Il pianista (2002) di Roman Polanski è uno dei titoli più noti della sua carriera sia, più in generale, del cinema sull’Olocausto.
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 120 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Il pianista?
Władysław Szpilman è un ottimo pianista che riesce a conquistare le folle grazie al suo programma radiofonico. Eppure la radio è fra le prime cose che gli toglieranno in quanto ebreo…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il pianista?
Se vi dicessi assolutamente sì non sarebbe abbastanza.
Il pianista è indubbiamente una delle migliori opere in assoluto sul tema, proprio per la sua capacità di farci spostare l’occhio dai lati più strazianti della vicenda verso una prospettiva diversa, di cui è rimasto ai margini della storia.
Oltretutto, la regia è precisa e perfetta nella sua dovuta freddezza e nel suo consapevole distacco, che permette di inquadrare le vicende con occhio più lucido, guardando oltre l’orrore immediato e riflettendo sullo stesso in maniera ben più profonda e contemporanea.
Insomma, non potete perdervelo.
Flusso
L’incipit de Il pianista è significativo.
Il punto di partenza è la realtà più piccola ed apparentemente protetta della radio, dove il protagonista fa innamorare il pubblico con la sua esibizione, per essere poi drasticamente interrotto da un’esplosione che ne trancia l’esibizione.
È così la macchina nazista che ha fatto irruzione.
Infatti la vicenda comincia in un certo senso in medias res, quando la repressione sistematica degli ebrei è già stata avviata, e Szpilman e la sua famiglia sono già sottoposti alle costanti riduzioni della loro libertà personale, disgregata pezzo per pezzo, diritto dopo diritto.
E vani sono i tentativi dei personaggi di conservare la propria dignità, di vivere sotto traccia, perché è la loro stessa esistenza ad essere minacciata, il loro esistere sotto lo stesso cielo di Hitler e dei suoi seguaci, per cui anche passeggiare su un marciapiede è un delitto.
E già qui si spargono i semi del tema cardine della pellicola.
Passivo
Perché nessuno interviene?
È una domanda quanto mai attuale, che potrebbe farsi uno spettatore sia de Il pianista, sia delle vicende storiche raccontate in toto: il panorama sociale sembra dominato da un popolo di indifferenti o, peggio, di omertosi, financo di complici.
Insomma, una prospettiva piuttosto desolante: oltre alle timide proteste dette a bassa voce, nessuno sembra avere la capacità di ribellarsi e di opporsi effettivamente al potere dominante, e tutti rimangono impotenti ad osservare la storia mentre si compie drammaticamente davanti a loro occhi.
Eppure, Polanski non vuole condannare questo aspetto.
La rappresentazione dell’occupazione nazista è estremamente significativa per comprendere la portata dell’orrore a cui si doveva far fronte: pur nelle loro sfumature, i nazisti sono rappresentati come cani lasciati a briglia sciolta, che agiscono con la consapevolezza di poter rimanere infinitamente impuniti.
Proprio per questo la violenza, come il prepotente schiaffo che Samuel Szpilman ottiene in piena faccia per aver osato passeggiare sul marciapiede, appare improvvisa, irragionevole e senza una logica, se non il puro desiderio di esercitarla.
Di fatto, nessun cittadino polacco, che fosse ebreo o meno, poteva sentirsi al sicuro, in quanto era possibile che persino il più innocente di loro potesse essere casualmente scelto per essere la vittima del giorno – e senza nessuna ragione.
Ma la paura non ci ha resi immobili.
Reazione
Il pianista non parla di eroi.
Szpilman si fa largo in un panorama profondamente ambiguo, una rete umana di cui riesce a comprendere vagamente i contorni, una catena di contatti che lavorano sottobanco per fare quello che possono per arginare l’incontrollabile minaccia nazista.
Ma i limiti delle loro possibilità sono subito evidenti nei continui cambi di dimora, nel protagonista che spesso si trova abbandonato a se stesso, costretto a cibarsi degli ultimi avanzi che la miseria ha lasciato dietro di sé, sempre più irriconoscibile nella forma.
Ed è un discorso tanto più interessante quando si parla di Wilm Hosenfeld.
Polanski ha a mio parere consapevolmente riscritto la storia di quello che sarebbe definibile, senza timor di smentita, un eroe di guerra, che fu un punto di riferimento fondamentale per diversi ebrei che riuscirono a sfuggire dallo sterminio.
Nella scena dell’incontro fra i due infatti sembra come se il dubbioso nazista scelga di salvare Szpilman per le sue incredibili capacità di musicali, mentre per me il suo approccio ha un significato ben più profondo: il protagonista è la scintilla di una consapevolezza sopita.
Arbitrio
Sono innumerevoli i personaggi che potrebbero definirsi pentiti di aver supportato la dittatura nazista, nonostante il loro appoggio potesse essere derivato dalle motivazioni più diverse – ambiziosi personali, opportunità di carriera, o un semplice essere coinvolti senza neanche rendersene conto.
Per questo Szpilman e, soprattutto, la sua musica, può essere interpretata come il racconto del perno di una collettività fragile, ribaltata dall’esasperazione degli odi interni da parte di Hitler, ma mai veramente soffocata dalla stessa…
…e che Hosenfeld vede in quel momento la possibilità di ricomporre.
In altri termini, questo perfetto nazista si trovava in una situazione di totale libero arbitrio, in cui poteva ancora decidere di agire impunemente, e in cui ha scelto da che parte della storia stare, rendendo la salvezza del protagonista l’ultimo atto del suo importante ripensamento.
E così arriviamo all’ultimo punto della riflessione.
Spettatore
Chi è Władysław Szpilman?
La narrazione sull’Olocausto raramente si distacca da un racconto a tre piuttosto semplice ed immediato.
Ovvero eroi, vittime e carnefici.
E per quanto sia sicuramente una narrazione rappresentativa del dramma nazista, spesso la stessa tende ad allontanare il discorso dallo spettatore che non ha vissuto in prima persona i fatti raccontati e che, per questo, li vede come isolati e lontani dal suo presente.
Invece, Il pianista si propone proprio di raccontare la tragedia più profonda, quella di un popolo talmente sconvolto da spesso non essere capace di opporsi, ma solo di rimanere a guardare – o, al massimo, di reagire quando non vi è più alcuna possibiltà di vittoria.
Ed è proprio quello che Szpilman rappresenta.
Il protagonista potrebbe essere quasi definito un ignavo, una persona che è riuscita, mai per merito suo, ma sempre grazie ad altre figure più proattive, oltre ad una buona dose di fortuna, a salvare se stesso.
Szpilman rappresenta insomma tutto il sommerso, l’uomo comune che è finito in balia degli eventi, che si pose, anche nei decenni successivi, nella posizione di riflettere sulla radice della vertiginosa ascesa dei totalitarismi, una causa intrinseca nella società umana, di cui è stato sempre spettatore inconsapevole…
…proprio come ben racconta lo scambio finale:
Perché la regia di Polanski è così fredda?
In coda, vorrei analizzare la regia di una scena emblematica de Il pianista.
In uno dei primi momenti all’interno del ghetto, la famiglia Szpilman si trova ad osservare l’irruzione di un gruppo di nazisti nel palazzo di fronte – uno dei momenti cardine del racconto dell’impotenza dei personaggi davanti alla storia:
Ma l’aspetto interessante è come la scena è raccontata.
Come siamo abituati ad un cinema sul tema caricato all’inverosimile di momenti drammatici e toccanti, con una regia che abbonda – e, spesso, abusa – di primi piani stretti e particolari sul dolore protagonisti, impegnandosi nello spremere più lacrime possibili nello spettatore…
…allo stesso modo Polanski sceglie una regia fredda e distante, che alterna piani americani sulla famiglia Szpilman, sostanzialmente immobile e impotente, ad accezione del grido subito soffocato della madre, e una camera fissa con campi medi sulla scena dell’appartamento di fronte.
Un’importante scelta di stile e di significato che dimostra come, anche spogliando la storia delle sue punte più violente, anche limitandosi a mostrare corpi che cadono muti a terra, personaggi impacciati e umiliati che ballano o sono trascinati via a bocconi…
…l’immensità del dramma arriva comunque potentissima.