Black Mirror 1 è la prima stagione della serie ormai iconica nata dalla mente di Charlie Brooker, che al tempo venne trasmessa – così come la seconda stagione – su Channel 4.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Black Mirror 1?
Assolutamente sì.
Per quanto questa prima stagione non sia la mia preferita, in questo terzetto di episodi racchiude tutto quello che è Black Mirror: futuro lontano, futuro prossimo e un drammatico presente, tutti accomunati da una sottile quanto ancora attualissima critica sociale.
Al contempo, è la stagione con le puntate veramente più disturbanti dell’intera serie, che lasciano un buco nello stomaco per molto tempo…
Ma ne vale la pena.
The National Anthem
La primissima puntata di Black Mirror è già tutto un programma.
Lo scandalo comincia a prendere piede passo dopo passo, seguendo il climax stesso della puntata, mettendo in scena un concetto drammaticamente reale – ancora di più oggi: non puoi fermare il web.
E così bastano nove minuti online che già tutto il mondo è a conoscenza del tuo scandaloso contenuto, ed inutili sono i tentativi di tenere sotto controllo la situazione: è diventato virale e, per questo, inarrestabile.
Al contempo, i canali di informazione sono come dei cani sguinzagliati a caccia della notizia, a caccia della preda, pronti a tutto pur di portare a casa l’esclusiva, senza alcun tipo di scrupolo.
Ma tutta la situazione è solo una sceneggiata, volta solo a dimostrare un concetto: basta un video amatoriale caricato su YouTube per distogliere totalmente l’attenzione da tutto il resto, per svuotare le strade, per tenere tutti incollati allo schermo…
15 Millions Merits
La seconda puntata è anche più scioccante e riesce a centrare veramente il punto.
Guardare 15 Millions Merits è come entrare materialmente all’interno dei nostri schermi – che sia la tv o il cellulare poco importa – e ritrovarsi in un incubo claustrofobico da cui non possiamo scappare.
In particolare, al tempo erano molto popolari – e in parte lo sono ancora – i cosiddetti giochi freemium, che contengono al loro interno potenziali micro-transazioni con soldi reali, camuffate dalla valuta interna al gioco.
Così i personaggi si muovono in un mondo virtuale e illusorio, dove non è neanche possibile avere accesso alla luce del sole, in cui la loro grigia – letteralmente – e misera esistenza si contrappone in maniera drastica al mondo esplosivo e coloratissimo della tv.
Ma, proprio quando il protagonista trova uno scopo nella sua vita annoiata, fallisce due volte: la prima accompagnando Abi verso un sogno che in realtà è l’incubo dei talent show, in questo caso discarica per arricchire il mondo dei film per adulti.
E, soprattutto, fallisce nell’aprire gli occhi al pubblico, diventando lui stesso un pupazzo, un prodotto da servire nel marasma di contenuti disponibili, con cui asserire mentre si compiono le stesse azioni condannate…
The Entire History of You
Anche se non è la mia puntata preferita di questa stagione, The Entire History of You è quella che più si avvicina a quello che davvero adoro di Black Mirror.
Il grain è un’invenzione che, sulla carta, potrebbe risolvere tantissimi problemi: diventerebbe praticamente impossibile mentire, commettere crimini e rimanere impuniti, e sarebbe molto più facile ricostruire situazioni e dinamiche passate.
Tuttavia, la puntata dimostra molto chiaramente cosa verosimilmente succederebbe a molte persone: diventare del tutto ossessionati dai propri ricordi, andando ad inseguire e a rivivere infinite volte inutili particolari, senza riuscire più a vivere nel presente.
Nel caso di Liam, è il prototipo dell’uomo geloso con in mano un potere che non dovrebbe avere.
Fin dall’inizio si dimostra incredibilmente sospettoso della compagna, e in generale del tutto ossessionato dal rivivere momenti e particolari del suo passato, andando a ricercare i dettagli che confermerebbero la sua teoria: Fi non lo ama più.
E, se potrebbe apparire anche solo vagamente giustificato, dalle parole della moglie scopriamo che Liam ha avuto in precedenza comportamenti assai tossici – come sparire per giorni – che rappresentano proprio la sua volontà autodistruttiva e incapace di ricostruire un rapporto che, forse, poteva ancora essere salvato…
Black Mirror 2 (2013) è la seconda stagione della serie nata dalla mente di Charlie Brooker, al tempo rilasciata ancora su Channel 4.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Black Mirror 2?
Assolutamente sì.
Come stagione è un pochino più altalenante rispetto alla precedente, ma gode anche di due episodi davvero grandiosi come White Bear e White Christmas, fra i più iconici dell’intera serie.
Complessivamente comunque tutte le puntate – quale più, quale meno – offrono spunti di riflessione veramente interessanti, mostrando situazioni che, se non sono il nostro presente, rappresentano un futuro più vicino di quanto sembri…
Be Right Back
Be Right Back è forse una puntata in chiave minore di Black Mirror.
Infatti, a differenza dei precedenti episodi – e degli altri di questa stagione – non mi ha lasciato un particolare senso di angoscia, ma più che altro una sorta di rassegnazione e riflessione sul presente e su quello che sarà il prossimo futuro.
Probabilmente con le tecnologie odierne, e con la IA sempre più in ascesa, non sarebbe difficile creare quello che si vede in scena, almeno per la parte scritta e parlata. E probabilmente quello che per questa puntata è il futuro, per noi oggi è il nostro presente.
Certo, le tecnologie odierne non potrebbero portare effettivamente in vita una persona morta con tutte le sue caratteristiche, ma solamente limitarsi a ricostruire una personalità basata su quello scampolo di informazioni che le offriamo.
Tuttavia, se dieci anni fa Black Mirror immaginava una realtà che non è tanto lontana dal presente, quanto ci vorrà perché potremo portare in vita le nostre copie artificiali perfette, praticamente indistinguibili, che vivranno insieme a noi?
E le vorremo ancora chiudere in soffitta come Martha?
White Bear
White Bear è uno dei miei episodi preferiti di Black Mirror.
Semplicemente perché riesce a mettere in scena in maniera straziante quanto terribilmente verosimile un problema che, soprattutto oggi, è un germe sociale difficile da sradicare, anzi, è ancora più pericoloso: la gogna pubblica.
È così facile che una persona passi dall’essere il carnefice alla vittima, pur non essendo percepita come tale: dal momento che quell’individuo ha compiuto un’azione errata – di qualsiasi tipo – ci sentiamo legittimati a fare di lui quello che vogliamo.
E così una donna che ha compiuto un crimine così efferato, così ingiustificabile ed inscusabile come rapire, torturare ed uccidere una bambina, non può che essere torturata a sua volta, diventare l’attrazione di un parco tematico.
E non si può non rimanere ammutoliti mentre sentiamo le sue urla disperate di dolore, mentre vediamo come tutti gli attori in scena rimettano ogni cosa al suo posto per il prossimo giro di torture, mentre osserviamo i ghigni degli ospiti che potrebbero facilmente essere i nostri…
The Waldo Moment
The Waldo Moment è una puntata che, a posteriori, fa sinceramente paura.
Già nel 2013 Black Mirror è riuscito a rappresentare fedelmente quello che sarebbe stato il trionfo del populismo da lì a pochi anni, con i capipopolo, le voci fuori dal coro che portavano con sé una grande quantità di voti.
In questo caso Waldo è una marionetta vuota, che non fa altro che dare voce ai sentimenti più bassi dei votanti, che sbarrano il suo nome sulla scheda elettorale solamente per simpatia.
E così si potrebbero potenzialmente trovare con al governo un pupazzo manovrato nell’ombra da chissà quale lobby con chissà quale interesse, nascosta dietro ad un cartone simpatico e irriverente…
Bianco Natale Black Mirror 2
Due anni dopo la seconda stagione, è stato anche rilasciato uno speciale di Natale, che fra l’altro divenne uno degli episodi più di culto della serie stessa.
Di fatto sono tre storie che si intrecciano, in un mondo molto più vicino di quello che potremmo pensare: quanto manca prima che gli smartphone diventino parte del nostro stesso corpo?
E da qui si può implementare una tecnologia che sulla carta potrebbe potenzialmente risolvere il problema dello stalking e rendere effettivi gli ordini restrittivi, senza possibilità di errori.
Nella pratica, si darebbe in mano a persone comuni il potere di cancellare le persone dalla propria vita, anche solamente spinti da un momento di debolezza emotiva, che potrebbe però ad un atto irreparabile…
Ancora più inquietante la questione dei cookie, che mi ha ricordato molto Severance, ma con il concetto di base ha radici più lontane, addirittura in Asimov: i diritti dei robot – o AI che dir si voglia.
Proprio come per Be Right Back, è una tecnologia più vicina di quanto pensiamo, visto che già oggi siamo capaci di dialogare efficacemente con le intelligenze artificiali: il mondo mostrato in questo speciale potrebbe essere dietro l’angolo…
Black Mirror 6 (2023) è la sesta stagione di una delle serie più iconiche della piattaforma, arrivata a ben quattro anni di distanza dalla precedente, con cinque nuovi episodi.
Ecco il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Black Mirror 6?
Possibilmente no.
In attesa di Black Mirror 6, per motivi che non so neanche spiegare, ero sicura che gli autori avessero imparato dagli errori e dalle critiche che avevano ricevuto per la scorsa stagione. Anche perché altrimenti sarebbero risultati ridicoli.
E invece non potevo immaginare quanto grande fosse il loro coraggio.
Questo nuovo ciclo di episodi, molto banalmente, non c’entra niente con Black Mirror: per buona parte sono puntate di scarsissimo valore, riuscendo a salvarsi solamente per il terzo episodio – che sembra quasi Black Mirror – e l’ultimo, che è abbastanza piacevole.
Ma, se amate Black Mirror, passate oltre.
Joan is Awful
Questo episodio è terribile.
Joan is awful è esattamente quello che non volevo vedere da Black Mirror: praticamente una parodia, con un cattivo gusto di rara bruttezza che neanche nei peggiori b-movie dei primi Anni Duemila.
Inoltre, un episodio basato su concetti di una tale ingenuità che solo un bambino o un complottista in pieno delirio potrebbe pensare: non vi devo spiegare io quanto il motivo per cui Joan viene derubata della sua vita sia irrealistico e pretestuoso, vero?
Ma diventa ancora più assurdo se si pensa alla questione di Salma Hayek – o chi per lei: Netflix dovrebbe essere la prima a sapere che produzioni e attori sono vincolati da contratti blindati e compilati pedissequamente dopo intense contrattazioni.
Avrebbe potuto funzionare diversamente?
Se Black Mirror fosse stato sé stesso avremmo potuto avere una puntata alla White Bear o alla 15 milions merits: sarebbe bastato fare un effettivo world building e ambientare la storia in un futuro possibile, come si era sempre fatto…
Loch Henry
A questo punto ho cominciato a chiedermi se stessi ancora guardando Black Mirror.
Di per sé Loch Henry non è una brutta puntata: mi ha convinto molto il montaggio e la regia in certi tratti dal taglio quasi documentaristico, che poi si riallaccia al finale, e che riesce in generale a far immergere piuttosto bene nella storia raccontata.
Tuttavia, non è Black Mirror.
Sembra più che altro una puntata di una serie fra il true crime e il mistery, però neanche particolarmente brillante a livello di scrittura: io non sono mai stata una persona particolarmente intuitiva nello scoprire i colpi di scena dei film, anzi.
Invece in questo caso praticamente dal primo minuto avevo intuito quale sarebbe stato il plot twist finale, e per due motivi: è incredibilmente banale, ed era anche l’unico modo per dare un senso alla puntata, che aveva un disperato bisogno di questo shock finale.
E, se la critica voleva essere la cannibalizzazione delle tragedie, diventata piuttosto di moda negli ultimi tempi, è veramente debole…
Beyond the sea
Finalmente una puntata di Black Mirror.
Anche se…
Solitamente preferisco quando gli episodi sono ambientati in un prossimo futuro – come era tipico della serie nella maggior parte dei casi – ma questi Anni Sessanta alternativi tutto sommato non mi sono dispiaciuti.
Finalmente, un racconto con al centro una tecnologia che, più che soluzioni, si porta dietro le paure stesse del suo creatore.
E devo dire che, anche se il risvolto romantico fra David e Lana era abbastanza prevedibile, comunque è stato costruito in maniera intelligente e funzionale, lasciandoti addosso una sottile angoscia che permea tutto l’episodio…
Il problema è il finale.
Purtroppo, ho avuto la spiacevolissima sensazione che volessero chiudere l’episodio con un colpo di scena sconvolgente, ma che si siano dimenticati di costruirlo a dovere, raccontando in maniera convincente la crescente pazzia di David.
Sarebbe stato molto più interessante sempre un finale aperto, ma con David che uccideva Cliff, magari lasciandolo per sempre a vagare nello spazio, e magari in maniera anche più inquietante viveva la sua vita, all’insaputa di Lana…
Mazey Day
È possibile fare una puntata pure peggiore della prima?
Assolutamente sì, se sei Mazey Day.
Arrivati a questo punto io voglio immaginare – e sperare – che abbiano sbagliato writers room e che questa fosse in realtà la puntata pilota di una serie di terza categoria di Netflix, una brutta copia di Teen Wolf, e che abbiano fatto confusione.
Perché non so veramente con quale coraggio abbiano prodotto questo episodio sotto l’etichetta Black Mirror.
In prima battuta sembra una critica scialbissima e fuori tempo massimo al mondo dei paparazzi, uno dei simboli dei primi Anni Duemila. Poi, sempre con l’idea di lasciare a bocca aperta lo spettatore, diventa un fantasy.
Senza che di fatto questa puntata ci abbia raccontato niente di rilevante, senza che sembri neanche che lo volesse neanche fare. Almeno in Joan is Awful hanno cercato di inserire – pur malamente – un elemento fantascientifico.
Qui neanche quello…
Demon 79
Demon 79 è una puntata effettivamente molto carina.
Mi ha ricordato come toni Shaun of the Dead (2004) e Dirk Gently (2016-2017): una sorta di horror comedy apocalittica, con un umorismo ben dosato e dei personaggi che effettivamente funzionano a dovere.
In particolare, nonostante avrebbe funzionato meglio come un effettivo film, a differenza di Beyond the sea il finale è ben costruito, e il cambiamento – o maturazione diabolica – della protagonista è altrettanto ottimamente raccontato.
E allora qual è il problema?
Ancora una volta, non è Black Mirror.
Nonostante io non sia una fan sfegatata di questa serie, né una purista della prima ora, mi rendo conto di quanto, nonostante in questo caso la qualità sia buona, uno spettatore appassionato si possa sentir preso in giro, e per l’ennesima volta.
Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) è una serie animata di produzione Netflix, scritta e diretta dal fumettista Zerocalcare– la seconda produzione a suo nome dopo Strappare lungo i bordi (2021).
Di cosa parla Questo mondo non mi renderà cattivo?
Un vecchio amico di Zerocalcare torna a Roma dopo una lunga assenza, ma sembra incapace di reinserirsi nel difficile microcosmo del quartiere…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Questo mondo non mi renderà cattivo?
Sì, ma…
Questo mondo non mi renderà cattivo rappresenta un punto di svolta abbastanza importante per la pur breve produzione seriale di Zerocalcare.
Se infatti Strappare lungo i bordi (2021) riprendeva – per toni e soggetto – la sua opera prima, La profezia dell’Armadillo (2012) – con questa nuova serie si passa a tematiche ben più mature della sua produzione più recente.
Per questo il prodotto ha un inaspettato tono ben più politico e attuale, andando a trattare con grande franchezza, nonché con una verosimiglianza quasi dolorosa, tematiche molto forti della nostra contemporaneità.
Insomma, arrivateci preparati.
La cornice narrativa
La struttura narrativa di Questo mondo non mi renderà cattivoè abbastanza simile a quella della serie precedente.
Si racconta infatti ancora una volta un progressivo avvicinamento ad un evento determinante della storia, che però rimane oscuro allo spettatore praticamente fino alla finedegli episodi.
Tuttavia, la cornice narrativa in questo caso èben più solida: l’arresto e l’interrogatorio giustificano effettivamente il perché l’elemento fondamentale della trama rimanga nascosto per la maggior parte del tempo.
E, anche se l’idea che il racconto alla fine sia solo una confessione con l’Armadillo l’ho trovata un po’ debole, il risvolto della scena, dal sapore comico-grottesco, mi ha tutto sommato convinto.
Ricucire i rapporti
Il mondo di Zerocalcare è incredibilmente verosimile.
Quante volte durante la nostra vita ci siamo lasciati alle spalle moltissimi rapporti che si sono improvvisamente spezzati, senza un vero motivo, senza che nessuno sapere quasi il perché, se non che la vita che va avanti…
Da qui il pesante imbarazzo nel tentativo di riconciliazione con Cesare, che ha il suo picco drammatico nella scoperta che il vecchio amico sia in realtà dell’altra sponda, quella da lui combattuta e disprezzata ogni giorno…
Ma il perché è anche peggio…
L’esasperato isolamento
Raccontando il dramma di Cesare, Zerocalcare in realtà ci mostra un problema ben più ampio.
In Italia è presente purtroppo una tristissima realtà per cui determinate categorie sociali – nello specifico i tossicodipendenti e i carcerati – diventano irrimediabilmente degli emarginati.
Anche se intraprendono un percorso, che, in teoria, dovrebbe portare ad un loro reinserimento…
E questo si traduce proprio nella storia di Cesare: andare a rifugiarsi nelle frange politiche più estreme e radicali pur di trovare qualcuno con cui fare gruppo, qualcuno che veramente ci accetti senza giudizi…
Oltre la propaganda
Il dramma di Sara è anche più disturbante.
L’amica, da sempre considerata come baluardo della giustizia e della correttezza, prende una strada del tutto inaspettata, associandosi alle posizioni di quel gruppo sociale che, almeno all’apparenza, è contrastato da tutti.
E le sue motivazioni sono davvero strazianti.
Rimasta per anni reclusa in una sorta di limbo dell’impossibilità di realizzazione personale e lavorativa – estremamente tipico nel mondo del lavoro italiano odierno – si presenta finalmente per lei la prospettiva di realizzare il suo sogno.
Ma subito lo stesso le è strappato via, e per pure questioni ideologiche, che è tanto facile accettare se non vanno a colpirti sul personale, ma che sono ben più difficili da digerire quando mettono un ostacolo a quella piccola vittoria personale tanto agognata…
Tuttavia, Sara si dimostra ancora una volta la più intelligente del gruppo, andando a scoperchiare quella propaganda tossica che allontana l’attenzione dagli effettivi problemi più sotterranei e strutturali.
E, soprattutto, mai risolti.
Questo mondo non mi renderà cattivo finale
A primo impatto, il finale di Questo mondo non mi renderà cattivopotrebbe risultare molto sbrigativo, e non effettivamente conclusivo.
Tuttavia, ripensandoci a posteriori, riesco a capire le motivazioni di questa scelta abbastanza anomala per una narrazione seriale, in particolare mancante di una quasi ovvia riconciliazione fra Zero e Cesare.
Da una parte, penso che Zerocalcare abbia voluto raccontare una storia quanto più vera, tratta dalla propria esperienza personale – che quindi non ha avuto, come comprensibile, un effettivo lieto fine.
Inoltre, questo finale è apprezzabile per la sua onestà: nonostante il gruppo di Zero non sia veramente dalla parte di Cesare per tutta una serie di motivi, sceglie comunque di difenderlo, di fare la cosa giusta.
Questo mondo non mi renderà cattivo fumetto
Se avete apprezzato la serie e volete scoprire l’opera cartacea di Zerocalcare, ecco qualche consiglio.
Se non avete mai letto nulla di suo, vi consiglio in linea generale di andare in ordine cronologico, nello specifico di cominciare proprio dall’opera prima, La profezia dell’armadillo (2012).
Tuttavia, se dopo questo volete esplorare i riferimenti interni alla serie, vi consiglio di leggere – nel seguente ordine – Un polpo alla gola (2012), Macerie Prime (2017) e Scheletri (2020).
Andor (2022 – …) è una serie tv spin-off di Star Wars,prequel di Rogue One(2016) e pubblicata su Disney+ fra le diverse offerte dell’Universo Espanso della saga, ma con risultati piuttosto magri…
Di cosa parla Andor?
Andor è alla ricerca della sorella scomparsa, innescando una serie di eventi imprevisti che lo porteranno a ripensare alla propria vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Andor?
Assolutamente sì.
Ma…
Andor è una di quelle serie che possono dare molte soddisfazioni, ma devono anche essere approcciate con grande pazienza. In particolare, questa serie non gode purtroppo del più robusto degli inizi – anzi.
Ma, dopo aver superato lo scoglio delle prime due puntate, la terza porta ad una svolta consistente che comincia veramente a risvegliare l’interesse, in maniera assolutamente inaspettata.
Da lì, diversi archi narrativi incredibilmente avvincenti.
Ci ho messo un tempo veramente considerevole per riuscire effettivamente ad iniziare la serie perché purtroppo i primi due episodi sembravano non raccontare niente di davvero interessante, ma essere un’introduzione piuttosto lunga che non si capiva dove portasse.
Ed infatti la svolta che avviene alla fine del terzo episodio è assolutamente inaspettata, ma che mette finalmente in moto le vicende, soprattutto introducendo il personaggio più interessante della serie: il misterioso Luthen Lael.
Per questo credo che rilasciare questa serie settimana per settimana sia stato un azzardo: molti spettatori probabilmente non sono stati catturati dal primo episodio e non hanno proseguito.
Ammetto che anche io avrei fatto lo stesso…
L’heist movie
Il primo arco narrativo è l’heist movie.
E mi ha particolarmente sorpreso: quando Andor parla con gli altri membri del gruppo riguardo ai pochi giorni necessari per attuare il piano, mi aspettavo che la storia si sarebbe prolungata per diverse puntate e che questo fosse il focus della serie.
E invece mi sbagliavo.
Questa trama occupa non più di un paio di puntate, seguendo quindi una scansione temporale piuttosto coerente, senza allungarsi più del dovuto. La costruzione narrativa è avvincente e la tensione, sopratutto nell’episodio decisivo, è palpabile.
E non sono rimasta del tutto sorpresa dall’inevitabile carneficina alla Rogue One…
La fuga
La mia trama preferita rimane comunque quella della fuga dalla prigione.
Anche se i motivi per cui Andor viene incarcerato sono per certi versi pretestuosi, è una linea narrativa fondamentale per la formazione del protagonista. Infatti in questo contesto Andor smette di essere il lupo solitario e impara a lavorare in gruppo.
Ma, sopratutto, comprende l’importanza della lotta con l’Impero, che fino a quel momento non aveva sentito come propria.
Infatti la situazione in cui si trova è un’evidente esasperazione della situazione che opprime la galassia tutta, e che necessità di una ribellione.
E si comincia proprio da qui.
Inoltre ho particolarmente apprezzato il personaggio di Kino Loy, interpretato da un Andy Serkis che sono finalmente riuscita ad apprezzare per le sue doti recitative.
Probabilmente perché finalmente assume un ruolo che gli calza a pennello, non tanto diverso da quello di Cesare in Rise of the Planet of the Apes…
È solo l’inizio
La chiusura di Andor è davvero ottima.
Arrivati alle battute finali si capisce finalmente di cosa tratta la serie, anche se si è cominciato a comprenderlo solo passo dopo passo in un mare magnum di storie e personaggi: come nasce la Ribellione all’Impero, da quali sentimenti e da quali emozioni.
Infatti Andor supera quel semplicismo – pur apprezzabile e funzionante – che caratterizzava Una nuova speranza (1977) su questo argomento, che riduceva il tutto ad una lotta fra bene e male dal taglio quasi favolistico.
Al contrario in questa serie la Ribellione si arricchisce di nuovi significati, con una messinscena e delle tematiche che riescono a far sentirci sentire vicini i personaggi e le loro importantissime motivazioni.
Andor
L’altro nato negativo di Andor sono alcuni dei personaggi di contorno.
Benché si tratti di un gusto veramente personale, ci tengo a sottolineare come non tutte le figure che si muovono nella serie le ho trovate veramente interessanti, anzi a volte mi sentivo veramente disinteressata dalle loro sorti.
Dal lato degli antagonisti, ho apprezzato lo sforzo di dare un nuovo volto all’Impero con il personaggio di Dreda Meero, ma la stessa l’ho trovata in ultima analisi un villain abbastanza macchiettistico ed esplorato meno del dovuto.
Per i personaggi positivi, ho trovato veramente eccessivo lo spazio regalato a Bix, l’interesse amoroso di Andor, nonostante sia coinvolta in un racconto di prigionia e tortura piuttosto interessante e innovativo.
Ted Lasso (2020 – 2023) è una delle migliori serie comedy degli ultimi anni, nonché uno dei titoli di punta di AppleTV+
Di cosa parla Ted Lasso?
Ted Lasso, mediocre coach di football americano, viene inaspettatamente assunto da un club di calcio britannico come allenatore…
Vi lascio il trailer per la prima stagione per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Ted Lasso?
Assolutamente sì.
Nonostante Ted Lasso si presenti come una comedy a tema sportivo, in realtà è molto, ma molto più di questo.
Più che parlare delle vittorie e sconfitte dell’AFC Richmond, questa meravigliosa serie segue l’evoluzione dei caratteri e delle vite dei suoi protagonisti.
E lo fa con una classe inarrivabile, scegliendo di evitare il più possibile il drama – anche quando ci sarebbero stati tutti i motivi per farlo.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Non solo calcio
Proprio perché Ted Lasso non è propriamente una serie di calcio, parla di molti altri temi fondamentali.
Infatti, durante le tre stagioni si affrontano diverse tematiche al di fuori dell’ambito sportivo: l’importanza di curare la propria salute mentale, il revenge porn, la difficoltà del coming-out (soprattutto nel contesto calcistico) …
E, ovviamente, le affronta in maniera perfetta.
Il pagliaccio triste
Ted Lasso inizialmente si presenta con la sua energia inarrestabile, che Rebecca cerca inutilmente di castigare e, in parte, di comprendere. Ma la maschera che il protagonista si è costruito è ben difficile da penetrare…
Infatti, Ted vive costantemente con un complesso interiore, le cui radici vengono da lontano.
Come ci racconta l’incontro-scontro con la madre, il protagonista aveva tenuto profondamente nascosto dentro di sé il trauma della morte del padre, mascherandolo proprio come vedeva fare alla madre. E senza che nessuno dei due sembrasse in grado di affrontarlo.
E il trauma si è prolungato con l’inevitabile conclusione del suo matrimonio, nonostante l’affetto che lega Ted alla sua famiglia.
Ed è anche in questo che si ritrova con Rebecca.
La donna, inizialmente antagonista, diventa invece un’alleata del protagonista, ed entrambi riescono a trovare nell’altro una spalla su cui reggersi per affrontare i propri demoni.
Ma il vero momento di svolta è quando Ted accetta finalmente non solo di aiutare gli altri, ma anche sé stesso, affidandosi alle impegnative quanto necessarie cure della Dottoressa Sharon.
E così riesce a tornare finalmente e felicemente a casa.
La bellezza di Ted Lasso sta proprio nella complessità del suo personaggio: da una parte fortemente comico, ma nel profondo anche profondamente emotivo e fragile – caratteristica non comune negli eroi maschili.
L’ex-moglie trofeo
Il percorso di Rebecca è forse quello più interessante.
Inizia come un’ex-moglie trofeo, che è stata scartata perché ormai troppo vecchia, sbeffeggiata da ogni tabloid, rimanendo inevitabilmente nell’ombra di Rupert.
Ma anche grazie a Ted riesce a capire di essere molto più di questo, di poter ricercare, anzi pretendere dei partner migliori di quelli avuti finora, riscoprendosi come una donna interessante, intrigante e che ha ancora molto da dire.
Ma la sua più grande vittoria non è tanto quella di riuscire a vivere molto più felicemente la sua vita sentimentale e sessuale, ma di superare il suo odio per Rupert.
Infatti, in una delle ultime puntate, quando l’ex marito cerca di riavvicinarla, lei lo scaccia immediatamente, senza neanche pensarci: la sua considerazione per Rupert è ormai l’indifferenza.
E la sua realizzazione finale è proprio che non ha più motivo di provare a distruggere l’ex-marito, perché lo stesso è capace di farlo tranquillamente da solo.
E, anche per questo, smette infine di usare Richmond come mezzo di vendetta, preferendo invece di trarne il meglio per tutti.
Il wonderkid
Nathan è il personaggio con la storia più turbolenta.
Prende le mosse da una situazione sociale molto bassa: umile tuttofare, e pure bullizzato.
E, anche se riesce, grazie alle sue capacità, a risalire la scala sociale, non riesce a lasciarsi alle spalle il rancore covato per anni. Infatti, Nate solo all’apparenza è innocuo e timido, nella realtà nasconde dentro di sé non poca cattiveria, anche fortemente gratuita, che sfoga soprattutto verso Will.
L’apice di questa situazione è lo strappo – in tutti i sensi – della relazione con Richmond e Ted, per entrare al servizio di Rupert. La nuova posizione sembra potergli garantire tutto quello che aveva sempre desiderato: successo, ricchezza, donne bellissime.
Ovvero, diventare Rupert.
Infatti, l’ex marito di Rebecca riesce a catturare Nathan proprio nel momento suo momento più basso, quando, dopo la sua prima vittoria, è diventato sempre più ossessionato dall’idea del successo, e sempre più arrogante e incattivito.
Ma proprio quando Nathan sta per diventare definitivamente un gradasso e un serpente al pari di Rupert, arrivando quasi a tradire la sua nuova fidanzata, decide di abbandonare tutto e tornare su suoi passi.
E finalmente ha la possibilità di redimersi, proprio grazie alle importanti quanto strazianti parole di Coach Beard.
Per tornare ad essere come era all’inizio, ma in situazione totalmente diversa.
Il triangolo
Ted Lasso ci regala un triangolo amoroso particolarmente bislacco.
Parte tutto da Keeley, inizialmente una ragazza molto superficiale e con una bassa considerazione di sé – proprio come Rebecca: si accontenta di un uomo piccolo e pieno di sé stesso come Jamie – o, almeno, il Jamie dell’inizio.
Per questo, da quando si lasciano, i due cominciano a prendere due strade di crescita diverse.
Keeley riesce a darsi maggiore importanza, intraprendendo una piccola, ma significativa carriera nell’ambito PR, pur con qualche inciampo e passo indietro, arrivando comunque ad una bellissima conclusione insieme a Rebecca.
Parallelamente Jamie compie un’importante evoluzione caratteriale, che si definisce nell’antagonismo con Roy. Inizialmente Jamie è infatti un ragazzo estremamente immaturo e troppo sicuro di sé stesso. E, soprattutto, è incapace di giocare in squadra, di essere un team player.
La sua evoluzione si articola non del tutto nel mettere da parte il suo essere un gradasso sul campo, ma nel saper bilanciare questo aspetto nella vita privata, tirandolo fuori solo al momento giusto per far vincere la sua squadra.
E soprattutto riesce a superare il suo antagonismo con Roy, anzitutto desiderando, anzi pretendendo di farsi allenare proprio dal tanto odiato idolo dell’infanzia.
Roy Ted Lasso
Al contempo Roy arriva alla fine della serie non sentendosi tanto diverso.
E invece ha compiuto un’evoluzione fondamentale.
È stato capace anzitutto di lasciarsi alle spalle quello che sembrava definirlo come persona: una star del calcio. E invece torna in panchina, sceglie di mettere in pratica le sue conoscenze per aiutare la nuova generazione.
E, in particolare per aiutare Jamie, a portare a termine la sua evoluzione.
Al contempo aiuta anche sé stesso, migliorando la sua importante relazione con la nipote, accettando tutte quelle caratteristiche che lo rendono meno virile e costruendo un’importante relazione con Keeley – pur non riuscendo (per ora) a ricostruirla.
Ted Lasso finale
Il finale di Ted Lasso è illuminante.
La serie dialoga con lo spettatore, che è rimasto col fiato sospeso fino all’ultimo momento, che ha tifato per quella che è diventata alla fine la sua squadra.
Eppure, alla fine scopriamo che il tanto agognato titolo non è stato vintoda Richmond.
Ma alla fine è veramente importante?
È più importante che ogni storia abbia la sua prevedibile e auspicata conclusione, che ogni personaggio abbia raggiunto il massimo del successo, o che i protagonisti siano arrivati alla fine del loro percorso in maniera soddisfacente?
Un po’ questo quello che ci vuole dire Ted Lasso, guardandoci direttamente negli occhi.
Neon Genesis Evangelion (1995 – 1996) di Hideaki Anno è una delle serie tv anime più di culto della storia della serialità giapponese (e non solo). Un prodotto con una gestazione molto complessa, con diversi prodotti successivi e derivativi.
In Italia ebbe diverse versioni di doppiaggio, la prima nel 1997.
Articolo scritto con il prezioso contributo – diretto e indiretto – di Carmelo.
Di cosa parla Neon Genesis Evangelion?
2015, Giappone. Il quattordicenne Shinji Ikari, dopo aver perso i contatti col padre per anni, viene scelto come pilota dell’EVA-01, uno dei mecha dall’origine misteriosa, col solo obbiettivo di combattere gli Angeli…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Neon Genesis Evangelion?
Assolutamente sì.
Ma arrivateci preparati.
Non è un caso che Evangelion sia diventata una serie così tanto di culto: rappresenta un incontro veramente peculiare fra una trama fantascientifica e con diversi momenti d’azione, con una riflessione profonda sulla natura umana.
Infatti, si alternano momenti intensamente riflessivi, non poche volte assai sibillini, a sequenze puramente comiche e di passaggio, che riescono però a rendere la narrazione meno pesante e complessivamente molto godibile.
Cos’è per me Evangelion
A cura di Carmelo
È un esperimento televisivo, una lezione di filosofia e psicologia fatta ad animazione, che a detta del suo creatore tende a trasformare lo spettatore medio passivo, che guarda un determinato programma accettando quello che vede e sente passivamente seguendo l’arco narrativo fatto di causa ed effetto, azione e reazione.
In Evangelion lo spettatore diventa attivo cerca delle sue spiegazioni ed interpretazioni a quello che vede, creando un proprio mondo all’interno dell’anime stesso, oltre a riflettere sulle tematiche profonde che vengono proposte.
Evangelion è una sorta di puzzle.
Qualsiasi persona può vederlo e darne una propria interpretazione. In altre parole, stiamo offrendo agli spettatori [la possibilità] di pensare da soli, in modo che ogni persona possa immaginare il proprio mondo.
Hideaki Anno
Se avrete – come prevedibile – dubbi alla fine della visione, potrete tornare qui.
Troverete tutte le risposte.
Ma ce ne sono un paio a cui posso già rispondere…
Come guardare Evangelion
La visione di Neon Genesis Evangelion non può che – ovviamente – partire dalla serie tv originale, che trovate completa su Netflix (se avete dubbi sul doppiaggio, da qui potete passare alla parte dedicata).
Si compone di 26 episodi della durata di circa 20 minuti, i cui due finali sono stati riscritti in parte dal primo dei film successivi, The End of Evangelion (1997).
The End of Evangelion (1997)
Dal momento che gli ultimi due episodi della serie tv originale vennero prodotti a seguito di un importante taglio di budget, si nota subito l’evidente differenza rispetto al resto della serie.
Si tratta infatti di una coppia di episodi più che altro verbale, con una struttura narrativa per così dire nulla, che racconta principalmente a parole il concetto conclusivo che Anno, il creatore, voleva comunicare.
Quindi è meglio vedere The End of Evangelion?
In generale, sì.
Ma solamente perché è interessante vedere la conclusione vera – o, almeno, come era stata concepita originariamente dal suo creatore. Tuttavia, io personalmente preferisco la chiusura della serie: più immediata e francamente anche più chiara.
Al contrario, questo film (che in realtà sono due episodi più lunghi e uniti in un lungometraggio) è quasi saturo di elementi, volendo mostrare con immagini quello che di fatto il finale di serie racconta a parole, ma con anche diverse aggiunte.
E gli altri film successivi?
A dieci anni di distanza (2007-2021), uscì un quartetto di film chiamato Rebuild of Evangelion.
Gli stessi propongono una narrazione alternativa della storia (per i primi tre) e una conclusione diversa sia dalla serie che da End of Evangelion. Non avendoli visti non so cosa consigliarvi, anche perché le opinioni in merito sono molto miste.
Tuttavia, se questo tipo di progetto vi ispira e volete ancora altro di Evangelion, provate a dargli una chance.
Il doppiaggio di Evangelion
La questione del doppiaggio di Evangelion è tutt’oggi un tema molto caldo.
Quindi cerchiamo di fare il punto.
Il primo doppiaggio (1997)
Il primo doppiaggio italiano di Evangelion venne fatto sotto la doppia direzione di Fabrizio Mazzotta e Paolo Cortese nel 1997, con anche il coinvolgimento di Cannarsi.
Un doppiaggio molto fedele all’originale, che non manca di qualche linea di dialogo che appare un po’ arcaica e forzata, ma nel complesso è molto godibile e rende bene tutti i concetti della serie.
Il caso Cannarsi (2018)
Nel 2018 Netflix acquisì i diritti di tutti i prodotti del brand, e per questo portò un doppiaggio nuovo di zecca, sotto ancora la direzione di Fabrizio Mazzotta e, soprattutto, di Gualtiero Cannarsi.
Ed è qui che il Cannarsiometro impazzisce.
Con questa nuova edizione infatti scoppiò Il caso Cannarsi, per cui fu spernacchiato a destra e a manca da tutti, persino da chi nonsapeva neanche cosa fosse Evangelion – in quanto, oltretutto il problema era presente da anni.
E Netflix corse ai ripari.
Il nuovissimo doppiaggio (2020)
Proprio per via di queste polemiche, Netflix lo stesso anno dello scandalo annunciò un nuovo doppiaggio, che venne pubblicato due anni dopo.
Personalmente considero questo doppiaggio per certi versi più godibile, perché evidentemente più semplice rispetto ad entrambe le precedenti edizioni, ma che rischia anche di andare troppo a semplificare l’opera stessa…
Quale doppiaggio scegliere?
Dopo aver visto la serie sia col doppiaggio originale, sia con il doppiaggio del 1997, per un primo impatto all’opera io vi consiglio il primo doppiaggio – se riuscite a recuperarlo, per esempio un’edizione home video.
Tuttavia, anche il doppiaggio che trovate su Netflix è accettabile.
Ecco un video per avere un colpo d’occhio sulla situazione:
La depressione
Shinji è un protagonista imperfetto.
Viene improvvisamente trascinato in una vita nuova, una missione per cui non si sente pronto, ma che accetta per pena verso Rei, che nel loro primo incontro è ancora in un evidente recupero fisico dopo l’incidente che ha dovuto affrontare.
E infatti il primo contatto è già un trauma.
Ma la bellezza di Shinji sta proprio nel suo essere tremendamente fallibile: è un eroe incredibilmente quotidiano, realistico, in cui Anno è riuscito a raccontare la profonda depressione che aveva vissuto.
Ed infatti il suo percorso racconta l’uscita da questo stato di angoscia.
Lo stato mentale di Shinji può essere meglio spiegato considerando le tesi de La malattia mortale, opera fondamentale della filosofia di Kierkegaard.
Non a caso l’Episodio 16 porta il titolo della suddetta opera -「死に至る病、そして」, ovvero la malattia mortale, e…
In questo caso l’Angelo da sconfiggere è Leliel, la cui realtà fisica è la sua ombra, identificata come Mare di Dirac, che si rifà ad una teoria effettivamente esistente del fisico omonimo: il vuoto fisico è un mare infinito di particelle di energia negativa.
E proprio al suo interno Shinji viene assorbito.
Shinji Evangelion
All’interno di questa realtà parallela, che rappresenta fondamentalmente il Nulla, il protagonista viene costretto a rivivere una serie di eventi che lo porteranno alla disperazione, la malattia mortale, che uccide lo spirito.
E questa disperazione nel suo caso si articola nella sua seconda declinazione secondo Kierkegaard: il disperatamente non voler essere sé stessi.
E infatti Shinji racconta in più momenti nel corso della serie il suo odiare sé stesso, arrivando al punto – soprattutto in The End of Evangelion – di voler fuggire da tutto quello che gli sta attorno – e facendolo effettivamente per ben due volte.
Il suo sopravvivere alla malattia mortale avviene in due momenti: la prima volta appunto nell’Episodio 16, quando viene salvato dalla madre stessa – che poi corrisponde all’EVA-01. La seconda, nel finale – sia della serie, sia del film.
Infatti, in conclusione l’unico modo in cui Shinji può salvarsi è non solo accettare il suo essere, ma anche l’idea che lo stesso è definito dal suo rapporto con gli altri. Un relazionarsi che può avere effetti sia negativi che positivi, entrambi essenziali per la definizione del suo Io.
E infine il nostro eroe grida felice:
Il complesso del riccio Evangelion
Il complesso del riccio è esplicato all’interno della serie stessa nell’Episodio 4, ed è il collegamento fondamentale fra Shinji e il concetto generale della serie.
Secondo questa teoria, formulata dal filosofo Schopenhauer, che due esseri umani si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno l’uno con l’altro. Proprio all’interno dell’episodio, Shinji scappa perché, avendo ferito la sorella di Suzuhara, e si sente ferito a sua volta.
E infatti Misato dice:
Lo stesso capita ad alcune persone: Shinji in fondo al suo cuore è spaventato dal dolore che potrebbe provare e questo lo rende freddo e riservato.
Per questo vaga per la città, e riesce solo parzialmente a ritornare in sé stesso grazie all’incontro con Kensuke, che gli permette di ritrovare il calore umano che gli mancava.
Ma, nonostante tutto, decide comunque di abbandonare la Nerv.
Solo alla fine dell’episodio ci ripensa, facendo un piccolo passo avanti nella sua maturazione, ovvero quello che aveva predetto Ritsuko:
Presto si renderà conto anche lui che crescere in fondo è un continuo provare ad avvicinarsi e allontanarsi l’un l’altro, finché non si trova la distanza giusta per non ferirsi a vicenda.
Schopenhauer Evangelion
Infatti, la risoluzione di questo dilemma in Evangelion è diversa da quella proposta da Schopenhauer: il filosofo tedesco conclude che l’unica salvezza da questa solitudine è ricercare quel calore umano tanto desiderato dentro sé stessi.
Quindi non l’Uomo non bisogno niente di più che di sé stesso.
Invece, secondo la risoluzione di Evangelion, il progetto del Perfezionamento dell’uomo prevede la distruzione dell’individualità e l’unione di tutte le anime per riuscire a colmare quei vuoti causati da questo senso di solitudine insolvibile che condanna l’umanità al dolore.
Ma in entrambi i finali Shinji – e quindi Anno – si oppone a questa visione.
La scelta finale è quella di accettare il dolore che la propria individualità provoca, soprattutto nello scontrarsi con altre individualità diverse: un incontro che può provocare sia gioia che dolore, ma che anche definiscel’Uomo stesso.
E lo spiega bene lo stesso creatore:
È la storia della risoluzione, della volontà di stare insieme agli altri anche se si è bloccati dalla paura di toccare il prossimo, al costo di sopportare una vaga solitudine.
Hideaki Anno
La vendetta?
Come ogni personaggio di Evangelion, anche Misato ha un trauma importante alle spalle.
Sulle prime viene presentato come una donna allegra, quasi comica – e infatti su di lei grava molta parte dell’elemento umoristico dell’intera serie. Tuttavia, i suoi comportamenti così rozzi e disordinati vengono meglio spiegati quando scopriamo il suo passato.
La giovane Misato è infatti l’unica sopravvissuta al Second Impact, salvata proprio dal padre che aveva odiato per gran parte della sua vita. A questo trauma era seguito un periodo di stallo di ben due anni, di totale mutismo.
Ma anche di rinascita.
Infatti, come racconta la stessa Ritsuko:
Ma, per come Misato si impegna a lasciarsi alle palle il passato, lo stesso è sempre in agguato.
Anzitutto, con il suo rapporto con Ryōji.
La donna intraprende una relazione importante con quest’uomo piuttosto affascinante e carismatico, arrivando quasi ad annullare la sua stessa vita – mancando per un’intera settimana da scuola per stare insieme a lui.
Tuttavia, sceglie di troncare la relazione, perché si rende conto di essersi intrappolata nel complesso di Elettra. Infatti, Misato sente di star ricercando il suo stesso padre perduto in Ryōji, sentendosi anche in colpa per essersi approfittata di lui – sempre seguendo il medesimo complesso, che porta anche alla volontà di distruzione del genitore.
Misato Neon Genesis Evangelion
La Misato sul lavoro è un personaggio totalmente diverso.
Forte, autoritaria, in continuo conflitto con Ritsuko, determinata a portare a termine la sua missione: ottenere la sua vendetta contro gli Angeli che gli hanno portato via quel padre tanto amato ed odiato.
Ma riesce anche ad essere la madre di Shinji, una guida ma anche – sempre secondo lo stesso complesso di Edipo – un oggetto del desiderio sessuale del ragazzo.
Il dramma personale
Asuka presenta una caratterizzazione non tanto diversa da quella di Misato.
Anche il Second Children mostra all’esterno una facciata che serve a nascondere ciò che si cela nel suo animo. E, di nuovo, un trauma ha definito la sua personalità: la madre, ormai impazzita, che non la riconosceva, che non la guardava più…
Da cui l’ossessione di Asuka non solo di crescere in fretta, senza mostrare alcuna fragilità, ma di voler continuamente essere vista, riconosciuta come la migliore.
E da questo si sviluppa il conflitto con Shinji.
Per molti versi Shinji neanche capisce il motivo dell’odio di Asuka nei suoi confronti, ma i suoi rimproveri gli rimbombano continuamente nelle orecchie…
Asuka è banalmente gelosa di Shinji, gelosa del suo riuscire così facilmente ad avere tutte le attenzioni, senza di fatto impegnarsi allo stesso modo in cui fa lei – perché gli viene tutto troppo naturale, dal momento che l’EVA è stato costruito su misura per lui.
Infatti, la ragazza rappresenta la terza declinazione della malattia mortale secondo Kierkegaard: la volontà di voler essere sé stessi, ma senza riuscirci. E la sua disperazione aumenta con il diminuire del tasso di sincronizzazione con l’Eva, e, di conseguenza, della sua importanza per la missione della NERV.
Una seconda vita
Rei è il personaggio più enigmatico della serie.
Solo sul finale scopriamo che sostanzialmente si tratta di un essere creato artificialmente, con misto fra la coscienza di Yui e Lilith – con cui alla fine si ricongiunge, andando a creare una versione della madre di Shinji potenziata, che lo accompagna nel suo ripensamento fondamentale.
Ma il dramma di Rei è un altro.
Il First Children vive la prima declinazione della malattia mortale di Kierkegaard: il non essere disperatamente consapevoli di avere un Io. E infatti la ragazza è costantemente alla ricerca di un’identità, che trova continuamente frammentata in più personalità diverse – che in effetti la compongono.
Infatti, Rei è fondamentalmente un mezzo per portare a termine la missione della NERV, un contenitore, un oggetto prodotto in serie, senza una propria identità. E anche per questo desidera la morte, davanti alla prospettiva dell’inevitabile abbandono, una volta che il progetto sarà concluso.
Anche per questo sceglie di legarsi così profondamente ad Ikari: non solo il suo creatore, ma anche l’unico che gli ha dimostrato veramente affetto – come gli occhiali le dimostrano. E, per soddisfarlo, si sottopone del tutto ai suoi ordini, anche deumanizzandosi.
Ma non fino alla fine.
Rei Evangelion
Per questo Shinji e Rei si riescono a salvare vicendevolmente.
Tramite Shinji, il First Children riesce a capire il valore di un legame diverso da quello che lo lega artificiosamente all’EVA, e proprio secondo ancora il paradosso del riccio e la morale complessiva dell’opera: definire il proprio Io tramite il contatto con gli altri.
E infatti nel finale di The End of Evangelion si rifiuta di essere per l’ennesima volta il mezzo di Ikari per ritrovare la moglie perduta, ma sceglie invece di legarsi a Lilith – e quindi e liberare una parte del suo essere originario – per salvare Shinji.
Asuka e Shinji Evangelion
Asuka è il personaggio che più respinge Shinji, ma quello anche da cui il protagonista è più attratto.
Da questo punto di vista, a parte alcuni scivoloni soprattutto in The End of Evangelion, sono rimasta piuttosto soddisfatta dalla rappresentazione di questo lato della personalità del protagonista – quasi inevitabile trattandosi di un adolescente.
Come testimoniato da inquadrature dal sapore fortemente voyeuristico, Shinji scopre la sua sessualità proprio tramite Asuka, in particolare quando vorrebbe baciarla mentre è addormentata.
Ma Asuka è anche il personaggio da cui non riesce bene a prendere le distanze, ferendosi continuamente…
Al contrario il rapporto con Rei non ha alcuna componente sessuale, ma rappresenta invece il desiderio di riavvicinarsi ai genitori.
Prima Ikari – per via dell’importante rapporto che la ragazza sembra avere con l’uomo – e poi alla madre stessa, che ritrova inconsapevolmente proprio nel First Children. Ma alla fine con Rei si crea un rapporto importante, che va oltre a tutto questo.
Anche solo per il gesto di umanità – uno dei pochi – che Shinji riesce a strappare alla ragazza: il sorriso alla fine del sesto episodio.
Il percorso tracciato
Ritsuko è un altro personaggio di difficile lettura.
Apparentemente una donna fredda e distaccata, concentrata unicamente sul suo lavoro, in realtà si rivela a poco a poco come un personaggio che vive nell’ombra dell’eredità materna.
Ritsuko infatti ha un rapporto molto conflittuale con la madre: se da una parte l’ammira come scienziata per le sue incredibili scoperte, dall’altra la biasima come madre e donna.
Ma, altrettanto inevitabilmente, segue il suo stesso percorso, ricalca i suoi stessi errori.
Infatti, diventa lei stessa quella donna distaccata e dedita solamente al lavoro, e allo stesso modo si lascia totalmente rapire dalle ambizioni di Ikari, divenendone il principale agente.
Allo stesso modo vive dell’invidia della posizione di Rei: come la madre aveva strangolato la bambina, così Ritsuko distrugge tutte le copie del First Children.
Ma le due si differenziano sul finale.
Se infatti Naoko sceglie di arrendersi davanti all’abbandono di Ikari, togliendosi la vita, al contrario Ritsuko sceglie di andarsene col botto, portando con sé tutto quello che ha creato.
Ma alla fine della sua vita deve anche accettare il tradimento della madre: il Magi Casper si rifiuta di seguire i suoi ordini, e dà ancora la vittoria a Ikari.
Il volto rivelatorio
Ikari è un personaggio pieno di contraddizioni.
Inizialmente appare come il totale antagonista, in particolare del figlio, che ha allontanato per anni, e che per la maggior parte del tempo tratta sgarbatamente e con grande freddezza.
Durante la serie viene dipinto sempre di più come il cospiratore nell’ombra, un serpente che ha sempre agito unicamente per il proprio profitto.
Ma la sua umanità sta proprio in Shinji e Yui.
Ikari evidentemente aveva avvicinato la futura moglie per approfittarsi della sua posizione, ma col tempo, inevitabilmente, si era legato indissolubilmentea lei.
Al punto di fare qualsiasi cosa per riaverla al suo fianco.
Il trauma della perdita del suo unico amore è infatti stato rivelatore del significato e del peso che hanno le relazioni con gli altri, soprattutto quelle importanti.
E per questo ha allontanato Shinji: è consapevole che la sua vicinanza col figlio riporta alla luce domande sulla moglie a cui non vuole rispondere, è così del fatto che un rapporto così importante come quello col figlio gli porterebbe gioia, ma anche tanto dolore.
Tale padre, tale figlio insomma.
Da notare anche il suo cambiamento fisico: se nel passato era un uomo che stava sempre a volto scoperto, con dei lineamenti che già di per sé raccontavano la sua natura insidiosa, nel presente è invece una figura nell’ombra i cui occhi, specchio dell’anima, sono spesso celati…
E l’unico affetto che davvero si concede è quello verso Rei, ma solo perché la vede come il mezzo per riuscire, finalmente, a ricongiungersi con Yui.
L’eredità di Evangelion
A cura di Carmelo
Il 4 ottobre 1995 viene trasmesso su Tokyo Channel 12 alle 18:30 il primo episodio di Neon Genesis Evangelion, una serie che si rivelerà rivoluzionaria e innovatrici per il genere.
Fra le innovazioni più importanti, vanno citati i numerosi riferimenti religiosi, filosofici e psicologici, una profonda introspezione psicologica dei personaggi, portata avanti tramite diversi monologhi interiori dei protagonisti e i momenti di calma e silenzio.
Gli stessi sono molto importanti, come ricorda Makoto Shinkai, autore nipponico ancora in rampa di lancio per Your Name (2016):
Ma l’ innovazione più importante di Evangelion è stata di inaugurare un nuovo e duraturo periodo fertile per l’animazione televisiva indicato con il termine di nuova animazione seriale giapponese.
In particolare, ha portato ad una maggiore autorità dei produttori, una concentrazione delle risorse in un minor numero di episodi, un’impostazione registica più vicina alla cinematografia dal vero.
E infine ha portato anche ad un drastico ridimensionamento del rapporto di dipendenza dai soggetti manga e ad una maggior libertà dai vincoli del merchandising (inteso come fonte d’ ispirazione obbligatoria).
Tuttavia, nonostante l’incredibile successo della sua opera – anzi, forse proprio per quello, Anno nel 2006 affermò:
L’opera innanzitutto visiva nota come Evangelion è stata realizzata assecondando desideri diversi. Il desiderio di ricollegare l’animazione giapponese, in rovina, alle sue origini. Il desiderio di abbattere il dilagare della chiusura d’animo.
Ho riflettuto sulla ragione di rivolgersi, oggi, ad un titolo del passato, di oltre 10 anni fa. Sento che Eva ormai è vecchio.
Ma negli ultimi 12 anni non ci sono stati anime più nuovi di Eva.
E con queste parole presento la Rebuild of Evangelion.
In realtà, ad oggi possiamo modestamente affermare quanto si sbagliasse: basta guardarsi indietro per vedere quanti prodotti televisivi anime di altissimo livello siano nati sotto l’influenza di Evangelion, che ha contribuito alla maturazione del genere.
Tutte le risposte alle domande più frequenti sul Neon Genesis Evangelion.
Cos’è successo durante il First Impact?
Il First Impact avvenne in un momento indefinito del passato, quando la Luna Nera si schiantò sulla Terra, precisamente nell’odierno Giappone. La stessa era stata inviata dalla Prima Razza Ancestrale, entità extraterrestri, avanzatissime tecnologicamente, e creatrici di vita.
La Luna Nera conteneva Lilith, uno dei Semi della Vita, entità extraterrestri inviate appunto dalla Prima Razza Ancestrale per portare la vita su diversi pianeti nell’Universo.
Ma l’arrivo di Lilith non è stato altro che un errore, perché sulla Terra era già presente un altro Seme della Vita, Adam.
Quest’ultimo venne neutralizzato tramite la Lancia di Longino, non potendo così procreare una progenie, cosa che fece invece Lilith: la sua progenie sono i Lilin, le creature della Terra, fra cui gli umani.
Chi sono gli angeli?
Generalmente parlando, gli Angeli di Evangelion sono i figli di Adam, che tornano sulla Terra e la attaccano per riottenere il possesso della stessa.
A questo fine vogliono rientrare in contatto con Lilith.
Per questo l’obbiettivo degli Evangelion è quello di distruggere gli Angeli ed impedire loro di compiere la loro missione – ovvero causare il Third Impact.
Cos’è successo durante il Second Impact?
Il Second Impact avvenne il 13 Settembre 2000 in Antartide, e fu il risultato di un esperimento guidato dal Dr. Katsuragi, il padre di Misato, finalizzato al risveglio di Adam – il gigante di luce – e al suo contatto di quest’ultimo con DNA umano.
Di fronte all’imminente catastrofe, gli scienziati riuscirono a neutralizzare nuovamente Adam tramite la Lancia di Longino, riducendolo allo stato embrionale.
Ma era troppo tardi.
Le conseguenze furono terribili: scioglimento della calotta polare, un improvviso spostamento dell’asse terrestre, innalzamento del livello dei mari e conseguente cambiamento delle stagioni – in Giappone, un’estate eterna.
Tutti i partecipanti alla missione morirono, si salvò solo Misato Katsuragi salvata dal padre, mentre Gendō Ikari riuscì a scappare per tempo portando con sé tutti i materiali dell’esperimento.
Cosa sono gli Eva?
Gli EVA sono dei giganteschi automi da combattimento antropomorfi, creati grazie agli studi della Dr.ssa Yui Ikari, sotto la guida della SEELE, al fine di combattere gli Angeli e portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.
Con l’eccezione dell’EVA-01, che è creata da Lilith, tutti gli EVA sono creati a partire da Adam. Anche se apparentemente sembrano dei robot giganti senz’anima, nel corso della serie si scopre che in realtà sono delle creature organiche, la cui armatura che li ricopre soffoca la loro volontà.
La stessa si libera quando l’EVA entra nella Modalità Berserk, e prende il sopravvento sul pilota, agendo autonomamente.
Chi è Rei Ayanami?
Rei Ayanami è il First Children e pilota dell’EVA-00.
Anche se viene presentata come la figlia di una conoscente, in realtà si sa poco sul suo passato: è sicuramente un essere artificiale, creato da quello che rimaneva dopo l’assorbimento di Yui Ikari dall’EVA-01 e da Lilith, con cui si ricongiunge in The End of Evangelion.
Il personaggio ha tre incarnazioni: Rei I, la bambina che si vede nel flashback, uccisa da Naoko Akagi nel 2010; Rei II, il personaggio che si vede nella maggior parte della serie; Rei III, dalla seconda parte dell’Episodio 23 fino al finale.
Cos’è la NERV?
La NERV è un’organizzazione creata dopo il Second Impactper combattere gli Angeli, essendo quindi responsabile della creazione degli Evangelion.
Per quanto sia sulla carta sotto il controllo delle Nazioni Unite, in realtà agisce in maniera abbastanza indipendente, in parte controllata dalla SEELE, col fine di portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.
La NERV deriva anche da un assorbimento della Gehirn, organizzazione sempre nata dopo il Second Impact e responsabile della creazione dei Magi.
Cos’è la SEELE?
La SEELE è un’organizzazione segreta che lavora alle spalle della NERV, in parte controllandola e finanziandola.
La teoria alla base dell’organizzazione è che l’Umanità la stirpe sbagliata, in quanto nata da Lilith, mentre la vera stirpe che dovrebbe dominare la terra è quella dei figli di Adam, quindi gli Angeli.
Per questo lavorano ad un unico obbiettivo: il Perfezionamento dell’Uomo.
Cos’è il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo?
Il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo è l’obbiettivo segreto portato avanti dalla SEELE con l’aiuto della NERV.
Il fine ultimo di questo progetto è riuscire ad unire tutti i figli di Lilith, i Lilin – quindi l’umanità – nell’uovo di Lilith come un unico essere, così da portare ad un perfezionamento appunto dell’uomo, per colmare i vuoti del suo animo derivanti dall’individualità.
Cosa succede nel finale?
Esistono due finali di Evangelion: quello della serie e quello di The End of Evangelion – anche se per molti tratti sono simili.
Nel finale della serie tv i due episodi sono un momento di riflessione per tutti i personaggi, in particolare per Shinji: distrutto dopo aver ucciso Kaworu Nagisa, sente di odiarsi e voler scomparire.
Tuttavia, riesce in ultimo ad accettare di vivere in un mondo popolato da altre persone, le cui relazioni potrebbero anche ferirlo, ma che sono essenziali per definire la sua identità.
The End of Evangelion spiegazione
The End of Evangelion è più complesso.
La NERV ha sconfitto tutti gli Angeli, ma la SEELE scopre il tradimento di Ikari – che non vuole portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo come da loro richiesto – e quindi manda l’esercito per sterminare la base, in particolare i piloti degli EVA, e prenderne possesso.
Asuka combatte i nuovi EVA, riuscendo inizialmente a vincere, ma poi venendo sopraffatta. Shinji, distrutto dalla morte di Kaworu Nagisa, viene trascinato e messo in salvo da Misato – che muore nel tentativo – e sale sull’EVA-01.
Mentre gli EVA riescono a sconfiggere l’EVA-01, Rei si rifiuta di seguire il piano di Ikari – quello di fondersi con lui – e invece si fonde con Lilith, che diventa un essere gigantesco con le sembianze di Rei, che assorbe Shinji al suo interno.
A questo punto, contro i piani della SEELE, Shinji può decidere l’andamento del Piano di Perfezionamento.
Shinji desidera a questo punto che tutti muoiano, compreso sé stesso, ma viene aiutato nel suo processo di consapevolezza dall’anima di Yui contenuta dentro l’EVA-01, mentre le anime di tutta l’umanità si sono fuse in un’unica entità.
Quando Shinji accetta infine di vivere in un mondo popolato da individualità diverse – quindi rifiutando il Perfezionamento – gli EVA diventano di pietra precipitano sulla terra, mentre l’EVA-01 si smembra e si dirige verso lo spazio con l’anima di Yui.
Infine, Shinji si risveglia sulla spiaggia insieme ad Asuka, tenta di strozzarla, ma la mano della ragazza sulla sua guancia – primo gesto di vero affetto – lo fa scoppiare a piangere ed allentare la presa.
Mare of Easttown (2021) è una miniserie mistery di produzione HBO con protagonista Kate Winslet, che divenne molto popolare nella stagione dei premi di quell’anno, vincendo quattro Emmy e un Golden Globe.
In Italia è nota col titolo di Omicidio a Easttown ed è disponibile su NOW.
Di cosa parla Mare of Easttown?
Dopo un anno, un misterioso caso di scomparsa di una ragazza nella piccola città di Easttown è ancora irrisolto. E cominciano ad accumularsi altri casi riguardanti altre giovani della comunità…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Mare of Easttown?
Sì e no.
Personalmente, da una serie di cui si era parlato così tanto mi aspettavo qualcosa di più: è un prodotto complessivamente buono, con un’ottima Kate Winslet e una costruzione narrativa che riesce a tenere col fiato sospeso fino all’ultimo minuto.
Tuttavia, è anche una serie che si può definire mistery fino ad un certo punto, dal momento che per certi versi il caso diventa un elemento accessorio di una storia, che risulta invecemolto più focalizzata sui personaggi.
E certe volte sembra voler prioritizzare l’elemento scioccante rispetto alla coerenza narrativa…
Poco amabile, ma necessaria
La protagonista ci viene subito presentata come una donna dura e scorbutica.
Ha un rapporto fortemente antagonistico sia con la madre che con l’ex-marito, proprio quando questo si sta per risposare, oltre ad essere incline alla scorrettezza e alle scorciatoie pur di togliersi da situazioni scomode.
Tuttavia, fin dalla prima puntata cominciamo a conoscerla anche come una detective che regge sulle sue spalle un enorme peso, soprattutto emotivo, fra casi impossibili e situazioni familiari complesse.
E col tempo scopriamo anche i traumi del suo passato.
La difficile vita familiare, che avuto il suo picco drammatico con il suicidio del figlio, l’ha fortemente indurita, portandola a gettarsi su casi apparentemente insolvibili, portandola ad un tormento interiore ancora più profondo.
Non mi ha del tutto entusiasmato la gestione del suo personaggio: si punta moltissimo dal punto di vista emotivo sui suoi traumi, ma poi questi vengono risolti fin troppo sbrigativamente, in particolare la morte di Colin.
Inoltre, la sua temporanea sospensione dalla polizia, che poteva portare ad una maggiore riflessione sul personaggio e ad una gestione della trama più interessante, in realtà si rivela fondamentalmente inutile, e anche troppo facilmente risolta.
E non è l’unico caso…
L’effetto Barnaby
In moltissime serie analoghe, i misteri si svolgono in piccole comunità che fino a quel momento non erano mai state toccate da tragedie, anzi dove era improbabile che accadessero.
Tuttavia, la loro forza sta proprio nell’unicità del caso, che porta i detective ad investigare personaggi che appaiono del tutto innocui e insospettabili.
Quest’ultima dinamica non manca all’interno della serie, ma diventa davvero poco credibile quando i membri della comunità non solo hanno comportamenti sospetti, ma commettono pure svariati crimini.
Di fatto, all’interno di una comunità abbastanza piccola, sembra che ci sia la maggiore concentrazione di criminali che all’interno del resto degli Stati Uniti – e neanche tutti vengono denunciati o puniti.
Insomma, si scade nell’effetto Barnaby: all’interno di una cittadina minuscola accadono tantissimi e improbabili casi di omicidio, e chiunque può essere potenzialmente un criminale.
Tanti casi, nessun caso
Pur di tenere alta la tensione, la serie si perde in tante, troppe storyline.
Già l’idea di mettere due casi in un’unica serie è stato un azzardo, ma lo è tanto più se fondamentalmente i casi vengono risolti e messi nel cassetto, senza che si approfondisca più di tanto il caso stesso o le motivazioni che vi erano dietro.
E scegliere come uno dei colpevoli un personaggio sconosciuto è stato un incredibile autogol che ha vanificato del tutto il mio interesse al riguardo.
Anche peggio scegliere di trascinare così lungamente invece l’omicidio di Erin, utilizzando una messinscena che puzzava fin da subito di fake: la scelta di non mostrare la notte dell’omicidio mentre John Ross la raccontava è un indizio fin troppo palese della falsità della sua confessione.
Al contempo ho poco apprezzato la scelta di Ryan come colpevole: un ragazzino di appena tredici anni che fondamentalmente lo spettatore non conosce e che serve solo per costruire l’inaspettato colpo di scena finale, che però appare veramente poco credibile…
Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+ di genere thriller. Come sempre, un ottimo prodotto seriale, che Apple non sembra voler far conoscere al mondo…
Di cosa parla Black Bird?
Jimmy è uno spacciatore arrogante e spocchioso, che viene condannato a 10 anni di galera. E il suo biglietto d’uscita è particolarmente salato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Black Bird?
Assolutamente sì.
Black Bird è un thriller piuttosto atipico, che affronta diversi temi, fra cui un problema molto attuale negli Stati Uniti (e non solo): l’incubo delle carceri, che si sente in tutta la sua drammaticità.
E la prigione che diventa lo sfondo claustrofobico di un gioco fra le parti, retto da due attori di grandissimo talento, per una storia che riesce a tenerti col fiato sospeso fino all’ultimo…
Insomma, da recuperare.
La maschera
Inizialmente Jimmy è un insopportabile arrogante, che pensa di avere sempre una via d’uscita e di poter fregare chiunque con la sua nota furbizia.
E infatti nel carcere, dopo appena sette mesi, lo troviamo perfettamente ambientato, a capo di un discreto, ma funzionante commercio interno.
E questa stessa arroganza la userà anche per smascherare Larry, cercando di prendere il posto del fratello.
Il protagonista diventa infatti quasi un alter ego di Gary: superiore al fratello per fascino e sfrontatezza, ma comunque profondamente disturbato dal comportamento quasi bestiale che l’uomo rivelacol tempo.
E, come alla fine il fratello maggiore di Hall ammette di non avere la forza di controllare Larry per tutta la vita, Jimmy perde del tutto il controllo davanti alla vera natura del suo fratello acquisito.
Non lo faccio per voi
Se inizialmente lo smascheramento del killer era solo il biglietto di sola andata per uscire di prigione, non ci vuole molto perché i segreti di Larry diventino insostenibili.
Sulle prime Jimmy gioca a fare il gradasso, il cool guy che la sa più lunga di tutti e che sminuisce persino il ragazzo strambo, ma tutto sommato innocuo, accondiscendendo le sue parole per farlo confessare.
Ma quando Larry comincia veramente a rivelare quanto sia visceralmente malvagia e disturbata la sua mente, è il momento in cui Jimmy comincia davvero a crollare.
Una faccia di bronzo alla luce del sole, un uomo terrorizzato nel segreto della sua cella.
E allora passa alla mossa finale, la più difficile che permette veramente di far del tutto svelare la natura di Larry: mettere in dubbio la veridicità della sua storia. Un’accusa insostenibile per un individuo che ha inseguito tutta la vita il desiderio di riconoscimento sociale.
E anche se Jimmy prova a portare Larry, in un ultimo, disperato tentativo, sulla giusta via, capisce infine che è impossibile. E allora perde il controllo.
Ma la bestia vera si deve ancora rivelare…
La bestia sopita
Larry è il lupo travestito da agnello.
Apparentemente è un uomo solo, con le sue stramberie e i suoi peculiari comportamenti con le donne – e non solo – ma fondamentalmente innocuo.
In realtà i confini della sua follia non sono neanche concepibili: che la sua violenza per le donne derivi da una personalità multipla, da una concezione dell’altro sesso coltivata negli ambienti sbagliati o dai traumi infantili, non è dato a sapere.
Sappiamo solo che la sua apparente mansuetudine è del tutto ingannevole: Larry è una bestia incontrollabile, solo apparentemente sopita, che non ha il minimo rimorso per la sua condotta, anzi arriva proprio a giustificarla…
The Last of Us (2023 – …) è una serie tratta dall’omonimo videogioco, di cui condivide showrunner e creatore – Neil Druckmann. Un elemento che è stata la forza e la sconfitta della serie…
Nonostante evidentemente non ci fosse sicurezza al riguardo, The Last of Us è stata una serie da record: se si guardano gli indici degli ascolti, gli stessi sono raddoppiati nel corso della messa in onda degli episodi.
Di cosa parla The Last of Us?
Un virus parassita si diffonde all’improvviso, a macchia d’olio, distruggendo la società dalle fondamenta. Vent’anni dopo, ancora non si trova una cura e il mondo è a pezzi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale pena di vedere The last of Us?
In generale, sì.
Non ho (ancora) giocato al videogioco, ma la mia ignoranza non mi ha portato alcun reale problema: la storia è perfettamente fruibile anche senza avere la minima idea del mondo di gioco, forte anche della fedeltà e della coerenza delle trame raccontate rispetto al prodotto originale.
Tuttavia, non manca di difetti e potrebbe essere meno attraente di quello che il trailer suggerisce: di fatto è un road movie, concentrato più sulle relazioni fra i personaggi che sul mondo di gioco, con un focus molto forte sui suoi protagonisti
In più – ed è il principale problema – non ha una narrazione effettivamente organica, ma piuttosto episodica. Insomma, non aspettatevi una grande serie con una storia unitaria di zombie, ma piuttosto un buddy movieambientato in un mondo post apocalittico, cadenzato con la cosiddetta avventura della settimana.
Insomma, apprezzabile, ma da approcciare con la giusta forma mentis.
Un inizio troppo vicino
L’inizio di The Last of Us è forse la parte più azzeccata.
La serie si apre con una sequenza che getta le basi per farci comprendere la natura dei fungi e quindi dell’epidemia che presto prenderà piede. Segue una lunga sequenza dedicata a mostrarci i personaggi nel passato, che vivono la loro vita ignari di quello che sta già succedendo intorno a loro.
Con una tensione palpabile e perfetta per trenta lunghissimi minuti.
E poi tutto crolla: in un attimo la società è distrutta alle fondamenta. Non ci sono più uomini o donne, non ci sono più esseri umani, ma solo potenziali infetti. E capiamo – e sentiamo – profondamente il trauma di Joel…
E il salto in avanti di vent’anni riesce, in pochi minuti, a raccontare perfettamente quanto la situazione sia persino peggiorata: un innocente bambino viene accolto in una QZ, ma è infetto. Nella scena successiva lo troviamo nella pila di cadaveri che Joel sta raccogliendo…
E quei cartelli di avvertenze su come comportarsi vi ricordano qualcosa?
Costruire una relazione
Il cuore della narrazione è la relazione fra Joel e Ellie.
Spesso il resto della storia viene sacrificato per dare sempre maggior spazio al costituirsi del loro rapporto. Rapporto che, soprattutto sulle prime, è fortemente antagonistico: Joel vive Ellie come un peso.
Infatti l’uomo è stato indurito dalla vita, dalla morte della figlia e dai venti durissimi anni dove ha visto il mondo crollare. E infatti la loro relazione si costruisce a poco a poco: per un terzo degli episodi Joel tratta la ragazzina anche piuttosto sgarbatamente, cercando di domare la sua sfacciataggine.
Ma Ellie è un personaggio talmente frizzante e piacevole che per Joel è impossibile non affezionarsi e ritrovare in lei la figlia perduta. E, il misto di piccoli momenti che strappano una risata inaspettata – le terribili barzellette – e delle grandi sfide davanti alle quali i protagonisti vengono messi, costruisce un rapporto importante ed intenso.
E questo è possibile soprattutto per i due attori protagonisti.
Anche senza conoscere il videogioco, posso sicuramente dire che Pedro Pascal e Bella Ramsey siano stati due ottimi protagonisti, che sono riusciti a portare in scena una coppia intrigante e in continua evoluzione, per quanto opposta nel carattere.
Ma l’importanza della loro storia è anche parte del problema.
Un mondo senza pericoli
La totale centralità della loro relazione è soffocante per tutto il resto.
Non che manchi in realtà un buon world building: vengono raccontate le varie facce di questo nuovo e spietato mondo post apocalittico, frantumato in piccole comunità che pensano solo a se stesse, per cui il resto del mondo è il nemico.
Tuttavia, si sente la mancanza di una minaccia.
Gli infetti ci sono e quando ci sono sempre terrificanti, rubano la scena persino ai protagonisti, in particolare nel picco del quinto episodio, con la terrificante orda che azzanna, distrugge e smembra tutto quello che gli capita a tiro.
E gli attori degli infetti sono stati veramente ottimi.
Tuttavia la loro presenza è troppo sporadica: manca un numero sufficiente di scene che riesca a giustificare la continua tensione che dovremmo provare quando i personaggi escono dalle zone sicure.
Anzi, spesso viene anche detto che in determinate luoghi gli infetti non ci sono proprio…
La mancanza di organicità
The Last of Us sembra voler raccontare una storia unitaria e un viaggio piuttosto lineare, con alcune deviazioni lungo il percorso.
Tuttavia, manca di un’effettiva organicità.
Ci sono fin troppe puntate in cui il viaggio si ferma per fin troppo tempo, con episodi che non sono semplici deviazioni, ma intere storie a parte o occasioni per approfondire meglio la psicologia dei personaggi.
Nonostante molte di queste storie siano indubbiamente interessanti e introducano personaggi indimenticabili – fra cui la bellissima storia di Bill e Frank – al contempo rovinano inevitabilmente il ritmo della storia principale, che risulta eccessivamente spezzettata e troppo sbrigativa in alcuni snodi cruciali.
Lo svolgimento sembra voler portare una storia unitaria e completamente focalizzata sul mondo e soprattutto i protagonisti, ma al contempo si perde appuntoin molte altre storie tangenziali. Non sarebbe stato per questo più onesto portare una serie con una struttura verticale – ovvero episodica – senza sforzarsi nell’altro senso?
Il finale
Il finale di The Last of Us è stato molto discusso.
Si è criticato soprattutto il minutaggio troppo ridotto per portare in scena un momento così importante della storia di Joel e Ellie. Personalmente io ho trovato la durata dell’episodio più che giusta, e non ho sentito il bisogno di avere a disposizione più tempo per raccontare questo importante momento conclusivo.
Al contrario, accolgo la critica circa la mancanza di introduzione di questo finale: niente nell’episodio precedente racconta l’approcciarsi ad una conclusione – e sarebbe bastato veramente poco. E l’episodio stesso non sembra una conclusione, se non quando effettivamente i protagonisti arrivano al punto di arrivo.
Tuttavia, ho trovato estremamente interessante il dubbio morale che il finale vuole trasmettere: stiamo dalla parte di Joel o la sua è solamente una scelta egoistica? Un tema che sarà indubbiamente esplorato nella seconda stagione, e che rivela la precarietà del rapporto fra i protagonisti…
Recensione The Last of Us
Il prezioso contributo di Cristiano (@cristianodalianera), con un’opinione forse non tanto diversa dalla mia, ma sicuramente più colorita…
Il preambolo
L’attesa di The Last of Us era vincolata all’aspettativa, altissima, che il progetto videoludico aveva instillato.
Una videogame action-survival horror tutto trama, con complicate digressioni emotive e un sottobosco di non detto ad arricchire la narrazione. Praticamente Resident Evil diretto da Alejandro González Iñárritu (anche grazie alle suggestioni sonore di Gustavo Santaolalla), cosa poteva andare storto?
Infatti il gioco – uscito nel 2013 – è stato devastante sul fronte pubblico e critica, alzando l’asticella della qualità e diventando, a tutti gli effetti, il canto del cigno della PlayStation 3. Naughty Dog, nella persona dell’ideatore Neil Druckmann, deve aver pensato: ho un prodotto cinematografico fatto e finito!
Ed è partito subito il progetto per un lungometraggio che, in origine, prevedeva la regia di Sam Raimi ed un cortometraggio animato sotto l’egida Sony Pictures.
Ma qualcosa è andato storto.
L’adattamento
Una produzione che ha preso piede con un cattivo auspicio: la critica al casting di Bella Ramsey per il personaggio di Ellie. L’accusa è stata di non essere bella abbastanza per interpretare la protagonista. Su Pedro Pascal un dubbioso assenso: alla fine Joel è musone quanto basta.
Risolto il problema delle facce, bisognava affrontare il problema della storia.
Come affrontare la trasposizione del videogame?
Le vie maestre sono due: quella lunga e quella corta.
La via lunga prevede un approfondimento costante, lo sviluppo di una trama orizzontale complessa, avvincente, appassionante. Una sorta di soap-opera con un substrato di apocalisse che aromatizzi il tutto, lasciando sedimentare l’affetto per i personaggi in una crosta cementizia inscalfibile.
La via breve prevede una serie di episodi dalla trama pressoché verticale, rifacendo shot-for-shot intere sequenze del videogame, ad uso e consumo del videogiocatore incallito (e un po’ tossico) che opera la metà della magia della messa in scena: lo dimo ma non lo famo, e la fantasia dello spettatore ci mette il resto.
Il risultato
Spaparanzati davanti al primo episodio, già assaporavamo la lentezza della costruzione narrativa di una serie di spessore, un lungo viaggio nell’abisso e nella risalita. Una collocazione da manuale per tempi tecnici e narrativi, condito dalla necessaria crudeltà che è ingrediente imprescindibile a far montare la rabbia che ci tiene incollati allo schermo: vogliamo tutto e lo vogliamo ORA.
Il secondo episodio prosegue, un po’ in sordina, ma è preparatorio. Ci sfreghiamo le mani in attesa del bagno di sangue, della fuga rocambolesca, del salvataggio all’ultimo minuto.
Episodio tre: La Casa nella Prateria prepper edition.
Beh, sono scelte narrative. Il review bombing dell’episodio a causa dei temi LGBTQ+ me l’ha fatto stare persino simpatico, anche se realizzato in maniera eccessivamente ruffiana. Vabbè, alla fine ci sta una battuta d’arresto.
Magari non è uscita proprio come uno s’aspettava.
Quattro e Cinque, con uno straccio di orizzontalità, sembrano andare troppo a rilento ed in maniera abbastanza inconcludente. La quinta è tipo la versione tamarra di Zombie di Romero, con un finale wtf che riporta la speranza alla quota di sicurezza.
È il giro di boa – uno pensa – da qui in poi è il delirio.
Episodio sei: latte alle ginocchia feat. cameo del cane Chopper di Stand by me.
Episodio sette: sismance in flashback feat. UNO DI NUMERO infetti. Grossa suspense.
La qualità del prodotto, tecnicamente parlando, è sopraffina.
Inquadrature, sequenze, fotografia, scenografia, recitazione. Tutto, davvero eccellente. La narrativa, presa per singolo episodio, è superiore alla media per tantissimi versi.
Nell’insieme, invece, è sconclusionata e, come dicono quelli bravi, anti-climatica.
La gestione dei tempi, relativamente coerente col singolo episodio, è stata gravemente sottostimata nell’ottica della serialità. Si iniziava a sentire il prurito alle corna dall’episodio tre, che nella prospettiva della serie completa risulta essere una colossale perdita di tempo, preziosissimo tempo da investire nella costruzione del rapporto fra i protagonisti.
E non è stata l’unica.
L’episodio sei è una serie di montagne russe in accelerazione e decelerazione su cose essenziali, se la serie avesse avuto davanti altre dodici puntate. Il tutto si traduce in un filler-spiegone dall’effetto soporifero che ammazza una tensione emotiva già moribonda.
L’inseguimento dei tempi videoludici si è fatto, tra l’episodio cinque e sei, insostenibile. E mentre il giocatore incallito si è esaltato nella riproposizione pedissequa delle sequenze di gioco, lo spettatore medio si infilata schegge di bambù sotto le unghie.
La costruzione del rapporto padre-figlia si risolve in un vortice di frasi fatte e ripescaggio di formule abusate. Il ruolo del cattivo poggia tutto sulle spalle del genere umano – homo homini lupus – che occhei vabbene abbiamo capito.
Gli infetti compaiono quattro volte in nove puntate, livello di pericolosità: li elimina una donna in travaglio con un temperamatite.
Alla fine The Last Of Us si è rivelato un enorme equivoco.
Chi si aspettava il taglio epico del videogame ha dovuto fare i conti con l’assenza della componente interattiva, che trasporta lentamente il videogiocatore nella storia e gode di un lusso che questa serie non si è concessa: il tempo.
Chi si aspettava la narrazione autoriale di La Guerra Mondiale degli Zombi – il libro di Max Brooks, non il film – attraverso gli occhi di due anime perse nella fine del mondo ha dovuto fare i conti con una realizzazione confusionaria e frammentata che pecca nell’unica cosa di cui si senta davvero la mancanza: il tempo.
La conclusione
Una promessa mancata che si divide tra chi la difenderà a spada tratta – Guarda! L’hanno rifatta uguale! – e chi l’ha subita maturando lo spegnimento per ogni forma di entusiasmo.
Personalmente ho ravvisato una fortissima componente riempitiva, sia emotiva che sostanziale, da chi conosceva la trama e chi era pieno di aspettative. In realtà il migliore adattamento da un videogame non c’è stato, e la serie ondeggia fra la mediocrità e la sufficienza.
L’esperimento mentale necessario sarebbe quello di togliere dal prodotto il brand The Last of Us e darlo in pasto allo spettatore qualunque: si toccherebbero vette di disinteresse che sono la cifra di un prodotto tenuto in vita da un pernicioso fungo parassita che assomiglia all’accanimento terapeutico.