corso degli anni.

La seconda stagione arrivò a solo un anno di distanza dal primo ciclo di episodi (a differenza delle successive), cercando di proporre qualcosa di nuovo per un seguito che non era stato originariamente veramente pensato.

Non avevo un ricordo del tutto positivo della seconda stagione. Per fortuna ad una seconda visione mi sono dovuta ricredere, apprezzandola quasi quanto la prima.

Tuttavia, questa stagione ha un problema fondamentale: compie un tentativo incredibilmente fallimentare di ampliare la narrazione, dimenticandosi ingenuamente dei suoi punti di forza.

Di cosa parla Stranger Things 2

Stranger Things 2 si concentra su diverse storyline, la cui principale riguarda Will: ad un anno di distanza dal suo terribile viaggio nel Sottosopra, il ragazzino è tormentato da una nuova minaccia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Stranger Things 2?

Noah Schnapp, Finn Wolfhard, Gaten Matarazzo e Caleb McLaughlin in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

In generale, sì.

Se avete apprezzato la prima stagione e se soprattutto vi siete appassionati ai protagonisti, non potete perdervi il secondo ciclo di episodi.

Per quanto in parte sia un po’ la stagione minore di quelle finora uscite, continua a non sbagliare un colpo e ad essere un ottimo prodotto di intrattenimento, colmo di citazioni alla cultura pop e alla produzione cinematografica degli Anni Ottanta.

Se non avete mai visto Stranger Things, che cosa ci fate qui? Ho scritto un articolo apposta per voi.

Top Stranger Things 2

Will: l’inaspettato

Noah Schnapp in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

Non è stato per nulla facile scegliere il mio personaggio preferito per questa stagione.

La mia scelta è infine ricaduta su Will.

Rimasto praticamente fuori scena per la maggior parte nel primo ciclo di episodi, nella seconda stagione diventa quasi più protagonista di Eleven. Ho davvero apprezzato la costruzione della sua storia, temendo davvero per la vita di Will, personaggio apparentemente inerme davanti al Mind Flayer che lo domina.

Inoltre, davvero inaspettata la recitazione di Noah Schnapp, che a soli dodici anni è riuscito a portare una performance veramente convincente e al contempo straziante, utilizzando ottimamente tutte le sue capacità per la recitazione corporea.

Peccato che alla fine della stagione il suo personaggio venga di nuovo messo da parte, tendendo un po’ a dimenticarselo nelle stagioni successive.

Max: the new girl

Sadie Sink in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

Max è la grande introduzione della stagione.

I Duffer Brothers avevano l’arduo compito di portare in scena un nuovo personaggio femminile in un cast ancora principalmente maschile, con il rischio di appiattirla come la ragazza del desiderio dei protagonisti.

Ammetto che Max non è mai stato un personaggio con cui mi sono affezionata, sia perché è una ragazza chiusa e con cui è difficile empatizzare sulle prime, sia perché l’ho poco apprezzata nella terza stagione.

Sadie Sink in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

Tuttavia, Mad Max è un personaggio interessante, che non vuole essere una Eleven parte 2, ma al contrario una ragazzina con un passato tormentato e all’interno di una relazione violenta con il fratello adottivo.

E che è infine capace di mettere i giusti paletti nella loro relazione, dopo una stagione passata ad essere terrorizzata da Bill.

Oltre a questo, ancora vincente la sua relazione con i protagonisti, abbastanza simile per dinamiche a quelle di Eleven: cerca di essere il più possibile realistica e credibile, sia per la sua riluttanza ad entrare nel gruppo, sia per la sua incredulità rispetto al Sottosopra.

Dustin, Steve & Dart

Joe Keery e Gaten Matarazzo in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

Una bella scoperta della stagione è stato Steve, personaggio comunque non del tutto appiattito neanche nella scorsa stagione, ma che finalmente diventa un personaggio interessante.

E chi poteva portarlo lontano dall’inutilità della quota teen della serie se non Dustin, che non a caso è, insieme ad Hopper, il mio personaggio preferito di Stranger Things. Letteralmente Dusty, quando Steve si sta recando da Nancy per riconciliarsi, lo prende per mano e lo coinvolge nell’avventura.

E, inaspettatamente, Steve si rivela buon amico e fratello maggiore per Dustin, cercando di aiutarlo a farlo sentire più sicuro di sé stesso e per riuscire a conquistare Max.

Nonostante gli dia dei consigli veramente stupidi, è adorabile lo sbocciare del loro rapporto, che ha il suo climax nelle scene finali del ballo della scuola.

Al contempo, per quanto secondario, ho trovato davvero piacevole l’arco narrativo di Dustin e Dart, il demodog che Dustin alleva come un suo piccolo animaletto, e che riesce a tenerlo a bada fino all’ultimo, in una scena davvero adorabile.

Bob: eroe o carne da macello?

Sean Austin e Winon Ryder in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

Da questa stagione in poi i Duffer Brother hanno cominciato a prendere la fastidiosa abitudine di introdurre personaggi a cui il pubblico si affeziona immediatamente, per poi farli morire nel peggior modo possibile.

Bob è infatti una parte bellissima e terribile di questa stagione: un’occasione per Joyce di trovare una felicità e una vita semplice altrove, un personaggio fondamentale nella risoluzione del mistero, ma evidentemente anche un personaggio sacrificabile quando smette di essere utile.

E non è stato certo un caso la scelta di un attore così amato dal grande pubblico: Sean Astin è l’indimenticabile Sam della trilogia de Il signore degli anelli, personaggio entrato nel cuore di molti.

Hopper e Eleven: un rapporto in divenire

David Harbour e Millie Bobbie Brown in una scena di Stranger Things 2 la seconda stagione di Stranger Things per Netflix

Il rapporto fra Hopper e Eleven è probabilmente la parte più toccante della stagione: per quanto non mi abbia convinto del tutto il modo in cui inizia, in quanto non adeguatamente spiegato, la loro relazione è potente quanto straziante.

Di fatto troviamo un padre che cura una ragazza sconosciuta come se fosse sua figlia e al contempo la stessa che si crede invincibile ed è, per questo, incontrollabile. E questo porta anche ad un antagonismo e ad una mancanza di fiducia tipica dei rapporti del periodo dell’adolescenza, che si evolverà ulteriormente nella prossima stagione.

Tuttavia, infine i due riescono felicemente a riconciliarsi, ammettendo in maniera molto matura le rispettive colpe, gettando le basi per un nuovo e importante rapporto.

Flop Stranger Things 2

Uno spin-off mancato

La settima puntata di questa stagione è universalmente considerata la peggiore ed è un evidente tentativo di mettere le basi per uno spin-off della serie. Le motivazioni dietro a questo fallimento sono diverse, e riguardano sia la puntata in sé sia il percorso che è stato fatto per arrivarci.

Per la puntata di per sé, i Duffer Brother (o chi se ne è occupato) sembrano essersi dimenticati il punto di forza di Stranger Things: i suoi personaggi.

Qui veniamo introdotti ad un gruppo di personaggi uno più stereotipato dell’altro, con dinamiche che nulla c’entrano con la serie e sembrano, appunto, di un altro prodotto.

Oltre a questo, il personaggio di Eleven ha una storyline non inutile, ma certamente troppo distaccata dalla trama generale, tanto che il suo intervento alla fine ha un forte sapore di deus ex machina: non esattamente indice di una buona scrittura.

Vicende accessorie

Sempre su questa idea, anche la trama di Nancy e Jonathan sembra piuttosto accessoria e distaccata dal resto della trama. Non inutile, anche perché ha una conseguenza importante nel finale.

Non fastidiosa come mi ricordavo, tuttavia la parte meno interessante dell’intera stagione, anche perché la quota teen rimane per me quella meno vincente.

Oltre a questo, nella scorsa stagione era già troppo tardi per dimenticarsi di Barb, personaggio che per motivi misteriosi continua ad essere riportato in qualche modo in scena.

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Stranger Things – Il trionfo del binge watching

Stranger Things è una delle serie di punta di Netflix: uscita nel lontano 2016, è diventata immediatamente (e inaspettatamente) un prodotto di culto, mantenendo la sua popolarità nel tempo.

Alla sua uscita ero molto scettica verso questo prodotto, ma infine mi convinsi a vederlo.

E guardai tutte le puntate nel giro di una giornata.

Per chi non avesse mai visto Stranger Things, qui sotto trovate una pratica guida per approcciarsi alla visione. Se invece siete già veterani di questo prodotto, passare direttamente alla parte spoiler.

Di cosa parla Stranger Things?

Bobbie Millie Brown, Gaten Matarazzo, Finn Wolfhard e Caleb McLaughlin in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Stranger Things è una serie tv che si rifà in maniera quasi maniacale ai film d’avventura per ragazzi degli Anni Ottanta. La trama ruota intorno a Eleven, ragazzina di appena undici anni che ha vissuto tutta la sua vita in un laboratorio, sviluppando poteri straordinari.

Si unirà al gruppo di ragazzini protagonisti per sconfiggere, di volta in volta, con una trama abbastanza ciclica, i vari mostri provenienti dal cosiddetto Sottosopra, realtà orrorifica e oscura parallela al nostro mondo.

Perché Stranger Things è una serie di culto?

Joe Keery, Natalia Dyer e Shannon Purser in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Le motivazioni riguardo all’enorme popolarità di Stranger Things sono in realtà sono abbastanza evidenti.

Prima di tutto, la serie si inserì in un periodo in cui la nostalgia per gli Anni Ottanta era fortissima, e cavalcò (e intensificò) questa tendenza, con un prodotto scritto da persone che dimostrano un amore sincero per quel periodo e la cultura pop e cinematografica annessa.

In secondo luogo, è un prodotto intergenerazionale: un cast corale di personaggi di diverse età, sia maschi che femmine, tutti a modo loro con importanza e presenza per le vicende narrate. Quindi, come il miglior prodotto di culto, è una serie che tutti possono guardare e trovare qualcosa che gli piace e che lo rappresenta.

In ultimo, Stranger Things utilizza sapientemente dei topoi molto tipici della cinematografia Anni Ottanta, appunto. Schemi narrativi che, se sfruttati con consapevolezza, funzionano sempre molto bene. E questa serie ci riesce benissimo.

Stranger Things fa per me?

Noah Schnapp in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Senza dubbio per apprezzare Stranger Things deve piacervi il già citato tipo di avventura mistery per ragazzi Anni Ottanta alla Stand by me (1986).

La serie, pur toccando tangenzialmente anche il genere teen drama, è principalmente questo: una storia di fantascienza che coinvolge dei ragazzini contro un potere molto più grande di loro.

Un tipo di schema visto già in prodotti anche recenti come Ready Player One (2018), ma scritta molto meglio.

Se vi ho convinto, ci vediamo dall’altra parte!

Di cosa parla la prima stagione di Stranger Things?

Nella prima stagione scompare uno dei ragazzini protagonisti, Will e i suoi amici si mettono ad investigare la sua scomparsa. Faranno così la conoscenza di una misteriosa ragazzina con poteri di telecinesi. Eleven…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Top

Un realismo devastante

Bobbie Millie Brown, Gaten Matarazzo, Finn Wolfhard e Caleb McLaughlin in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Non ricordavo sinceramente quanto fosse devastante il taglio della serie per alcune sequenze: assolutamente credibile e realistico, nonostante si rifaccia a degli schemi narrativi piuttosto tipici.

In particolare, i ragazzini non accettano per nulla Eleven da subito, anzi Lucas ne parla molto male e inizialmente la tengono con loro più per paura di farsi scoprire e per farsi aiutare a trovare Will.

Così le dinamiche fra i ragazzini sono dolorosamente realistiche: un feroce antagonismo, derivato anche da una tipica gelosia fra migliori amici per la nuova entrata nel gruppo, dinamica in cui tutti possono riconoscersi.

Millie Bobbie Brown in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Così anche una grande ingenuità e sincerità nella loro amicizia per come la raccontano ad Eleven, fondata su una fiducia reciproca e la capacità di guardarsi le spalle a vicenda.

Oltre a questo, il linguaggio utilizzato è fortemente realistico: si utilizzano liberamente termini che ad oggi sono considerati (anche giustamente) ben più volgari e pesanti. Fra queste, queer (in senso spregiativo), fag (frocio), pussy (fighetta) e sissy (frocetto), fra le altre.

Personaggi vincenti

David Harbour in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Morning are for coffee and contemplation

Le mattine sono fatte per caffè e contemplazione

La bellezza di Stranger Things sta proprio nei personaggi: per quanto ce ne siano alcuni più protagonisti di altri, tutti hanno il loro interesse e la loro profondità.

Eleven: un’eroina diversa

Millie Bobbie Brown in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Un grande punto di forza di Stranger Things è sicuramente la protagonista, Eleven.

Anzitutto per la strepitosa performance di Millie Bobbie Brown, che a soli undici anni è riuscita a regalarci un personaggio interessante ed enigmatico.

La forza del suo personaggio sta proprio nel fatto di essere molto grigio: un passato doloroso e tormentato, dei poteri terribili che la rendono di fatto un’arma da guerra. Ma al contempo un personaggio insicuro, incapace di rapportarsi con il mondo esterno e soprattutto, davvero fallibile.

Un bell’esempio di una protagonista e un personaggio femminile tridimensionale in cui il pubblico di giovanissimi può immedesimarsi.

Non la solita Mary Sue, insomma.

I quattro bambini

Noah Schnapp, Gaten Matarazzo, Finn Wolfhard e Caleb McLaughlin in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Il quartetto di protagonisti è fantastico: ragazzini davvero adorabili, appunto con atteggiamenti assolutamente credibili e in cui ci si può facilmente immedesimare, anche come spettatori adulti.

Soprattutto perché non vengono per nulla appiattiti in ruoli standard, come spesso avviene in prodotti del genere.

Come anticipato, è ben raccontata la sincerità della loro relazione, in particolare in uno scambio fra Mike e Dustin, in cui il primo sostiene come consideri tutti quelli del loro gruppo come migliori amici, nonostante i dubbi dell’amico. Una sequenza che mi ha davvero stretto il cuore.

La coppia di adulti

Il personaggio che preferisco di questa stagione è sicuramente Hopper.

Viene inizialmente presentato come un personaggio menefreghista e spaccone, ma più va avanti più rivela la sua vera natura di uomo tormentato, ma che si mette totalmente in gioco per aiutare Joyce a ritrovare suo figlio e fare giustizia.

Ottima anche l’interpretazione di Winona Ryder, icona degli Anni Novanta, che torna con un personaggio che le è stato cucito addosso. Nonostante tutti i suoi difetti, si dimostra una madre affettuosa e instancabile, con Will e poi anche con Eleven.

La quota teen

Natalia Dyer in una scena della prima stagione di Stranger Things, serie tv Netflix scritta e diretta dai Duffer Brothers

Devo fare un mea culpa: non mi è mai piaciuto il personaggio di Nancy, né la sua linea narrativa in generale.

In questa stagione è evidentemente la quota teen che non poteva mancare per attirare quella fetta di pubblico, e per me è anche la parte più debole (e ne parlerò nella parte flop).

Tuttavia, ad una seconda visione, ho apprezzato il tentativo di smarcarla dallo stereotipo della brava ragazza che vuole ribellarsi.

In realtà la parte teen drama vincente è quella di Steve: viene rappresentato fin da subito come un bad boy mancato, che si atteggia anche in un certo modo anche perché circondato da pessime influenze.

Tuttavia, piano piano si allontana dal suo stereotipo, e sboccia come personaggio nelle successive stagioni.

Poi c’è Barb.

Flop

Il problema di Barb

La stagione ha un unico, ma abbastanza pesante, problema: la parte teen e in particolare il personaggio di Barb.

Come detto, la serie cerca di smarcarsi da certi stereotipi che pure mette in scena, in maniera anche interessante. L’unica eccezione è appunto Barbara e il suo rapporto con Nancy.

Barbara è un personaggio veramente antipatico, petulante e moralista senza motivo, che incarna uno stereotipo piuttosto noioso che va a condannare ingiustamente la vita sessuale di quella che dovrebbe essere la sua amica, bollando Steve e i suoi amici preventivamente.

E il tutto in un personaggio apparentemente positivo, della cui morte dovremmo dispiacerci.

In realtà Barb è una delle vittime sacrificali tipiche di questo genere, che muore nella seconda puntata senza che a nessuno sia tanto dispiaciuto (persino Nancy se ne preoccupa abbastanza poco).

Purtroppo, il suo personaggio ha avuto un inspiegabile successo su internet, facendoci portare il suo ricordo fino all’ultima stagione.

In generale la parte teen è quella meno interessante e su cui la trama si sofferma anche troppo, tornandoci di tanto in tanto anche nelle stagioni successive, purtroppo.

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Severance – Contro me stesso

Severance è una serie tv Apple Tv+, piattaforma streaming che sembra ormai incapace di produrre prodotti di scarso valore: da Fondazione a Ted Lasso, era da tanto che non si vedevano prodotti di così altro livello, uno dietro l’altro.

Severance, in Italia nota come Scissione, è infatti una serie di altissimo valore, che sono riuscita a divorarmi in pochissimo tempo, tanto era la tensione ed il coinvolgimento che mi ha offerto.

Di cosa parla Severance?

Mark è impiegato per due anni in un’azienda molto particolare: per accedere al lavoro ogni dipendente deve sottoporsi all’operazione della severance, che permette di dividere la vita privata da quella lavorativa…

Vi lascio qui la sigla, che è già abbastanza autoesplicativa…

Vale la pena di vedere Severance?

Adam scott in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

Assolutamente sì.

Severance è già un piccolo cult, soprattutto oltreoceano: oltre ad un’ottima costruzione del mistero, la serie può godere di un ricco world building e di personaggi interessanti e intriganti, persino i più secondari.

Si tratta di una fantascienza piuttosto particolare, che si avvicina come tematiche e atmosfere a Black Mirror – in particolare allo speciale White Christmas (2015) – e gode di villain tremendamente inquietanti e di una trama assolutamente coinvolgente.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ogni elemento al suo posto

Zach Cherry, Britt Lower, John Turturro e Adam scott in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

L’ottima qualità di Severance risiede soprattutto nella scrittura ben calibrata e che mette tutti gli elementi al loro posto.

Infatti, per la costruzione di un mistero che tenga col fiato sospeso lo spettatore, è importante che la soluzione dello stesso sia potenzialmente accessibile, tendenzialmente nelle mani di un personaggio.

In questo caso questo ruolo è ricoperto da Petey, che purtroppo dura pochissime puntate, e che serve solo come punto di partenza per la risoluzione del mistero – che poi non è neanche veramente risolto.

A differenza di altre occasioni in cui semplicemente i personaggi potevano mettersi ad un tavolo e in dieci minuti tutto si sarebbe risolto, in Severance la fonte della soluzione è poco attendibile e ritrosa anche a raccontare quello che conosce, con delle dinamiche assolutamente credibili – e non è scontato.

E, per rendere la risoluzione ancora più difficile, il protagonista non è del tutto convinto di voler conoscere la verità.

Al contempo un elemento fondamentale per avere un buon world building ed evitare spiegoni inutili è la presenza di un personaggio esterno alla storia che venga introdotto nel nuovo ambiente raccontato, al pari dello spettatore.

In questo caso ancora di più il personaggio nuovo, Helly, è una scheggia impazzita: di fatto, se lei non avesse cercato di ribellarsi, non avremmo saputo la maggior parte delle torture e dei segreti della Lumon.

L’alienazione e l’infantilizzazione

Zach Cherry, Britt Lower, John Turturro e Adam scott in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

The work is important and mysterious

La strategia di Lumon, solo apparentemente favorevole per il lavoratore che si può distaccare dallo stress lavorativo, è in realtà un metodo di totale alienazione e di conseguente infantilizzazione del lavoratore.

Chi lavora alla Lumon viene infatti privato della sua personalità, delle sue memorie, e quindi delle sue libertà. Messo in stanze senza finestre, senza quindi possibilità di vedere il mondo esterno, senza avere neanche idea di come sia fatto.

Così essere totalmente alienato dal suo lavoro, senza sapere cosa produce e addirittura cosa significa quello che sta facendo.

Al contempo una totale infantilizzazione: il dipendente viene ricompensato del buon lavoro fatto con dei premietti, delle piccole gratificazioni senza alcun valore, dalle gomme da cancellare a cinque minuti di musica.

Oltre a questo, il lavoro sembra più un videogioco che un lavoro effettivo. Questo aspetto si nota in particolare quando Helly riesce a completare il file e gli viene mostrata una cut scene di Kier che si complimenta con lei.

Ancora peggio la questione della break room: teoricamente significherebbe la stanza della pausa (da break, pausa), ma in realtà è la stanza che ti rompe, fisicamente e soprattutto mentalmente.

Una terribile tortura psicologica, assimilabile a quando alle elementari fanno scrivere mille volte ai bambini sulla lavagna quello che non dovrebbe fare. E così il lavoratore vive nel terrore di doverlo fare ancora, e in qualche modo assimila anche quello che ha dovuto ripetere all’infinito.

E così viene spezzato, appunto.

Le facce giuste

Adam scott in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

La scelta del cast è ottima: le facce giuste, le facce particolari, che si sposano con il carattere grottesco e surreale della serie.

In particolare, Adam Scott, che interpreta Mark, attore che, possiamo dirlo, ha una faccia molto particolare, ma, soprattutto, veramente antipatica. Infatti, la maggior parte delle volte interpreta personaggi negativi e sgradevoli.

In questo caso, come personaggio chiuso in se stesso e remissivo, funziona alla perfezione.

Così perfetti anche Zach Cherry e soprattutto John Turturro, che sono riusciti a mettere in scena dei credibili impiegati, le facce che ti aspetteresti entrando in qualsiasi ufficio americano.

Per i villain è un discorso a parte.

I villain

Patricia Arquette  in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

I villain sono costruiti a regola d’arte, con dei volti e degli interpreti azzeccatissimi. In primo luogo, Mrs. Cobel, interpretata dall’ottima Patricia Arquette, con i suoi occhi di ghiaccio e i capelli color ferro, perfettamente acconciati.

Una donna accecata dal culto della persona di Kier, apparentemente calma e calcolatrice, in realtà irosa e violenta.

Insomma, una donna di cui avere paura.

Tramell Tillman in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

Good man Dylan, good man

Mr. Milchick a Dylan

Ancora più inquietante Mr Milchick, che cerca di vendere questa apparenza di uomo festoso e cordiale, quasi da animatore del villaggio turistico, in certe scene al limite del grottesco.

Infatti, è sempre lui che porta i premi ai lavoratori, ma anche quello che glieli toglie e li tortura nella break room. Fra l’altro Tramell Tillman, l’attore che lo interpreta, ha una capacità di cambiare espressione nel giro di pochi secondi veramente ammirevole.

La Severance ti ha cambiato

Britt Lower in Severance, serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

I am a person. You are not.

Helen outie alla sua innie

Per la maggior parte dei personaggi che hanno subito la severance, non sembra che ci siano particolari cambiamenti nel loro carattere e modo di fare fra le loro versioni innie e outie. Tutti tranne Helly, che poi conosciamo come Helen.

Il maggior colpo di scena della serie, ma al contempo il più importante mistero e spunto di riflessione.

Chi poteva immaginare che la piccola Helly, indottrinata fin da piccola alle idee di Kier, potesse diventare la prima dei ribelli? Helly è la prima a stupirsi, non riuscendo ad accettare l’idea che la sua outie possa rivoltarsi contro di lei.

E invece la stessa accentua ancora di più l’alienazione e la spersonalizzazione del lavoratore, negandogli in via definitiva la sua identità, anzi distaccandosi dalla sua persona.

E Helly riesce in parte a prendersi la sua vendetta.

Cosa non mi ha convinto di Severance

John Turturro e Christopher Walken nella serie tv di Apple Tv+ nota in Italia come Scissione

Ci sono alcune piccole cose che non mi hanno del tutto convinto della serie Severance.

Anzitutto, per quanto sia stato molto coraggioso includere una coppia non solo omosessuale, ma anche di personaggi anziani (scelta rarissima nelle produzioni mainstream), ho trovato che la loro relazione sia stata eccessivamente drammatizzata.

Infatti, la loro storia mi ha convinto, anche molto, fino a quando Irving non va a bussare disperatamente alla porta di Burt outie, scelta che ho trovato appunto troppo eccessiva.

Al contempo, spero sia meglio spiegata la questione del perché ci sia così poco controllo e di fatto un personale ridottissimo all’interno di Lumon: tutti i protagonisti hanno la possibilità di fare molte cose che, se non ci fossero solo quattro gatti in quella azienda, non avrebbero mai potuto fare.

Ma, a parte questo, una serie magnifica.

Cosa sappiamo finora

La serie lascia aperti molti interrogativi, anche perché, secondo dichiarazione degli stessi showrunner, era stata pensata per diverse stagioni.

Per ora quello che sappiamo è che Helen aveva deciso di sottoporsi alla severance, che la sua outie è assolutamente spietata, e che è riuscita per qualche secondo a parlare al mondo della sua condizione. Mrs. Cobel l’ha minacciata di non farla più tornare dentro a Lumon, e quindi è possibile che, almeno all’inizio, non la vedremo più, almeno come innie.

E magari conosceremo meglio la sua outie.

Per quanto riguarda Mark, è riuscito effettivamente a parlare con la sorella della Lumon, e quindi a questo punto sia il suo outie che la sorella stessa cercheranno di penetrare all’interno dell’azienda, anche se probabilmente con non poche difficoltà, visto lo strapotere dell’azienda.

Al contempo Mark dovrà ritrovare la sua moglie perduta, che fa probabilmente parte di un piano più articolato per testare la severance.

La cosa particolare è che la moglie nella sua versione innie dice di aver vissuto 107 ore, che corrispondono a circa 13 giorni lavorativi. Veramente poco: che la Lumon avesse in qualche modo il suo corpo in questo misterioso testing floor per due anni per poi testarlo su Mark e avere la certezza che la severance funzionasse?

Altre teorie più fantasiose ipotizzano che la Board sia in realtà formata dalle coscienze digitalizzate dei fondatori o dei vari CEO dell’azienda, e che quindi non siano persone reali.

A tutte queste domande, potremo rispondere almeno fra un anno. Infatti, ancora non è stato annunciato l’inizio della produzione, anche se, visti i tempi piuttosto celeri di conferma di un seguito, forse già la prossima primavera potremo goderci la seconda stagione.

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Moon knight – Un nuovo livello di mediocrità

Moon Knight è l’ultima serie Marvel uscita su Disney+, conclusasi questa settimana. A sorpresa (o forse no) un ulteriore tentativo fallimentare di portare le storie dell’MCU sul piccolo schermo.

Una serie al cui finale sono arrivata indecisa se ridere o essere irritata come dopo la visione di The King’s man (2021), a mio parere una delle peggiori pellicole uscite in tempi recenti.

Di cosa parla Moon Knight?

Moon Knight racconta la storia di Steven, un ingenuo e solitario commesso di un museo egizio che scopre di possedere non solo una seconda personalità, chiamata Marc Spector, ma anche poteri straordinari, datagli da una divinità egizia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Moon Knight?

Oscar Isaac in una scena della serie tv Moon Knight (2022) miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

Proprio no.

Per me questa serie è una vera perdita di tempo, visto anche il successo non eccellente che sta riscontrando, non è neanche detto che questo personaggio sia incluso nei prodotti per il grande schermo. Quindi potrebbe non essere essenziale guardarla.

Tuttavia, non è detto che non vi piaccia o che ve ne dobbiate privare: per quanto a mio parere sia una serie assolutamente mediocre, se vi sono piaciuti gli altri prodotti televisivi dell’MCU e le dinamiche che hanno portato in scena, potrebbe essere la serie per voi. Magari partendo con aspettative veramente basse e spegnendo il cervello per tutto il tempo.

Tuttavia, non mi sento assolutamente di consigliarla.

Una serie di fallimenti

Oscar Isaac in una scena della serie tv Moon Knight (2022) miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

Io ho visto tutte le serie tv Marvel uscite finora.

E solitamente va sempre nello stesso modo: inizialmente sono sempre interessata e coinvolta, poi piano piano le serie prende la strada della mediocrità, con un finale stupido e arraffazzonato.

Questo è successo per tutte le serie, con eccezione di Wandavision, che mi ha tenuto incollata allo schermo fino all’ultima (deludente) puntata e Hawkeye, serie che non è mai riuscita particolarmente a prendermi, ma che considero molto innocua.

Nel caso di Moon Knight la mia esperienza con la serie è stata un pendolo fra la noia e la totale indifferenza fin dalla prima puntata, fino a sfociare nel divertimento amaro misto a grande fastidio per la puntata finale.

Quindi, per quanto mi riguarda, un mezzo disastro.

Un problema alla radice

Oscar Isaac in una scena della serie tv Moon Knight (2022) miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

Il problema comune di tutte queste serie, con forse l’esclusione solo di Wandavision, è che nella maniera più evidente sono serie pensate non per essere serie tv, ma dei film, inutilmente allungati e divisi in puntate.

Il pubblico italiano al momento non è molto abituato a serie supereroistiche ad alto budget: l’unica che è arrivata anche in Italia e che ha avuto una buona diffusione è The Boys. Tuttavia io sono convinta che se Peacemaker, una vera e ottima serie di supereroi, arrivasse in Italia, vedrei molte più teste scuotersi con dispiacere davanti a questi prodotti.

Moon Knight è una serie ancora più dispersiva del solito, con una prima puntata che poteva essere riassunta nei primi quindici minuti di un film di due ore, seguita da puntate che sarebbe bello chiamare filler, ma che in realtà non sono altro che stupide e inconcludenti deviazioni dal percorso principale.

La trama principale è infatti portata avanti in maniera davvero estenuante, rimandando continuamente l’ovvio scontro finale con soluzioni di scarsissimo interesse.

Prendi gli attori, buttali via

Ethan Hawke in una scena della serie Moon Knight (2022) miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

E nulla è servito portare in scena attori di primo livello come Oscar Isaac e Ethan Hawke.

Se il primo tutto sommato ha fatto davvero del suo meglio, Hawke appare veramente un villain pallido e spento. E se volete vedere quanto possono essere bravi questi due attori, vi consiglio caldamente di recuperarvi The card counter (2021) per l’uno e The Northman (2022) per l’altro.

Oltre a questo, dominano le sequenze e le scelte di trama veramente infantili e stupide, che la fanno sembrare tutto tranne un prodotto horror e dark (come alcuni critici l’avevano definito), ma al contempo neanche un buon prodotto dell’MCU, produzione che negli anni, coi suoi alti e bassi, ci ha regalato comunque grandi prodotti di intrattenimento.

Marc, Steven e Moon Knight?

Oscar Isaac in una scena della serie tv  miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

Una delle cose che ho più odiato della serie è la puntata flashback.

Per quanto mi riguarda, la storia di Marc è davvero terrificante: non solo perché è prevedibile dal minuto uno, ma perché è assurdamente esagerata, in particolare per la violenza improvvisa e macchiettistica della madre.

Oltre a questo, la questione delle personalità è veramente confusa, già solamente per il fatto che, per come è messa in scena, Marc sembra che crei Steven per fargli prendere le botte della genitrice.

Oltre a questo, non ho in generale apprezzato il rapporto fra i due e il conseguente rapporto con Layla. A parte il contrasto fra le personalità, che si risolve molto facilmente nell’ultima puntata, ho trovato assurdo e imbarazzante il fatto che Steven prova attrazione per Layla e le dinamiche che si creano al riguardo.

Uno splendido esempio di come portare il machismo di due uomini che litigano per una donna ad un nuovo livello.

Il villain

Harrow si rivela fin da subito un villain poco convincente: anzitutto per la dinamica classica in cui cerca di raggirare il protagonista confuso dicendogli che il suo padrone, che crede positivo, lo stia invece ingannando, estremamente abusata e che ha sinceramente stancato.

Oltre a questo, Harrow è un personaggio che per me non ha nessun interesse: semplicemente un invasato religioso che deve portare a termine la sua missione, senza un vero e interessante approfondimento in merito.

Ancora più delirante la figura di Khonshu: inizialmente appare effettivamente come una divinità inquietante e minacciosa, poi sembra essere tutto sommato ragionevole, diventa l’eroe della vicenda quando si scontra con Ammit, per poi ridursi di nuova ad essere un villain nell’inutile colpo di scena finale.

Perdere tempo

May Calamawy in una scena della serie tv Moon Knight (2022) miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

La serie, proprio per il fatto che vive come un film allungato, perde continuamente tempo. Anzitutto la parte del manicomio, che sembra servire solo a buttare fumo negli occhi agli spettatori: prima ti mette prima il dubbio di cosa sia vero e falso nella maniera più goffa possibile, poi diventa la solita puntata spiegone-flashback, come già in Wandavision.

Come ci dimostrano anche serie non di altissimo livello (Pieces of her, per dirne una), i flashback sono possibili anche se non infilati a forza in un’unica puntata, e con risultati anche più soddisfacenti.

Oltre a questo, l’ultima puntata è una continua perdita di tempo, soprattutto per Layla, che si intestardisce più e più volte, per farle fare quello che doveva fare fin dall’inizio, senza che ci venga mostrato il suo cambiamento di idea. Ovvero diventare una brutta copia di Wonder Woman.

Il limite del ridicolo

Sicuramente la Marvel si è sempre distinta dai suoi concorrenti per la capacità di portare film divertenti e frizzanti, con una comicità non sempre sopraffina, ma raramente di basso livello. Anche per questo l’MCU, che è stata capace (ed è ancora capace) di portare avanti un universo compatto e a lungo termine, non va sottovalutata.

Per questo, l’infantilizzazione o comunque la poca credibilità di molti elementi per me non è assolutamente giustificabile. Avrebbero potuto utilizzare molto meglio l’elemento comico e riuscire al contempo a dare un minimo di credibilità a queste divinità, che dovrebbero essere enormi e terribili, ma che al massimo sono goffe e stereotipate.

Il caso peggiore è ovviamente Taweret, la dea del passaggio all’aldilà con l’aspetto di un ippopotamo. Al di là del character design che non mi ha convinto fino in fondo, questa rappresentazione della scolaretta impreparata l’ho trovata veramente imbarazzante.

Come hanno fatto poi con Ammit, che è un poderoso coccodrillo, potevano rendere questa figura, legata fra l’altro ad un elemento così interessante e misterioso della cultura egizia, quantomeno seria ed imponente, invece che questo personaggio ridicolo.

E infatti per me tutta la parte dell’aldilà manca di qualsiasi credibilità e mi è sembrata solo una grande perdita di tempo.

La CGI altalenante

La CGI della Marvel non è sempre stata eccellente, ma comunque a mio parere, almeno in tempi recenti, mai così discontinua. Infatti, oltre al fatto che le ambientazioni delle tombe sono davvero cheap, la tecnologia utilizzata dà dei risultati veramente altalenanti.

A partire dai casi peggiori di quella sorta di lupi che vediamo nelle prime puntate, a quelli complessivamente migliori (anche a livello di character design) della dea Ammit, in generale mi è sembrato di trovarmi davanti ad un risultato piuttosto pupazzoso e generalmente poco credibile.

In particolare non è mai riuscito a convincermi Moon Knight, soprattutto nei momenti della trasformazione.

Un finale?

Per me il finale è al limite del disastroso.

Al di là della quantità di tempo persa all’inizio, al di là di come tutta la parte ultraterrena si riveli fondamentalmente inutile, al di là dello scontro finale che dura pochissimo, gli ultimi minuti sono un vero e proprio delirio.

Si arriva al momento decisivo della trama, quando finalmente (e con una facilità disarmante) Marc e Layla riescono a imprigionare Ammit e questa usa la classica frase da cattivo Io tornerò! A quel punto Marc è messo davanti alla scelta di mettere fine ad un problema enorme che potrebbe potenzialmente tornare da un momento all’altro, oppure intestardirsi.

E sceglie la seconda. E a quel punto perché non metterci un bel taglio netto di montaggio, far concludere il momento totalmente fuori scena, e riportare lo spettatore nel manicomio, così da confonderlo ancora di più.

Il problema della terza personalità

Oscar Isaac in una scena della serie tv Moon Knight (2022) miniserie Marvel per l'MCU con Oscar Isaac

Partiamo dal fatto che questa serie è stata annunciata come miniserie, quindi almeno nelle intenzioni vi era l’idea di fare una storia autoconclusiva.

Possiamo pensare che abbiamo scelto il trucchetto di lasciare qualche spiraglio aperto, come d’altronde si fa spesso con progetti dubbi fin dal primo capitolo di Star Wars. Tuttavia, ameno sulla carta, la serie si è conclusa.

E invece il finale con la scena post-credit è un cliff-hanger pesantissimo: sostanzialmente ci ritroviamo nella situazione iniziale, in cui il protagonista non ha idea di possedere un’identità segreta e di essere controllato da una divinità.

E il ciclo ricomincia.

La terza personalità poteva essere introdotta nella serie ben prima, dando un elemento in più e potenzialmente veramente interessante. E invece la sua presenza viene solo suggerita in diversi momenti, dal terzo sarcofago nel manicomio al blackout di Marc alla fine della terza puntata.

E, oltretutto, la presenza della terza personalità rende totalmente insensata la dichiarazione di Taweret sul fatto che Marc sia completo: a parte come è possibile che la terza personalità non sia percepita dalla dea, ma poi appunto come fa Marc ad essere completo (your heart is full) se non ha conoscenza di una terza personalità?

Domande di cui non avremo mai una risposta. E lo spero: perché altrimenti significherebbe che questa serie dovrebbe avere un seguito.

Ultimo ma non ultimo: Khonshu in smoking è una di quelle cose che farò fatica a dimenticare.

E non in positivo.

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The Cuphead Show! – Divertimento d’altri tempi

The Cuphead Show! è una serie tv Netflix ispirata all’omonimo videogioco (Cuphead, 2017), piccolo cult del genere che ha colpito i videogiocatori per l’altissima qualità grafica e per la grande originalità, anche del gameplay: Cuphead si colloca nel sottogenere degli sparatutto popolare negli Anni Ottanta-Novanta, run ‘n’ gun.

Inoltre per la grafica è ispirato ai cartoni per bambini degli Anni Trenta-Quaranta, con personaggi assurdi e caricaturali, ma comunque splendidi a vedersi.

Aveva senso fare una serie su questo prodotto?

Di cosa parla The Cuphead Show!

La serie ruota intorno ai due fratelli, Cuphead e Mugman, i quali, come si può intuire dal nome, sono due tazze antropoforme. Così anche il resto dei personaggi sono animali, cibi o oggetti dalle forme umanoidi.

La storia ha una trama orizzontale e verticale: è composto da brevissimi episodi autoconclusivi, con dinamiche tipiche delle sitcom e i cartoni dell’epoca, ma presenta anche una piccola trama orizzontale. Il fil rouge sono le assurde avventure dei due fratelli scavezzacollo, che arrivano persino a scontrarsi con il Diavolo in persona.

Non vi dirò di più per non rovinarvi la sorpresa, ma vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché vale la pena di guardare The Cuphead Show!

Cuphead e Mugman in un scena della serie The Cuphead Show (2021) serie tv Netflix dal videogioco Cuphead

Sulla scia di ottimi prodotti tratti da videogiochi (a cominciare da Arcane), Netflix si conferma la casa di produzione vincente per il genere. The Cuphead Show! è una serie di ottima qualità, che parte da una base già molto solida, ma riesce a imbastire delle piccole trame dal grande potere intrattenitivo.

In particolare, se siete cresciuti con i cartoni come Tom & Jerry e di Willy il Coyote, probabilmente troverete un prodotto di vostro gusto. L’unica differenza sostanziale dai prodotti più datati è il fatto che i personaggi parlano, come non sempre succedeva al tempo.

Tutte le vicende, anche se assolutamente prevedibili come dinamiche perché partono da topoi piuttosto consolidati, sono gustose e di grande intrattenimento, portando in scena personaggi e situazioni piuttosto variegate.

The Cuphead Show! è una serie che fa per me?

Cuphead e Mugman in un scena della serie The Cuphead Show (2021) serie tv Netflix dal videogioco Cuphead

Come anticipato, se avete ancora nel cuore un certo di animazione vecchio stile, è probabile che sia un prodotto per voi. E non fatevi ingannare dal fatto che si tratta di una serie di animazione: The Cuphead Show! è tutto tranne che un prodotto per bambini (come spiegherò più avanti).

Tuttavia appunto si tratta di una serie molto specifica e ispirata ad uno specifico periodo: non esattamente un prodotto per tutti. Se siete dei fan del videogioco, semplicemente l’amerete: pur senza averlo giocato in prima persona, ho sentito grande entusiasmo da parte fan del prodotto videoludico, anche per la quantità di citazioni e easter egg presenti.

Animazione per adulti?

Cuphead in una scena della serie The Cuphead Show (2021) serie tv Netflix dal videogioco Cuphead

Non posso dire che The Cuphead Show! sia del tutto una serie pensata per un pubblico adulto: non stiamo insomma parlando di Bojack horseman. Tuttavia l’animazione destinata ad un pubblico molto giovane è oggi molto più castigata (anche giustamente), e non include quella violenza smaccata e a tratti quasi inquietante dell’animazione più datata. Quindi il gap fra prodotti per adulti e prodotti per bambini si è fatto, a mio parere, ancora più ampio.

In questo caso non è presente tantissima violenza gratuita, ma quando c’è si sente, e certe volte fa venire i brividi. Il tutto comunque all’interno di in un contesto genuinamente divertente e comico, con dinamiche davvero spassose e personaggi molto sopra le righe.

Mi sento quindi di classificarla come una serie abbastanza trasversale come target, andando ad includere dai ragazzi non troppo giovani ad un pubblico più maturo. Insomma, eviterei di mettere davanti a questo prodotto ragazzi al di sotto dei 14 anni.

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2021 Apple TV+ Avventura Azione Drammatico Fantascienza Serie tv

Fondazione – Una scommessa vincente?

Fondazione è una serie di Apple TV+ uscita lo scorso autunno, liberamente ispirata (e sottolineo liberamente) alla saga letteraria omonima di Asimov, uno dei più importanti autori fantascientifici di tutti i tempi.

La serie risulta una scommessa vincente per la qualità visiva e della mitologia, con una produzione di altissimo livello e una scrittura generalmente buona. Tuttavia presenta un problema non da poco: una trama poco solida.

Di cosa parla Fondazione?

La serie è ambientata in un mondo immaginario e futuristico, in cui l’universo è dominato dall’Impero Galattico, minacciato dalle teorie di Hari Seldon, scienziato e inventore della piscostoria, materia che permette di prevedere gli eventi futuri tramite calcoli matematici.

Vi lascio un trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fondazione?

Laura Birn in una scena della serie  tv Fondazione (2021-) di Apple TV+ ispirata al Ciclo della fondazione di Isaac Isamov

In generale, sì.

Partiamo dal fatto che se siete fan di Asimov e soprattutto della saga letteraria del Ciclo della Fondazione, molto probabilmente non vi piacerà. Dagli apprezzatori dell’opera letteraria partenza non ho sentito altro che pareri davvero aspri, per via della mancanza di fedeltà all’opera originaria. Siete avvertiti.

Tuttavia, se non siete fan di Asimov e vi piace una fantascienza di stampo abbastanza classico, con una narrazione piena di colpi di scena e con una mitologia piuttosto solida, abbastanza simile a Dune, probabilmente farà per voi.

Una produzione monumentale

Jared Harris in una scena della serie tv Fondazione (2021-) di Apple TV+ ispirata al Ciclo della fondazione di Isaac Isamov

Come anticipato, Fondazione può godere di una produzione monumentale: effetti speciali strabilianti, fotografia da far girare la testa con colori pienissimi, campi lunghi sui panorami spaziali che fanno sognare.

Insomma dal punto di vista tecnico è un prodotto che potrebbe tranquillamente rivaleggiare, dal punto di vista tecnico, con Dune (2021), confermando un nuovo livello di qualità per il genere. Al contempo anche un ottimo cast, con Jared Harris, Lee Pace, e la nuova scoperta Lou Llobell.

Una mitologia incredibile ma…

Terrence Mann in una scena della serie  tv di Apple TV+ ispirata alall'opera Isaac Isamov

Fondazione gode di una costruzione della mitologia davvero incredibile.

L’immensità dell’Impero ci permette di venire a contatto, in sole dieci puntate, con quattro diverse culture. E chissà cos’altro potremo scoprire. Inoltre tutta la storia della dinastia imperiale e dei cloni è davvero interessante e ben esplorata.

Ma non basta.

Il primo (non) problema della serie è l’andamento narrativo: profondamente scostante e talvolta episodico. Si fanno balzi avanti, balzi indietro e si dedica molto tempo all’approfondimento della lore e dei personaggi. Una narrazione strana, non nelle corde di tutti.

A me personalmente ha colpito.

Jared Harris in una scena della serie tv Fondazione (2021-) di Apple TV+ ispirata al Ciclo della fondazione di Isaac Isamov

Un problema effettivo è invece la gestione della trama: inizialmente sembra andare in una direzione, poi ne prende una tutta diversa, che in conclusione sembra più una larga parentesi in una narrazione ben più ampia che si allargherà nelle prossime stagioni.

Di per sé questo potrebbe anche non essere un problema, ma lo diventa quando prendono piede personaggi poco convincenti e una trama non così interessante. E, in parte, il calo di interesse è dovuto anche alla qualità recitativa di alcuni personaggi, che diventano protagonisti della scena da una puntata all’altra e che, appunto, non sono sempre vincenti.

Una brusca svolta

Leah Harvey in una scena della serie tv Fondazione (2021-) di Apple TV+ ispirata al Ciclo della fondazione di Isaac Isamov

Nonostante nel complesso sia coerente, la parte di Terminus mi è sembrata del tutto superflua per la narrazione complessiva.

Oltre a quello, è stato davvero un dolore passare dalla recitazione esplosiva di Lou Llobell (Gaal) a quella statica di Leah Harvey (Salvor). Il suo personaggio, complice anche appunto la sua espressività veramente limitata, non mi ha proprio coinvolto.

Kubbra Sait in una scena della serie tvdi Apple TV+ ispirata all'opera di Isaac Isamov

Ancora di meno mi ha coinvolto la storia dell’attacco di Anacreon e della Grande Cacciatrice, su cui fra l’altro hanno calcato troppo la mano, rendendola quasi macchiettistica. Oltre a questo, anche la vicenda di Fratello Alba non mi ha appassionato, a parte nel finale e sugli effetti che avrà sul futuro.

Diciamo che secondo me partire da una storia monumentale come quella iniziale, con attori di un certo tipo e passare da una storia locale con attori meno in parte non è stata la più brillante delle idee.

Ma nel complesso non sono affatto pentita di averla vista, e sono anzi curiosa di vedere come proseguirà.

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Castlevania: un incontro vincente

Castlevania è una serie di produzione mista fra USA e Giappone, tratta dal popolarissimo videogioco omonimo. Una saga videoludica talmente pionieristica che viene utilizzata per indicare un genere di videogiochi: si usa il termine Metroidvania (unione fra Castlevania e Metroid, altro videogioco fondamentale ) per indicare un sottogenere di azione avventura, solitamente platform, accumunato da mappe interconnesse e aree da sbloccare. Un prodotto di tale portata meritava assolutamente una serie tv dedicata, con ben quattro stagioni, tutte disponibili su Netflix.

Castlevania è un ottimo prodotto e un incontro vincente fra animazione occidentale e orientale, prendendo il meglio da entrambe.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Castlevania

L’antefatto racconta di Lisa, giovane scienziata in epoca pseudo-rinascimentale, che chiede aiuto al Conte Dracula per apprendere le arti della medicina e aiutare il popolo di Wallachia a progredire nella scienza. Tuttavia per questo viene bruciata come strega. E così la terribile ira di Dracula si abbatterà sul mondo umano, deciso a distruggerlo definitivamente con il suo esercito infernale.

A questo punto interviene il cacciatore di mostri rinnegato Trevor Belmont, affiancato dalla speaker Sypha, in un’improbabile alleanza con Alucard, figlio di Dracula, determinato a fermare il folle progetto del padre.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Castlevania: n incontro vincente

La serie ha un’animazione e delle dinamiche che si ispirano al panorama orientale, ma è sicuramente più digeribile per un pubblico occidentale. In particolare mette in scena un protagonista accessibile e alla mano, che diventa l’eroe improbabile della storia. Un trope molto utilizzato, ma che funziona.

I personaggi sono estremamente vari e prendono dall’una e dall’altra cultura.

Alucard in una scena della serie Castlevania 2021 Netflix

Per esempio Alucard è un personaggio di forte ispirazione orientale, per il design e per le movenze.

Trevor Belmont in una scena della serie Castlevania 2021 Netflix

Invece Trevor, l’altro protagonista, è più vicino ad un’impostazione occidentale, per come è disegnato (anche solo per il fatto che abbia la barba, elemento quasi assente nell’animazione nipponica) e soprattutto per l’ironia che lo caratterizza insieme a Sypha.

Infatti il rapporto fra Sypha e Trevor, coppia fissa per tutte le stagioni, è sempre fresco e simpatico, ha una evoluzione nè forzata né smaccatamente romantica, anzi. Sono fra i personaggi che ho apprezzato di più, anche per le storie in cui sono coinvolti.

Un climax crescente fra azione e riflessione

Trevor, Sypha e Alucard in una scena della serie Castlevania 2021 Netflix

La struttura delle stagioni è abbastanza peculiare: la prima stagione è sostanzialmente un prologo di quattro puntate, la seconda è una storia abbastanza lineare e con poche divagazioni. Le ultime due sono un crescendo di azione e storie sempre più interessanti e diversificate, con un finale assolutamente soddisfacente.

In ogni stagione vengono introdotti nuovi personaggi e nuove storie, alcuni con natura abbastanza episodica e circoscritta a certe puntate, ma in generale con una scrittura convincente e intrigante. La serie infatti presenta molti momenti azione, anche abbastanza violenti, ma anche molti e bellissimi momenti riflessivi ed esistenziali fra i personaggi. Questo può essere un difetto per alcuni: soprattutto all’inizio la trama procede molto lentamente, e sono più appunto le scene di riflessione e dialogo che quelle di azione o eventi importanti per la trama.

Castlevania può fare per me?

Sypha e Trevor in una scena della serie  Castlevania 2021 Netflix

Se ci si è già approcciati felicemente all’animazione nipponica, Castlevania può facilmente essere la serie per voi. Tuttavia se siete più puristi e appassionati dell’animazione orientale dura e pura, non è il prodotto più adatto per voi, soprattutto se siete fan di prodotti con grandi scene di azione ogni puntata. In questo caso ce ne sono, soprattutto verso il finale, ma molte meno rispetto ad altri prodotti mainstream.

Se vi piacciono le storie di avventura, con creature mostruose e cacciatori di vampiri, ma con un sottofondo riflessivo di grande importanza, fiondatevi a recuperarla.