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Scissione – Contro me stesso

Scissione (2022 – …) di Dan Erickson, e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle, è una delle serie tv di punta di Apple TV Plus.

Di cosa parla Scissione?

Mark fa un lavoro molto particolare: non sa quale sia il vero obbiettivo della sua routine lavorativa e in un certo senso…non sa neanche di essere al lavoro.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scissione?

Tutto il cast di Scissione in una scena di Scissione (2022 - ...)

Assolutamente sì.

Scissione è un serie di punta della piattaforma non a caso: l’idea di base non solo è particolarmente originale – e legata strettamente alla contemporaneità – ma è anche messa in scena con una coerenza estetica e di scrittura che riesce immediatamente a catturare lo spettatore.

Insomma, se vi intrigano le serie fra il mistero e la fantascienza, è un prodotto imperdibile.

Le seguenti recensioni, divise per stagione, sono state scritte senza avere conoscenza di quanto successo dopo.

Scissione – Stagione 2

Tutta la prima parte della stagione è finalizzata a (ri)nchiudere i personaggi in una scatola.

Interessante in questo senso l’idea di sdoppiare la vicenda in due puntate per raccontare i diversi punti di vista, cominciando con il disperato tentativo arginare lo strabordare impetuoso di un caos ormai inarrestabile, tramite le promesse di benefit totalmente illusori per risolvere la questione.

In questo senso Scissione racconta a suo modo una contemporaneità piuttosto stringente, in cui il lavoratore, soprattutto quello più giovane, si è ormai risvegliato dal suo torpore, e non accetta più un sistema che lo manipola per il mero guadagno, e lo accontenta con premi di nessun valore.

Adam Scott (Mark S.) e Britt Lower (Helly) in una scena di Scissione (2022 - ...)

Tuttavia, forse, la serie tira troppo la corda.

Il momento in cui mi è personalmente – e, per fortuna temporaneamente – sceso l’interesse per la serie è stata la puntata dedicata alla gita fuori porta, ulteriore tentativo di Lumon di portare i suoi dipendenti ad abbracciare la filosofia dell’azienda – o, per meglio dire, di diventare discepoli del suo culto.

Britt Lower (Helly) in una scena di Scissione (2022 - ...)

Questo frangente mi è sembrato molto contraddittorio, in quanto spargeva molti indizi concreti sulla religione di Kier – in parte ancora raccontati nella puntata dedicata a Ms. Cobel – ma, al contempo, si concentrava prettamente sui suoi personaggi, dando più volte importanza a figure che non erano mai state così protagoniste.

Insomma, per quanto sia consapevole che la stagione non poteva rivelare fin da subito tutte le sue carte, avrei preferito un approfondimento maggiore riguardo la mitologia di Scissione, piuttosto che mettere in scena dinamiche dall’interesse molto limitato – come la sostituzione di Helly, che si risolve fin troppo velocemente.

Infatti, i lati interessati della stagione sono da ricercare altrove.

La ritrovata importanza di Gemma nella seconda stagione di Scissione è stata anche la parte più vincente.

In una sola puntata si è riusciti a tratteggiare con abbastanza precisione l’andamento del loro rapporto, che si è andato a spezzare proprio nel momento di massima crisi, costringendo entrambi nella condizione di topi di laboratorio su cui viene sperimentata una non meglio precisata dissoluzione del dolore.

Di fatto, Gemma è stata scorporata esattamente in venticinque personalità, ognuna costretta ad una situazione totalmente diversa, ma definita da un comune denominatore: il profondo dolore, parte di un pacchetto di emozioni che lo stesso Mark S. è incaricato di ripulire da ogni sensazione negativa.

E, anche se la serie non lo racconta esplicitamente, è forse abbastanza semplice comprendere il progetto Cold Harbor.

È quanto mai probabile che le sperimentazioni di Kier fossero finalizzare a trovare un modo per eliminare ogni sentimento dolore, anche il più insopportabile, creando una barriera mentale che scinde l’identità angosciata in una invece che non ne ha alcuna e quindi è più felice.

Eppure, c’è una scheggia…impazzita?

Mark S. ha diritto di esistere?

Come Helly nella prima stagione si trovava strenuamente in lotta con la sua outie, il protagonista nell’ultima puntata si trova a scontrarsi con una consapevolezza sconcertante: il suo innie non vuole morire, non ha interesse ad essere secondo rispetto a lui, né ad abbandonare il microcosmo che si è creato.

Che questa sia un’idea della stessa Lumon è troppo presto per ipotizzarlo, ma di fatto Mark si riscopre impossibilitato a riprendersi in mano la sua vita perché il suo alter ego ha costruito una personalità e delle relazioni talmente importanti che si rifiuta infine di lasciarle da parte…

…non volendo di vivere in un mondo dove Helly R. non solo è una sconosciuta, ma la sua stessa oppositrice.

Quindi, in un certo senso, la vittoria di Kier è lo stesso Mark S.?

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M – E sarete anche voi f…

M – Il figlio del secolo (2025 – …) è una serie tv italiana basata sull’omonimo romanzo storico di Antonio Scurati, con protagonista Luca Marinelli nei panni di Benito Mussolini.

La serie TV è stata co-prodotta da Sky Studios e distribuita in esclusiva sui suoi spazi.

Di cosa parla M – Il figlio del secolo?

Rivolgendosi direttamente allo spettatore, Mussolini si racconta nella sua ascesa al potere.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere M – Il figlio del secolo?

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Assolutamente sì.

A più di un secolo di distanza dall’inizio del Ventennio, non avevamo bisogno di un altro prodotto incolore sul tema – come d’altronde neanche l’ennesimo film sull’Olocausto condito con un pietismo molto spicciolo – che non aggiungesse niente di nuovo alla discussione…

…e proprio per questo M – Il figlio del secolo è la serie di cui avevano una disperata necessità, capace di farci veramente comprendere le dinamiche dietro alla rapida ascesa di Mussolini, creando, proprio come quella meraviglia di La zona d’interesse (2023), un dialogo diretto con il presente.

Insomma, non ve la potete perdere.

Per semplicità e per distinguere la figura storica da quella della serie, qui di seguito Mussolini portato in scena da Marinelli sarà chiamato semplicemente M.

Promessa

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

M – Il figlio del secolo si apre con una promessa:

Seguitemi, anche voi mi amerete, anche voi diventerete fascisti.

E già così, M racconta tutto sul suo personaggio.

Infatti il dialogo che il protagonista intraprende con noi è finalizzato a convincerci ad apprezzare le sue idee, la sua figura, mostrandosi con i suoi pensieri, paure ed emozioni così da rendersi più umano e vicino a noi, pur in tutte le sue contraddizioni.

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Ed è un percorso pericolosissimo, che rischia in ogni momento di cadere nel ridicolo, ma che invece riesce nel rendere l’idea di un ributtante macchinatore capace di dire tutto e il contrario di tutto per far trionfare il sogno nascente del superuomo.

In altre parole, M è il figlio del suo tempo.

Super

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Mussolini è imbattibile?

Il fascismo – come d’altronde anche il nazismo, pur con finalità differenti – si basava sul raccogliere le macerie di un paese distrutto socialmente ed emotivamente dalla Grande Guerra – da cui, ricordiamolo, non aveva di fatto ottenuto nulla – proprio con la promessa di una rinascita gloriosa.

Proprio per questo la posizione politica di Mussolini è così fumosa e contraddittoria, in quanto non si basa su una specifica parte in gioco, ma bensì sul far emergere un risentimento sotterraneo piuttosto trasversale, e farlo diventare un micidiale strumento di violenza e di distruzione.

Per questo M ha sempre bisogno di giustificarsi ai nostri occhi – e, per estensione, agli occhi del suo popolo – perché non può mai mostrare il fianco alla sua debolezza intrinseca e innegabile: essere un simbolo basato su un ideale irraggiungibile e facilmente trasferibile.

Non a caso, il primo nemico di M è proprio D’Annunzio, l’apoteosi del Superuomo, che già da decenni era stato capace di far innamorare il popolo italiano della sua figura, diventando un personaggio incredibilmente variegato e trasversale in tutti i campi, dalla politica all’arte.

Per questo, nel concreto, la posizione politica di M è così fragile.

Dualità

Il fascismo nasce dal basso…

… ma, per vincere, non può rimanere in basso.

M muove infatti i primi passi dal Partito Socialista, quindi vicino al proletariato e alle rivendicazioni sociali nate in seno alla Rivoluzione Comunista, ma si distacca dallo stesso in quanto troppo timido nel non avere il coraggio di prendere di petto la storia e piegarla al suo volere.

Per questo le prime fila fasciste sono formate da un braccio armato di estrazione popolare, da un gruppo di cani – come lui stesso li definisce – capaci delle peggiori nefandezze pur di vendicarsi dei propri nemici, ma senza che M in persona si sporchi mai veramente le mani.

Infatti, il futuro di M è tutto borghese.

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Più il protagonista si avvicina al Parlamento, più si allontana dai primi sentimenti di rivoluzione violenza che lui stesso ha fomentato, proprio a raccontare come il suo appoggio politico fosse una semplice questione di opportunismo, di raccogliere gli umori della parte che più gli faceva gioco in quel momento.

E il vero alleato di M è infatti la tanto odiata borghesia, di cui di fatto comincia a far parte, diventando il più classico arricchito che si dimentica della sua estrazione originaria, che si lascia alle spalle lo squallore della sua famiglia per abbracciare il lusso delle camere presidenziali e dell’amante.

E se questo non bastasse?

Inconsapevolezza

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Potevamo fermare il Fascismo?

M – Il figlio del secolo racconta in più momenti come la scalata di Mussolini poteva essere frenata anche con poca fatica, ma che fu avallata proprio dalla totale inconsapevolezza e mancanza di reattività da parte delle altre parti politiche, così litigiose e divise fra loro.

Non a caso in più occasioni sembra che il Fascismo sia finito prima ancora di cominciare: dalla baracconata della Marcia su Roma – un dichiarato bluff piuttosto fortunato – fino allo stresso Delitto Matteotti, che rese manifesta la vera natura del Fascismo.

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

E proprio in queste occasioni M ci parla direttamente.

Quando Matteotti si scaglia furibondo verso la legge elettorale liberticida, richiamando la Sinistra alla consapevolezza di star dando uno spazio sempre più incontenibile alla minaccia fascista, M ci guarda e ci conferma che no, non si stavano rendendo conto di quello che stava succedendo…

…ma, soprattutto, nel finale di stagione, quando M dà l’esplicita possibilità al Parlamento di eliminarlo dalla scena politica, ma lo stesso rimane inerte davanti alla sua provocazione, in un assordante silenzio che riecheggia ad un secolo di distanza nel nostro drammatico presente.

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Il pianista – Dall’altra parte

Il pianista (2002) di Roman Polanski è uno dei titoli più noti della sua carriera sia, più in generale, del cinema sull’Olocausto.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 120 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il pianista?

Władysław Szpilman è un ottimo pianista che riesce a conquistare le folle grazie al suo programma radiofonico. Eppure la radio è fra le prime cose che gli toglieranno in quanto ebreo

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il pianista?

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Se vi dicessi assolutamente sì non sarebbe abbastanza.

Il pianista è indubbiamente una delle migliori opere in assoluto sul tema, proprio per la sua capacità di farci spostare l’occhio dai lati più strazianti della vicenda verso una prospettiva diversa, di cui è rimasto ai margini della storia.

Oltretutto, la regia è precisa e perfetta nella sua dovuta freddezza e nel suo consapevole distacco, che permette di inquadrare le vicende con occhio più lucido, guardando oltre l’orrore immediato e riflettendo sullo stesso in maniera ben più profonda e contemporanea.

Insomma, non potete perdervelo.

Flusso

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

L’incipit de Il pianista è significativo.

Il punto di partenza è la realtà più piccola ed apparentemente protetta della radio, dove il protagonista fa innamorare il pubblico con la sua esibizione, per essere poi drasticamente interrotto da un’esplosione che ne trancia l’esibizione.

È così la macchina nazista che ha fatto irruzione.

Infatti la vicenda comincia in un certo senso in medias res, quando la repressione sistematica degli ebrei è già stata avviata, e Szpilman e la sua famiglia sono già sottoposti alle costanti riduzioni della loro libertà personale, disgregata pezzo per pezzo, diritto dopo diritto.

E vani sono i tentativi dei personaggi di conservare la propria dignità, di vivere sotto traccia, perché è la loro stessa esistenza ad essere minacciata, il loro esistere sotto lo stesso cielo di Hitler e dei suoi seguaci, per cui anche passeggiare su un marciapiede è un delitto.

E già qui si spargono i semi del tema cardine della pellicola.

Passivo

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Perché nessuno interviene?

È una domanda quanto mai attuale, che potrebbe farsi uno spettatore sia de Il pianista, sia delle vicende storiche raccontate in toto: il panorama sociale sembra dominato da un popolo di indifferenti o, peggio, di omertosi, financo di complici.

Insomma, una prospettiva piuttosto desolante: oltre alle timide proteste dette a bassa voce, nessuno sembra avere la capacità di ribellarsi e di opporsi effettivamente al potere dominante, e tutti rimangono impotenti ad osservare la storia mentre si compie drammaticamente davanti a loro occhi.

Eppure, Polanski non vuole condannare questo aspetto.

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

La rappresentazione dell’occupazione nazista è estremamente significativa per comprendere la portata dell’orrore a cui si doveva far fronte: pur nelle loro sfumature, i nazisti sono rappresentati come cani lasciati a briglia sciolta, che agiscono con la consapevolezza di poter rimanere infinitamente impuniti.

Proprio per questo la violenza, come il prepotente schiaffo che Samuel Szpilman ottiene in piena faccia per aver osato passeggiare sul marciapiede, appare improvvisa, irragionevole e senza una logica, se non il puro desiderio di esercitarla.

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Di fatto, nessun cittadino polacco, che fosse ebreo o meno, poteva sentirsi al sicuro, in quanto era possibile che persino il più innocente di loro potesse essere casualmente scelto per essere la vittima del giorno – e senza nessuna ragione.

Ma la paura non ci ha resi immobili.

Reazione

Il pianista non parla di eroi.

Szpilman si fa largo in un panorama profondamente ambiguo, una rete umana di cui riesce a comprendere vagamente i contorni, una catena di contatti che lavorano sottobanco per fare quello che possono per arginare l’incontrollabile minaccia nazista.

Ma i limiti delle loro possibilità sono subito evidenti nei continui cambi di dimora, nel protagonista che spesso si trova abbandonato a se stesso, costretto a cibarsi degli ultimi avanzi che la miseria ha lasciato dietro di sé, sempre più irriconoscibile nella forma.

Ed è un discorso tanto più interessante quando si parla di Wilm Hosenfeld.

Polanski ha a mio parere consapevolmente riscritto la storia di quello che sarebbe definibile, senza timor di smentita, un eroe di guerra – o, più correttamente, giusto fra le nazioni – che fu un punto di riferimento fondamentale per diversi ebrei che riuscirono a sfuggire dallo sterminio.

Nella scena dell’incontro fra i due infatti sembra come se il dubbioso nazista scelga di salvare Szpilman per le sue incredibili capacità di musicali, mentre per me il suo approccio ha un significato ben più profondo: il protagonista è la scintilla di una consapevolezza sopita.

Arbitrio

Sono innumerevoli i personaggi che potrebbero definirsi pentiti di aver supportato la dittatura nazista, nonostante il loro appoggio potesse essere derivato dalle motivazioni più diverse – ambiziosi personali, opportunità di carriera, o un semplice essere coinvolti senza neanche rendersene conto.

Per questo Szpilman e, soprattutto, la sua musica, può essere interpretata come il racconto del perno di una collettività fragile, ribaltata dall’esasperazione degli odi interni da parte di Hitler, ma mai veramente soffocata dalla stessa…

…e che Hosenfeld vede in quel momento la possibilità di ricomporre.

In altri termini, questo perfetto nazista si trovava in una situazione di totale libero arbitrio, in cui poteva ancora decidere di agire impunemente, e in cui ha scelto da che parte della storia stare, rendendo la salvezza del protagonista l’ultimo atto del suo importante ripensamento.

E così arriviamo all’ultimo punto della riflessione.

Spettatore

Chi è Władysław Szpilman?

La narrazione sull’Olocausto raramente si distacca da un racconto a tre piuttosto semplice ed immediato.

Ovvero eroi, vittime e carnefici.

E per quanto sia sicuramente una narrazione rappresentativa del dramma nazista, spesso la stessa tende ad allontanare il discorso dallo spettatore che non ha vissuto in prima persona i fatti raccontati e che, per questo, li vede come isolati e lontani dal suo presente.

Invece, Il pianista si propone proprio di raccontare la tragedia più profonda, quella di un popolo talmente sconvolto da spesso non essere capace di opporsi, ma solo di rimanere a guardare – o, al massimo, di reagire quando non vi è più alcuna possibiltà di vittoria.

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Ed è proprio quello che Szpilman rappresenta.

Il protagonista potrebbe essere quasi definito un ignavo, una persona che è riuscita, mai per merito suo, ma sempre grazie ad altre figure più proattive, oltre ad una buona dose di fortuna, a salvare se stesso.

Szpilman rappresenta insomma tutto il sommerso, l’uomo comune che è finito in balia degli eventi, che si pose, anche nei decenni successivi, nella posizione di riflettere sulla radice della vertiginosa ascesa dei totalitarismi, una causa intrinseca nella società umana, di cui è stato sempre spettatore inconsapevole…

…proprio come ben racconta lo scambio finale:

– E perché indossi quel cappotto?
– Ho freddo.

Perché la regia di Polanski è così fredda?

In coda, vorrei analizzare la regia di una scena emblematica de Il pianista.

In uno dei primi momenti all’interno del ghetto, la famiglia Szpilman si trova ad osservare l’irruzione di un gruppo di nazisti nel palazzo di fronte – uno dei momenti cardine del racconto dell’impotenza dei personaggi davanti alla storia:

Ma l’aspetto interessante è come la scena è raccontata.

Come siamo abituati ad un cinema sul tema caricato all’inverosimile di momenti drammatici e toccanti, con una regia che abbonda – e, spesso, abusa – di primi piani stretti e particolari sul dolore protagonisti, impegnandosi nello spremere più lacrime possibili nello spettatore…

…allo stesso modo Polanski sceglie una regia fredda e distante, che alterna piani americani sulla famiglia Szpilman, sostanzialmente immobile e impotente, ad accezione del grido subito soffocato della madre, e una camera fissa con campi medi sulla scena dell’appartamento di fronte.

Un’importante scelta di stile e di significato che dimostra come, anche spogliando la storia delle sue punte più violente, anche limitandosi a mostrare corpi che cadono muti a terra, personaggi impacciati e umiliati che ballano o sono trascinati via a bocconi…

…l’immensità del dramma arriva comunque potentissima.

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Women Talking – Una violenza da camera

Women Talking (2022) di Sarah Polley è un dramma storico ispirato ai reali eventi della colonia di Manitoba in Bolivia nel 2011.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 20 milioni di dollari – nonostante l’ottimo riscontro agli Oscar 2023, è stato un tremendo insuccesso commerciale: 9 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Women Talking?

Un gruppo di donne senza nome nella comunità mennonita scopre di essere stato ripetutamente violentato nella notte dagli uomini della colonia.

E ora bisogna scegliere cosa fare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Women Talking?

Rooney Mara in una scena di Women Talking (2022) di Sarah Polley

Assolutamente sì.

Women Talking è stata davvero una bella sorpresa: un film che può essere considerato quasi un dramma da camera, basato quasi esclusivamente sul serrato dialogo fra le protagoniste, è risultato infine incredibilmente coinvolgente e stimolante.

Lo scambio fra i personaggi è infatti ben calibrato nei toni e negli argomenti, andando a toccare delle tematiche non scontate e muovendosi sempre con grande delicatezza ed eleganza in argomenti per cui era facile scadere nel facile melodramma.

Insomma, da riscoprire.

Antefatto

L’incipit di Women Talking è stato per me piuttosto sorprendente.

Come mi aspettavo quantomeno un primo atto dedicato all’atto scatenante della pellicola, invece lo stesso diventa l’antefatto che si intreccia con la narrazione introduttiva della storia, che vive di poche inquadrature ben scelte.

Infatti del fattaccio intravediamo solamente pochi attimi, frammenti di ricordi delle stesse protagoniste, che evitano abilmente di dare fin troppa enfasi alla violenza in sé, insomma di darla in pasto al pubblico…

…raccontandone principalmente le conseguenze.

E in questa fase si può anche perdonare la principale forzatura della pellicola, che agisce quasi come un what if… della storia reale – al pari del romanzo a cui si ispira – che diventa quasi un pretesto per intavolare un discorso non scontato su violenza, potere e colpe.

Perché le protagoniste hanno in realtà una via più facilmente percorribile…

Perdono

Dio ha molte facce.

Dio è vendicativo, violento e giustiziere, e prende possesso di Salome quando si ribella come una furia all’ordine corrente, andando a ribadire la stessa violenza che ha dovuto subire sui colpevoli, tanto da dover essere trattenuta nel suo slancio omicida.

Ma Dio è anche perdono, ed è quello che viene richiesto alle vittime: lasciarsi alle spalle questi orribili atti e riaccogliere questi uomini che verranno solo sommariamente puniti dalla giustizia terrena, e che potranno così liberamente tornare a avventarsi su di loro.

Quindi le vie percorribili sono due.

Rimanere, rimanere sottomesse e passive a quelli che credevano essere i loro compagni e fratelli, accettare il perdono e mantenere intatta la comunità e i suoi fragili equilibri, unico luogo che conoscono e da cui sono state definite, anche in queste nuove condizioni.

Oppure combattere, prendere in mano armi di fortuna e rispondere alla violenza con una furia che le protagoniste forse nemmeno sospettavano di avere dentro di sé, ma che è un’opzione più volte accarezzata per riuscire finalmente ad autodeterminarsi.

Oppure…

Fuga

Gli uomini possono andarsene?

Le protagoniste si trovano in una situazione del tutto nuova, in cui riscoprono il loro diritto di parola, il potere della stessa, e come questa può essere esercitata non solo contro di loro, ma contro gli uomini stessi.

Per una volta, insomma, queste donne che non avevano portato avanti nemmeno le più minuscole richieste, i più piccoli favori all’interno dell’universo domestico, realizzano il paradosso di intraprendere ora una richiesta così importante.

Perché, l’alternativa è scappare.

Questa prospettiva cresce progressivamente all’interno del gruppo, si rincorre nelle parole di queste donne spaventate e senza meta, tenute appositamente nell’ignoranza per depotenziarle…

…ma che al contempo cresce come consapevolezza di essere l’unica via possibile per continuare a vivere, trovandosi ormai in un punto di non ritorno, con una consapevolezza che non possono più ignorare.

E allora, di chi è la colpa?

Colpa

Rooney Mara e Claire Foy in una scena di Women Talking (2022) di Sarah Polley

La colpa è di tutti.

Uno dei frangenti più interessanti del dialogo di Women Talking riguarda l’indagine della radice dello stupro, giungendo alla dramma consapevolezza di averne sempre avuto indizi sulla futura violenza sotto i loro occhi, come se la matrice della stessa fosse sempre stata insita nella colonia.

Per questo diventa ancora più importante capire come scrivere diversamente il futuro, come evitare che questa dinamica si ripeta, andando così a porre su un quesito per nulla semplice: quanto possono essere pericolosi i nostri stessi figli che muovono i primi passi verso pubertà?

Ne deriva un ritratto piuttosto sfumato e sorprendente di un’età imprevedibile e turbolenta, che si intreccia con la consapevolezza intergenerazionale di essere state passive davanti ad un dramma che si stava già consumando – e che era solo l’antipasto della violenza che ne è seguita.

E infine non ci rimane altro che vedere queste donne dirigersi verso un orizzonte incerto, senza aver bisogno di sapere altro sul loro futuro e sul loro eventuale fallimento, rinfrancandoci con la visione della loro definitiva autodeterminazione.

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The Elephant Man – Dietro l’orrore

The Elephant Man (1980) è il primo film della fase commerciale di David Lynch – aperta e chiusa in pochi anni con Dune (1984).

A fronte di un budget molto piccolo – 5 milioni di dollari, circa 19 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 26 milioni in tutto il mondo (circa 100 oggi).

Di cosa parla The Elephant Man?

Frederick Treves è uno studioso di chirurgia che si trova davanti ad un caso veramente anomalo. Ma quello che sembra solo una bestia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Elephant Man?

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

In generale, sì.

Facendo parte del suo timido approccio al grande pubblico di Lynch, The Elephant Man non offre ovviamente la tipica esperienza della sua filmografia, ridotta a pochi accenni comunque ben pensati, ma che mai farebbero pensare ad uns sua pellicola.

Tuttavia, nel complesso rimane una pellicola godibile, che in tempi non sospetti affronta con rara delicatezza – e, soprattutto, senza una virgola di pietismo – la storia di un moderno Frankenstein da un altro punto di vista.

Insomma, dategli un’occasione.

Nascosto

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

Una delle idee più indovinate di The Elephant Man è tenere per lungo tempo nascosto il protagonista.

Infatti, quella che potrebbe sembrare la classica tattica di questo tipo di film di tenere nascosto il mostro per accrescere la curiosità morbosa dello spettatore, è invece un modo intelligente e sottile di fare in modo di farci vedere prima la crudeltà che circonda il personaggio…

…così da farci empatizzare con lui per la sua condizione ora di fenomeno da baraccone, quasi una bestia, e poi come corpo che mostrare e umiliare a piacimento per una dimostrazione scientifica, senza mai curarsi dei suoi sentimenti.

E così, pur arrivando alla rivelazione del suo mostruoso aspetto in una modalità molto classica, ci arriviamo anche carichi di una particolare consapevolezza sull‘angoscia ancora inespressa di questa creatura, che proprio per la mancanza apparente di intelletto non può avere alcuna dignità.

Eppure…

Prova

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

John deve dare prova della sua umanità.

I goffi tentativi del Dottor Treves sono facilmente rivelati come se volesse ammaestrare l’uomo elefante, quasi come una scimmia che non fa altro che imitare il parlato umano, ma senza avere alcun tipo di capacità di elaborare pensieri propri.

E invece molti timidamente infine il protagonista riesce a dimostrare di essere molto più di quello che sembra, di saper decantare interi passi di opere letterarie, che ha segretamente imparato a memoria, e che gli permettono di evadere questa dolorosa condizione.

E nella fase centrale, man mano che John acquisisce il suo nuovo status, il film viaggia sul filo di un pericoloso pietismo, proprio per le struggenti esternazioni del protagonista davanti alla ritrovata e insperata gentilezza nei suoi confronti.

Eppure The Elephant Man rimane sempre solido su questo fronte…

…e per fortuna, considerando l’ultimo atto.

Agguato

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

Lo stato bestiale è sempre in agguato.

È in agguato nelle parole delle domeniche, le stesse che sulle prime erano inorridite dall’aspetto di John, ma che ora invece si dimostrano concretamente preoccupate davanti alla curiosità morbosa degli ospiti di John…

…per paura che il protagonista possa essere ferito da individui che lo continuano a considerare come un fenomeno fa baraccone.

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

E quel pericolo è sempre in agguato soprattutto per la presenza del crudele, colpevole di una scena veramente struggente in cui John viene totalmente spogliato della sua ritrovata umanità per diventare una pura bestia da strattonare secondo i desideri del pubblico…

…per poi essere definitivamente rapito per capitalizzare sulla sua pelle, spogliato e rinchiuso in una gabbia, vittima del generale ludibrio, che perlomeno attrae la naturale pietà degli altri freaks, che gli offrono la possibilità di fuggire.

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

Ma non basta.

Nel finale è fondamentale per il protagonista riuscire finalmente ad autodeterminarsi come uomo, davanti ad una folla pronta ad assaltarlo, accompagnandoci così ad un finale agrodolce, in cui John si abbandona ad un sonno sereno di quel che rimane della sua breve vita.

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Hazbin Hotel – La rivoluzione comincia dal basso

Nata come progetto indipendente su YouTube dalla sua creatrice, Vivienne Medrano, Hazbin Hotel (2019 – …) è diventato un fenomeno di costume, raccogliendo appassionati in tutti il mondo.

Se sapete già tutto sulla serie, cliccate qui per saltare alla parte spoiler. Se invece per voi è tutto nuovo, continuate a leggere.

Hazbin Hotel Guida Alla visione

Charlie Morningstar è la figlia di Lucifero e Lilith, i due ribelli biblici per eccellenza, impegnata nell’ambizioso progetto di salvare l’Inferno dal totale degrado con il suo Hazbin Hotel.

Ma la strada della redenzione è tutta in salita…

Charlie in una scena di Hazbin Hotel (2023 - ...)

Non posso che dirvi sì, assolutamente.

Hazbin Hotel è la classica serie che sembra mettere una serie di ostacoli apparentemente insormontabili per molti spettatori (io per prima): è un prodotto animato ed è un musical.

Lasciando da parte il pregiudizio sull’animazione – è dichiaratamente un prodotto per adulti – da non amante dei film musicali sono rimasta totalmente conquistata dalla bellezza della storia e delle canzoni.

Adamo e Lute in una scena di Hell is forever di Hazbin Hotel (2023 - ...)

Infatti quella che potrebbe sembrare l’ennesima riscrittura moderna della mitologia cristiana, è in realtà una profonda riflessione sul classismo odierno e sull’inevitabile conflitto generazionale che lo accompagna.

Oltre a questo, la colonna sonora è ricca di metafore e simbologie piuttosto ricercate, che intessono una narrazione musicale che dialoga fortemente con sé stessa, risultando assolutamente indimenticabile.

Insomma, superate i vostri pregiudizi e dategli una chance.

Sì e no.

La serie di Prime ha un atteggiamento piuttosto ambiguo sulla questione: una parte fondamentale della storia – l’origine di Alastor – presente nel pilot è ri-raccontata a metà stagione, in maniera secondo me anche migliore – e dopo aver lasciato ampio respiro al personaggio.

Al contempo, nel pilot sono presenti informazioni abbastanza importanti per comprendere appieno la trama, rispondendo a domande altrimenti insolute – in poche parole, molti dei personaggi presenti all’hotel non si capisce perché e come siano arrivati lì.

Il mio consiglio è di guardarvi la serie su Prime e solo dopo il pilot, così da colmare quei piccoli dubbi che sicuramente vi saranno venuti.

Banalmente, entrambi.

La scrittura dei dialoghi di Hazbin Hotel, soprattutto per le canzoni, è particolarmente ostica, in quanto spesso si utilizza un vocabolario piuttosto ricco e ricercato, con diversi giochi di parole sostanzialmente intraducibili in italiano.

Eppure, l’adattamento e il doppiaggio italiano di Hazbin Hotel è indubbiamente uno dei migliori che ho ascoltato in tempi recenti, che ha veramente fatto del suo meglio per rendere tutte le sfumature di significato della serie, anche quando sembrava davvero impossibile.

Insomma, se masticate abbastanza bene l’inglese, vi consiglio di darle una prima occhiata in originale, e poi rivederla in italiano.

Al contrario, se vi sentite più a vostro agio con i prodotti doppiati, è godibilissima anche in italiano, ma vi consiglio di rivedervi almeno le canzoni in inglese, per cogliere alcuni elementi che purtroppo non possono essere resi appieno nell’adattamento.

E Helluva Boss?

Helluva Boss è lo spin off di Hazbin Hotel – anche se tecnicamente sarebbe il contrario, perché questa serie è nata prima – ed è disponibile gratuitamente su YouTube, dove vengono pubblicate periodicamente le nuove puntate.

È una serie molto diversa da Hazbin Hotel per la gestione della storia: si tratta sostanzialmente di puntate autoconclusive con una trama di fondo che viene spalmata su diversi episodi, ricalcando temi già espressi nella serie madre, ma affrontando altri punti di vista altrettanto interessanti.

Inoltre, è un banco di prova molto importante per l’evoluzione evidente della animazione di Vivienne Medrano, che migliora puntata dopo puntata con sperimentazioni sempre più ardite ed affascinanti…

….che spero di trovare anche nel seguito di Hazbin Hotel.

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Match Point – Una trappola personale

Match Point (2005) è il primo film strettamente drammatico della carriera di Woody Allen, al tempo considerato anche il suo grande ritorno artistico.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 15 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale: 85 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Match Point?

Chris è un ex campione di tennis che sbarca il lunario lavorando in un club sportivo come istruttore. Ma la fortuna sarà più dalla sua parte di quanto potrebbe pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Match Point?

Scarlett Johansson e Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Match Point, insieme al successivo Blue Jasmine (2013), rappresenta un momento interessantissimo della carriera di Woody Allen, che per la prima volta fece uscire di scena il suo personaggio e la sua comicità iconica per provare un nuovo approccio...

…su temi già ampiamente esplorati, ma all’interno di un thriller con una riflessione piuttosto amara sulla fortuna, sul caso, sulle trappole sociali che noi stessi ci creiamo, pur consapevoli di quanto siano causa della nostra infelicità.

Insomma, da riscoprire.

Ricominciare

 Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

La ripartenza di Chris sembra senza speranza.

Ormai stufo di una carriera sportiva senza futuro, si rifugia nell’unica alternativa possibile, nonostante la stessa non sia sufficiente né per la sua felicità né per permettersi neanche di vivere in uno squallido monolocale.

Eppure, proprio questa scelta è il punto di partenza per una serie di colpi di fortuna che gli permettono di costruirsi una vita molto più economicamente soddisfacente, grazie al contatto con un ambiente particolarmente propenso ad accoglierlo.

Infatti sia Tom che la sorella Chloe sembrano affetti da una irrisolvibile Sindrome della crocerossina, che li spinge a salvare individui dall’estrazione sociale molto bassa che, per vari motivi, meritano di essere aiutati.

E qui si pone una differenza fondamentale.

Dialogo

Scarlett Johansson e Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Nola e Chris sembrano uguali…

…ma non lo sono.

Fra i due si instaura un dialogo segreto e impercettibile, basato sulla comune consapevolezza di essere la vittima dell’interesse smodato e potenzialmente passeggero di due persone che in realtà non amano davvero…

…e che, soprattutto, sono del tutto ignare del vero peso di essere così incredibilmente fortunati tanto da non avere mai avuto una preoccupazione economica che non possa facilmente essere risolta grazie alla propria posizione sociale.

Così entrambi condividono una bellezza magnetica che si accompagna ad una sostanziale fragilità economica, e che li rende estremamente desiderabili come compagni di vita da sfoggiare all’occasione.

Ma la differenza fondamentale è che Chris si dimostra sempre estremamente accomodante, tanto che cerca il più possibile di non sembrare un approfittatore sociale, al contrario del carattere ben più volubile e molto meno docile di Chole.

Eppure, alla fine Chris è in trappola.

Trappola

Chris dovrebbe essere felice.

Smarcatosi da una condizione economica infelice, riesce a costruirsi una carriera favorevole in un campo piuttosto redditizio, fra l’altro con la sicurezza di potersi anche avventurare in investimenti rischiosi senza dover subire particolari perdite.

Scarlett Johansson e Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Ma non è una fortuna gratuita…

Infatti, la sua situazione lavorativa è del tutto succube al favore della famiglia Hawett, che dipende da un unico fattore: la felicità di Chole, che si concretizza nella sempre più pressante richiesta di costruire una famiglia insieme.

Per questo fin da subito Chris cerca una via di fuga…

Fuga

Scarlett Johansson in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Chris è artefice della sua distruzione.

Lo è quando accetta di inserirsi in un sistema sempre più claustrofobico, in cui la sua vita personale si intreccia indissolubilmente con la sua carriera lavorativa, tanto che i due elementi non possono esistere indipendentemente.

Proprio per questo sa anche di non poter tirare troppo la corda con Chloe, sa di dover il più possibile assecondare nel suo progetto di vita, rimanendone un mansueto esecutore che non si azzarda quasi mai a lamentarsi.

Scarlett Johansson e Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Al contempo, Chris cerca la sua distruzione nella relazione con Nola, donna che insegue disperatamente in ogni momento della storia, con la quale non solo trova un’affinità sessuale, ma anche intellettuale.

E, nell’esecuzione del suo tradimento, è fin da subito maldestro e disattento, si lascia fin troppe porte aperte per farsi scoprire, fin troppo testimoni del suo segreto, proprio quasi come se volesse che il destino agisse per lui per liberarlo.

Ma la fortuna è fin troppo dalla sua parte.

Chiasso

Scarlett Johansson in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Con la gravidanza di Nola, Chris si trova davanti ad un bivio.

Svelando il suo segreto alla moglie potrebbe perdere tutto, cadere in disgrazia e mettere un punto alla sua carriera, ma al contempo sarebbe – forse – finalmente felice in una relazione sessuale e affettiva davvero soddisfacente – e, soprattutto, molto meno vincolante.

Ma il protagonista è di fatto incapace di prendere una decisione, e così temporeggia, trova soluzioni alternative e di mezzo, risolvendosi infine a prendere la decisione più codarda possibile.

Scarlett Johansson e Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Ovvero, eliminare il problema Nola, personaggio diventato fin troppo invadente e chiassoso per continuare ad esistere, come ben rappresenta la scena in cui la donna si avventa su di lui nel mezzo della strada, pretendendo una risoluzione immediata.

Ma, ancora, è come se Chris volesse farsi scoprire.

Rete

Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

Il crimine di Chris è quasi una rivendicazione.

Il protagonista è alla disperata ricerca di un briciolo di giustizia in un mondo che sembra regolato unicamente dai capricci dei potenti, senza che questi – e, per estensione, lo stesso Chris – vengano in qualche modo puniti per il loro agire.

Per questo il piano, per quanto ben congegnato per non farlo sembrare un crimine passionale, è pieno di disattenzioni: il diario lasciato come prova, l’agire del tutto casuale nel rovistare nella casa della vittima, la poca attenzione nel liberarsi delle prove…

Jonathan rhys meyers in una scena di Match Point (2005) di Woody Allen

…in particolare dell’anello della Eastby, che rimbalza sulla ringhiera del Tamigi proprio come la pallina da tennis sulla rete, aprendo una nuova possibilità per la tanto ricercata scoperta della colpevolezza del protagonista.

Ma infine, ancora una volta, la fortuna gli è avversa, chiudendogli l’ultima via di fuga possibile e regalandogli invece la continuazione di una vita perfettamente insostenibile.

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90s Back to....teen! Comico Commedia Commedia romantica Drammatico Film Teen Movie

Clueless – Il risveglio

Clueless (1995) di Amy Heckerling, noto anche come Ragazze di Beverly Hills, è un cult del genere teen movie.

A fronte di un budget piccolino – 12 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 88 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Clueless?

Cher è una ragazza ricca e popolare, ma che usa la sua influenza per aiutare gli altri. Ma la sua ingenuità sarà la sua rovina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Clueless?

Assolutamente sì.

Clueless rappresenta davvero una perla del genere, anticipando fortemente i tempi con una narrazione dell’adolescenza femminile più collaborativa che vendicativa – come invece si vede in molte occasioni… – e un racconto della sessualità piuttosto dirompente.

Oltretutto, a differenza di film più difficilmente digeribili – per quanto magnifici – come Heathers (1989), è anche un prodotto piacevolissimo da guardare, che comunque non si risparmia in una serie di battute piuttosto sottili e non sempre a portata di adolescente…

Ingenuità

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Cher è totalmente ignara della sua condizione.

Intraprendendo fin da subito un intenso dialogo con lo spettatore – ottimo metodo, se ben pensato, per potenziare la narrazione, che sarà poi ripreso anche il Mean girls (2004) – ci racconta già moltissimo del suo personaggio – e della sua totale ingenuità.

Pur godendo di un armadio gigantesco, addirittura di un sistema di matching per gli outfit – una delle scene più iconiche, riprese, fra gli altri, in Barbie (2023) – Cher non è la classica adolescente ricca e viziata come ci si potrebbe aspettare.

Fin dalla prima scena viene infatti svelata la sua – seppur ingenua – buona volontà nell’aiutare gli altri, soprattutto il padre, così immerso nella sua turbolenta professione da non essere capace di prendersi cura di sé stesso.

Ma non è finita qui.

Bivio

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Clueless si trova in più momenti davanti ad una serie di bivi.

Cher è un personaggio che fin da subito si distingue dagli altri personaggi femminili dal punto di vista relazionale: genuinamente disgustata dai ragazzi della sua generazione, racconta fra il divertito e l’apprensivo la relazione fra la sua migliore amica, Dionne, e Murray.

E se questo poteva essere un buon momento per far partire la classica divisione fra ragazze buone e cattive…

Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

…e invece Clueless stupisce: non vi è mai un giudizio negativo nei confronti della libertà sessuale delle protagoniste, se non quello che talvolta i personaggi mettono su sé stessi – come quando Donnie dice, quasi con sprezzo, di essere tecnicamente ancora vergine.

E anche la stessa posizione di verginità della protagonista è piuttosto aleatoria…

Buone azioni

Alicia Silverstone in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Anche durante la classe di dibattito, Cher dimostra la sua deliziosa ingenuità.

La sua posizione sull’immigrazione è una piccola zampata nei confronti della totale cecità della borghesia statunitense nei confronti dei problemi reali del paese, ma anche un ulteriore momento per sottolineare la sostanziale bontà della protagonista.

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Infatti, come Cher potrebbe utilizzare la sua posizione per vendicarsi dei brutti voti di Mr. Hall, invece sceglie di prendere il meglio di quanto ha imparato da suo padre e di ammorbidire il carattere burbero del professore, facendolo innamorare.

Così, anche se un motivo assolutamente egoistico, Cher riesce a far ritrovare due persone molto sole.

Ed è solo l’inizio.

Makeover!

Brittany Murphy in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Fatta la prima buona azione, Cher non ne può più fare a meno.

Dopo uno sguardo piuttosto ironico sul panorama adolescenziale di Beverly Hills e le sue ragazze ricche, viziate e piene di botulino, viene introdotta la preda perfetta, la totale outsider che la protagonista può prendere sotto la sua ala per una nuova buona azione.

Qui Clueless raccoglie particolarmente l’eredità del romanzo da cui si ispiraEmma di Jane Austen – con un arguto parallelismo fra la società iper-classista della Regency e il panorama sociale non meno spinoso dell’alta società californiana.

Per questo, Tai è la via del risveglio.

Brittany Murphy, Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Cher cerca fin da subito di catturare la sua nuova amica nel complesso sistema della scuola, partendo dal più classico momento di passaggio – il makeover – che viene però totalmente stravolto, riducendolo – al pari di tutte le indicazioni di Cher – in una mania senza significato.

Ed infatti è piuttosto interessante che fin da subito Tai tende a sottrarsi ai tentativi di Cher di incasellarla, prima di tutto negando la sua verginità – elemento estremamente raro in un personaggio di questo tipo – e interessandosi ad un ragazzo che Cher considera inadeguato.

Ma l’alternativa non è migliore…

Voltafaccia

Brittany Murphy e Alicia Silverstone
 in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Il piano di Cher è un disastro.

Proprio come una matchmaker d’altri tempi, la protagonista trova subito il candidato perfetto che Tai può usare come accessorio per riuscire ad imporsi definitivamente con la sua rinnovata immagine e posizione.

E se i tentativi nel complesso sembrano portare nella direzione giusta, con un Elton che si dimostra interessato ad avvicinarsi alla ragazza, infine scoppiano come bolle di sapone quando il personaggio rivela tutta la sua arroganza e classismo, cercando di saltare addosso a Cher.

E così, la caccia ha di nuovo inizio…

…aprendo la sezione che io personalmente considero più geniale della pellicola.

Seduzione

Alicia Silverstone in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Per quanto ingenua, Cher è molto più furba di quanto potrebbe apparire.

Appena posati gli occhi su Christian, prende subito le redini della seduzione, con tutta l’intenzione di dimostrarsi interessante agli occhi di questo fascinoso ragazzo, in una scena che mima sottilmente l’atto sessuale, come ben rivela la battuta di Mr. Hall:

It’s time for your oral!

È ora del tuo orale.

Tutta la dinamica successiva continua a calcare su questo fine racconto erotico, in cui Cher si rende sempre di più desiderabile e desiderata, in particolare portando l’attenzione sulla sua bocca sempre impegnata:

And anything you can do to draw attention to your mouth is good.

E qualsiasi cosa che attiri l’attenzione sulla tua bocca è una buona idea.

Ma la realizzazione infine che Christian non potrai mai essere il suo fidanzato – con una rivelazione molto figlia di tempi, ma perlomeno non offensiva nei toni – è il primo passo per la graduale presa di consapevolezza di Cher di non aver mai avuto il controllo sulla situazione…

…e di aver guardato sempre dalla parte sbagliata.

Insomma, è ora di parlare di Josh.

Realtà

Alicia Silverstone e Paul Rudd in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Josh è la chiave di volta per la maturazione della protagonista.

Sulle prime il loro rapporto sembra il classico enemy to lovers, ma è una dinamica abbandonata non appena il personaggio ha modo di mostrare il suo vero carattere: non uno sfaccendato collegiale, ma un ragazzo timido e insicuro, che cerca rifugio in un’altra famiglia…

…e che, come Cher, ha a cuore gli altri: particolarmente dolce e significativo il momento in cui, alla festa con Christian, la protagonista si rende conto che Tai si senta escluso, ma si rassicura quando vede l’intervento di Josh, che la fa meno sentire fuori posto.

E proprio la realizzazione di essere innamorata del suo ex-fratello, apparentemente improvvisa, invece mette un punto molto interessante al personaggio: non la classica protagonista che cerca il vero amore, ma piuttosto una ragazza che sa cosa è meglio per sé, e che vuole accanto una persona che senta vicina.

Allo stesso modo, Clueless getta una nuova luce su tutti i personaggi – e stereotipi che li accompagnano, svelando una realtà molto più complessa e variegata da quella che viene solitamente raccontata in prodotti similari.

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Ripley – La maschera cangiante

Ripley (2024) è una serie TV Netflix ideata da Steven Zaillian, con protagonista Andrew Scott.

Di cosa parla Ripley?

Tom Ripley è un truffatore di New York che ha l’incredibile occasione di diventare amico del rampollo Richard Greenleaf – e di prenderne il posto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ripley?

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Assolutamente sì.

Ripley è una di quelle perle di Netflix non abbastanza considerate – né pubblicizzate – curata da grandi autori hollywoodiani che scelgono di sporcarsi le mani in una serie TV, creando un prodotto di altissimo livello artistico e di scrittura.

Infatti l’incontro di una regia sublime e sperimentale, la splendida performance di Andrew Scott in uno dei migliori ruoli della sua carriera, unito ad una rappresentazione finalmente non banale dell’Italia, rende questa serie uno dei migliori titoli della stagione.

Occasione

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Ripley vive alla giornata.

Un protagonista che non è altro che un piccolo truffatore, che si guadagna da vivere con quella che sembra la sua indole naturale: prendere il posto di qualcun altro, cambiare identità e così riuscire a gabbare il malcapitato di turno.

E l’offerta di Greenleaf è la grande occasione per scoprire una nuova parte, per entrare nelle grazie del giovane Richard e, apparentemente, per riportarlo sui suoi passi, in realtà cominciando fin da subito ad intrecciare un’importante e vantaggiosa amicizia.

Perché la tentazione è troppo forte…

Esterno

Johnny Flynn e Dakota Fanning in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Ripley è un osservatore.

Numerose le scene in cui spia la vita di Richard da dietro le quinte, come a studiare la sua prossima, portata in scena dal suo miglior interprete, mentre in quella piccola finestra lontana continua con la sua vita ignaro di tutto.

Richard è infatti un personaggio del tutto innocuo, un dandy viziato che cerca di costruirsi una carriera alle spalle della famiglia, rivelandosi clamorosamente incapace in ogni sua passione – in particolare nei medici risultati artistici.

Johnny Flynn e Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Come se non bastasse, Richard è una banderuola.

Mancante di una forte identità, Dickie si lascia facilmente trasportare dalla corrente, prima facendosi sedurre dalle lusinghe di Ripley – in particolare la sua presunta onestà – per poi essere rimesso al suo posto dalle insistenze di Marge, che vede un inevitabile contendente in questo nuovo amico.

E questo è il suo più grande errore.

Fuori

Johnny Flynn e Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Ripley rischia di uscire di scena.

Richard gli concede un viaggio d’addio, una gita in barca per poterlo congedare dalla sua vita nella maniera più cortese possibile, non dicendoglielo neanche direttamente, ma tramite una serie di deboli consigli sull’ampliare la sua esplorazione italiana.

Ma Tom non ci sta.

Dickie diventa la sua prima vittima, la prima persona che il protagonista sceglie di schiacciare con colpi secchi e quasi chirurgici, portando fuori scena il suo personaggio per cominciare a prenderne il posto.

E, allora, è il momento di riscrivere Richard Greenleaf.

Riscrittura

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

La riscrittura di Dickie è attenta e puntuale.

Tom è consapevole di non poter prendere immediatamente le vesti del personaggio senza conseguenze, in particolare per l’isteria di Marge, e sceglie per questo di alimentare raccontando la più grande paura della donna: un Dickie ormai disinteressato alla sua fidanzata.

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Così al telefono Tom si incastona in questa nuova vita creata ad arte di Dickie, che porta le sue passioni semplicemente altrove, lasciandosi alle spalle tutto quello a cui era legato, convincendo Marge che questo nuovo comportamento sia tutta un’idea di Tom.

Ma vi è un personaggio imprevisto.

Impreparato

Eliot Sumner in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

L’apparizione di Freddie è una wild card.

A differenza di Marge, che si lascia schiacciare dalla sua disperazione, il suo personaggio comprende immediatamente le intenzioni di Ripley, non lasciandosi confondere dall’apparente confusione della proprietaria di casa, ma invece facendone tesoro per smascherare il falso Dickie.

Così la sua uccisione è improvvisa, mal calcolata, e tutto il piano per coprire le sue tracce lo rende visibile a non pochi testimoni, di cui paradossalmente i più utili sono quelli che non possono parlare: il gatto Lucio e le statue della Città Eterna, che spiano le improvvisate malefatte del protagonista.

Ma, come Freddie esce di scena, un altro personaggio minaccia la posizione di Ripley…

Maschera

Maurizio Lombardi in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

L’austero ispettore Ravini è l’ultima grande minaccia di Ripley.

Nonostante il detective si dimostri piuttosto acuto e perseverante, nonostante prenda brutalmente il suo posto nella vita e nel salotto del protagonista – occupando tutto lo spazio possibile – si lascia anche facilmente gabbare dalla trama caotica e imprevedibile di Ripley.

Maurizio Lombardi in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

E così, per quanto il protagonista cerchi il più possibile di fuggire le accuse di omicidio, per quanto cerchi di scappare dalle grinfie dell’instancabile ispettore, la pesantezza dei sospetti contro Dickie è troppo pressante per essere ignorata.

Per questo, è ora di cambiare maschera.

Nuovo

Nel finale, Ripley intraprende una tortuosa via che lo porta ad essere molti personaggi diversi.

In primo luogo, torna ad essere il vecchio e innocuo Tom, che conferma la convinzione di Marge sul cambio di passo del suo ex fidanzato, che ormai ha lasciato sia Roma che i suoi amici, per imbarcarsi alla volta dell’Africa e far perdere le sue tracce.

Infine, per consolidare la sua posizione, il protagonista crea ad arte un suo alter ego che unisce il mito di Caravaggio e le sue opere colme di ombre artistiche – e morali – al personaggio insospettabile di Tom Ripley, ormai diventato una figura di punta della Venezia da bene.

Infine, un nuovo cambio.

L’ultima maschera è un misterioso commerciante d’arte, che riesce a prendere sulle spalle tutto quello che Ripley ammirava di Dickie, ma nascondendosi dietro ad un nuovo nome, che lo rende ancora più sfuggente e introvabile.

E, allora, Ravini sarà infine capace di smascherarlo?

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Death Parade – Il peggiore di noi

Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa è serie TV un anime di genere drammatico e fantastico.

Trasmessa in Giappone nei primi mesi del 2015, è arrivata in Italia tramite la web TV Dynit.

Di cosa parla Death Parade?

In un aldilà immaginario, i defunti sono sottoposti a dei giochi apparentemente innocui, in realtà mortali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Death Parade?

Assolutamente sì.

Death Parade è un ottimo esempio di serie TV anime che riesce a coniugare al suo interno un ottimo equilibrio di temi e di tagli narrativi, passando dai frangenti più drammatici, thriller e quasi orrorifici, fino a momenti invece più spiccatamente comici e leggeri. 

Oltretutto nella serie vengono affrontati una grande varietà di concetti filosofici piuttosto fondamentali, come il valore della vita e la volubilità dell’animo umano davanti alle situazioni più spiccatamente stressanti e stringenti.

Insomma, da vedere.

Introduzione

Decim in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

L’introduzione di Death Parade viaggia su due binari.

La primissima puntata – Death Seven Darts – introduce il più semplice degli scenari, per farci mettere il primo piede dentro la porta della serie: una coppia idilliaca di sposi si trova a scontrarsi in un gara apparentemente molto innocua di freccette.

Invece, già qui assistiamo alla prima escalation emotiva dei protagonisti: colpiti nei punti più sensibili, progressivamente si risveglia in loro la memoria delle ombre del loro rapporto, che li porta a scagliarsi gli uni contro gli altri in maniera sempre più feroce.  

Chiyuki in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

Poi si cambia prospettiva.

La scena è riproposta dal dietro le quinte, dal punto di vista ancora molto ingenuo di Chiyuki, una giudice apparentemente molto improvvisata ed ingenua e che rimane sconvolta davanti alla crudeltà del gioco, e alla freddezza del giudizio…

…che, fin da subito, si rivela fallace.

Eterno

Decim e Chiyuki in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

Il destino dell’umano è duplice.

Superando la banalizzazione del destino infernale e paradisiaco, il defunto viene in realtà messo nella condizione di essere scelto per un annullamento totale del suo essere, il vuoto, la caduta eterna dell’anima spogliata di ogni elemento di concretezza e vita

…oppure per essere salvato e riportato in un altro corpo terreno: anche nelle peggiori condizioni possibili, non ha comunque dato il peggio di sé, ma ha mantenuto nel complesso un comportamento dignitoso e che merita di continuare ad esistere.

Eppure non è così semplice.

Tatsumi in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

Non vivendo le emozioni umane in prima persona, i giudici si illudono che questo test sia il metodo migliore per definire il valore di un’anima umana, proprio perché l’integrità di della stessa deve essere perpetua e inscalfibile neanche dai peggiori stimoli.

Invece, come ben ci racconta il detective nel suo duetto di puntate, è possibile per ogni essere umano dare il peggio di sé se messo nelle giuste condizioni – come dimostra lui stesso: prima un integerrimo poliziotto, infine uno spietato vigilante.

Per questo, la mancanza di empatia è così squalificante.

Emozione

I giudici sono delle bambole.

Dei burattini che vivono nella totale alienazione rispetto all’umano, che non le comprendono le sfumature, ma anche anzi propongono, in particolare Decim nelle sue prime battute, con una freddezza quasi meccanica i death game che definiscono il destino dei loro ospiti.

In questo modo, però, si perdono le infinite sfumature di significato che definiscono la complessità dell’umano, che non può essere giudicato solamente per una piccolissima parte della sua esistenza

In questo senso, il concetto di empatia si sviluppa su più livelli. 

Altro

L’umano è condannato per il suo egoismo.

I giochi mortali di Death Parade sono proprio per questo volti a comprendere quanto il defunto dia valore alla propria sopravvivenza e quanto invece sia disposto ad empatizzare con l’altro, perfino a sacrificarsi per lo stesso.

Un primo accenno di questa dinamica si vede quando Mayu Arita, una ragazzina apparentemente molto sciocca, sceglie di sacrificare la sua vita per il suo idolo, per arrivare a gettarsi nel vuoto pur di ritrovare l’anima di Harada.

Ma, soprattutto, Decim capisce il concetto dell’empatia grazie a Chiyuki.

Decim in una scena di Death Parade (2015) di Yuzuru Tachikawa

La ragazza era stata vittima della sua incomunicabilità, del suo essere incapace di esternare le proprie complesse emozioni, lasciando in vita persone che invece avrebbero potuto aiutarla, avrebbero potuto darle un nuovo motivo per vivere.

E quindi il suo grande insegnamento per Decim è il voler tornare in vita non per un proprio egoismo personale di rivivere e annullare la propria autodistruzione, ma piuttosto per colmare quel vuoto che ha lasciato negli altri.

E se un personaggio così austero come Decim riesce ad accennare un timido sorriso, c’è ancora speranza…