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The White Lotus – La società al vetriolo

The White Lotus (2021 – …) di Mike White è una serie tv di genere drammatico e satirico, dal taglio semi-antologico. Un prodotto che è stato ampiamente premiato agli Emmy, ma che ha avuto un riscontro abbastanza tiepido in Italia.

È distribuita da HBO e in Italia è disponibile su NOW.

Di cosa parla The White Lotus?

Ogni stagione la serie racconta le intricate vicende di un gruppo piuttosto vario e colorito di personaggi, accomunati dall’essere ricchi e dall’alloggiare presso uno dei resort del White Lotus, appunto.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The White Lotus?

Meghann Fahy in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Assolutamente sì.

Ho cominciato questa serie con poco interesse, attirata principalmente dal passaparola positivo intorno al prodotto – e dal fatto che è stato paragonato al mio adorato Triangle of Sadness (2022). E ne sono rimasta assolutamente rapita: è difficile anche spiegare perché questa serie sia così tanto coinvolgente.

Sarò perché la scrittura dei personaggi e delle loro relazioni è sublime, mai banale, nonostante i temi trattati potrebbero facilmente appartenere a qualsiasi drama di terza categoria. Senza contare dell’interessantissima e sempre attuale riflessione sulla società odierna.

Insomma, non ve la potete proprio perdere.

Ogni sezione parla solamente della stagione di riferimento.

The White Lotus 1

La prima stagione è ambientata nel resort White Lotus alle Hawaii.

La moglie trofeo

Alexandra Daddario in una scena della prima stagione di The White Lotus

La storia forse più drammatica è quella di Rachel.

Si percepisce fin da subito il disagio della sua relazione: la ragazza è intrappolata con un uomo che è in realtà solo un bambino viziato, che pretende di mettere i piedi in testa a tutti e di avere sempre l’ultima parola.

Ma Shane ha pescato la donna sbagliata.

Rachel non è la classica donna immagine e arrampicatrice sociale da mettere in mostra all’occorrenza: è una donna che ha cercato faticosamente di farsi strada in una realtà piena di insidie, continuando imperterrita nel suo lavoro.

Alexandra Daddario in una scena della prima stagione di The White Lotus

Ma, al contempo, è anche vittima della sua grande insicurezza: accetta le pressioni del marito e i suoi capricci senza una parola, se non qualche timida protesta, che però viene sotterrata dalle continue urla lagnose di Shane.

E vive con molto disagio la sua condizione – evidente ed esplicitata anche dalla madre del marito – di moglie trofeo, cercando di crearsi un proprio spazio di autonomia, non riducendosi a portare avanti lavori senza significato solo per riempire il tempo e acquisire uno status.

Ma il tentativo di emancipazione fallisce: Rachel, troppo spaventata di questo ulteriore grande passo che sta compiendo, torna con la coda dalle gambe dal marito, promettendogli con voce spezzata che sarà felice.

Le paladine di carta

Sydney Sweeney e Brittany O'Grady in una scena della prima stagione di The White Lotus

Olivia e Paula sono apparentemente due ragazze viziate di buona famiglia, superficiali e vuote.

Tuttavia, più la narrazione prosegue, più vengono svelati i loro conflitti sepolti, con al centro la possessività e la gelosia di Olivia, motivo per cui Paula le nasconde la sua relazione con Kai.

Ed entrambe raccontano un conflitto generazionale profondo, ben rappresentato dai vari discorsi fra loro e i genitori: gli adulti vivono ancora delle vergogne e dei principi della vecchia generazione, in particolare di quello dell’omosessualità come demascolinizzante.

Sydney Sweeney e Brittany O'Grady in una scena della prima stagione di The White Lotus

Anche più interessante è il racconto del colonialismo 2.0, ben rappresentato dal resort stesso.

Tuttavia, entrambe le parti sbagliano: se i genitori se ne lavano le mani e negano tutte le loro colpe, chiosando che non possono farci nulla, d’altra parte le due ragazze prendono strade più estreme – e comunque non risolutive.

Infatti, oltre alla condanna aggressiva nei confronti della generazione precedente, non è affatto risolutiva l’idea di Paula, che sceglie di aiutare Kai e la sua famiglia a riconquistare quanto gli è stato tolto improvvisandosi come un’improbabile Robin Hood.

Un atto che porta paradossalmente vantaggio ai conquistatori e che distrugge definitivamente la vita a quelle che erano le vittime in primo luogo.

Il capriccio del momento

Jennifer Coolidge in una scena della prima stagione di The White Lotus

Il personaggio di Tanya racconta forse una figura più stereotipata, ma la cui storia ha dei significati molto interessanti.

Infatti la donna è il classico personaggio ricco e pieno di stranezze, che può permettersi di inseguire ogni capriccio, per quanto temporaneo. E in questo gioco perverso ci finisce di mezzo Belinda, che per un breve periodo diventa la sua favorita, illudendosi di promesse presto smentite.

Natasha Rothwell in una scena della prima stagione di The White Lotus

Inizialmente la donna ha evidentemente la sensazione di starsene approfittando, ma mette presto da parte questi suoi scrupoli per andare fino in fondo, e guadagnarci qualcosa. Ma la sua finestra temporale è brevissima, e in un attimo Tanya è passata al capriccio successivo.

Ed è estremamente interessante come il cambio di idea di questa ricca ereditiera, che la stessa vive con così tanta leggerezza ed egoismo, determina così profondamente il destino di Belinda…

Le belle apparenze

 Murray Bartlett in una scena della prima stagione di The White Lotus

Armond, il manager del White lotus, è forse il personaggio che meglio rappresenta il tema di fondo della serie.

Apparentemente il resort è un luogo idilliaco e paradisiaco, ma è solo un’apparenza, appunto: un’apparenza che nasconde in realtà tutto il marcio, tutti i capricci impossibili degli ospiti, i loro segreti, e i loro peccati.

E Armond, assolutamente stufo di questa situazione, comincia sempre di più a dirigersi verso la sua autodistruzione, utilizzando contemporaneamente le droghe rubate alle due ragazze e inimicandosi Shane, che sempre più insistentemente vuole punirlo.

E, come per Kai e Belinda, è l’unico che veramente ci perde, addirittura con la sua vita.

La vera liberazione

Fred Hechinger in una scena della prima stagione di The White Lotus

Il vero vincitore della serie è Quinn.

Inizialmente ci viene raccontato come un adolescente dissociato, del tutto dipendente dalla tecnologia e dalla pornografia – in maniera quasi stereotipica. Sarà un’onda fortunata a privarlo di tutto, con una funzione quasi catartica.

Anche in questo caso è una costruzione passo passo: prima viene esiliato sulla spiaggia e vede per la prima volta una balena, poi comincia ad unirsi agli atleti ogni mattina, fino a rendersi conto della fumosità e l’inutilità della vita che aveva condotto fino a quel momento.

Ed è l’unico che davvero sceglie di abbandonare quel mondo, e remare felice verso l’orizzonte.

The White Lotus 2

La seconda stagione è ambientata nel resort White Lotus in Sicilia.

Il gioco delle coppie

Meghann Fahy,  Aubrey Plaza, Theo James e Will Sharpe in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Uno degli elementi centrali della stagione è il gioco delle relazioni, che si articola in ben quattro coppie e un triangolo amoroso.

Sulle prime, sembra che Harper e Ethan siano una coppia infelice, sopratutto per via della freddezza e dell’ossessione del controllo della donna, in totale contrasto con l’apparente felicità di Cameron e Daphne.

Tuttavia la stessa viene presto svelata come tutta apparenza: Cameron si intrattiene con diverse donne alle spalle della moglie, che ne è tuttavia consapevole, ma che decide comunque di mantenere in piedi la facciata.

Meghann Fahy e Will Sharpe in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Al contrario, la coppia più solida si rivela infine quella di Ethan e Harper, basata sulla totale fiducia e sincerità. E questo, nonostante la stessa fiducia venga meno sul finale, quando il marito è convinto che la donna l’abbia tradito con Cameron – come viene anche suggerito nel primo episodio.

Entrambe le storie – anzi proprio il loro contrasto – offrono diversi spunti di riflessione riguardo alla fragilità delle relazioni e di come spesso si decida di continuare a mantenere il quieto vivere delle stesse, pur avendo consapevolezza di tutte le bugie che vi stanno dietro…

Dove sta la morale?

 Beatrice Grannò e Simona Tabasco in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Altrettanto interessante sono le vicende di Lucia e Mia.

Per quanto riguarda Lucia, non è ben chiaro fino alla fine quanto e se la ragazza stia mentendo riguardo ad Alessio e quanto si sia effettivamente approfittato di Albie, con cui si intrattiene diverse volte e con cui sembra costruire un’effettiva relazione.

Eppure alla fine decide comunque di costruirsi una vita alle spalle del ragazzo, con un tradimento che neanche sembra toccarlo più di tanto, in quanto è subito pronto a tornare da Portia. È forse la realizzazione felice del disastroso piano di Kia e Paula nella prima stagione, derubando i ricchi per dare ai poveri?

E noi, da che parte stiamo?

Beatrice Grannò in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Molto più netta è la situazione di Mia.

La ragazza capisce che l’unico modo in cui – purtroppo – può fare carriera come cantante è concedendosi all’uomo di potere di turno. Tuttavia, appare chiaro fin dal principio che Giuseppe si voglia solamente approfittare di Mia.

E per questo viene punito.

Alla fine la ragazza riesce ad ottenere il tanto ambito posto è perché convince con tante belle parole Valentina e dimostra effettivamente di essere capace e di ottenere il favore del pubblico, a differenza appunto di Giuseppe.

E molto delicata è anche la relazione con Valentina.

Un sottile equilibrio

Sabrina Impacciatore in una scena della seconda stagione di The White Lotus

La storia di Valentina è quella con lo svolgimento più interessante.

La donna si invaghisce di Isabella e confonde la sua gentilezza con delle avance, andandole anche contro, togliendo un possibile spasimante dalla sua vita – ovvero Rocco. Tuttavia, nel momento della rivelazione del loro prossimo matrimonio, Valentina decide di non cedere alla cattiveria e all’abuso di potere.

Infatti, forse anche ammorbidita dalla relazione con Mia che le permette di esprimere finalmente i suoi desideri sessuali, la donna accetta la relazione di Isabella e Rocco, e sceglie consapevolmente di non punirla per averla rifiutata romanticamente.

Fra il thriller e il grottesco

Jennifer Coolidge e Jon Gries in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Tanya è l’unico personaggio che appare in entrambe le stagioni e che regala al secondo ciclo di episodi quel taglio thriller che lo rende per certi versi anche più interessante.

Tanya e Greg sembrano avere una relazione piuttosto infelice, da ogni punto di vista: sessualmente non sembrano riuscire a ritrovarsi, e così sentimentalmente Greg non ha più interesse per la donna, con cui si è unito probabilmente solo perché pensava di essere in fin di vita.

Jennifer Coolidge in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Infatti, anche se non viene esplicitamente confermato, Greg avrebbe instaurato un intrigato piano per eliminare la moglie e guadagnarci il più possibile. Così entra in scena questo gruppetto di personaggi quasi macchiettistici, che sembrano regalare a Tanya la più bella vacanza possibile.

In realtà, mettendo a poco a poco insieme i pezzi, la donna si dimostra molto meno ingenua di quanto sembri e capisce di essere in pericolo. E il suo personaggio è talmente goffo e grottesco che ci regala un gustosissimo finale fra il thriller e il comico, in cui Tanya fa disordinatamente strage dei suoi potenziali assassini, ma perde lei stessa la vita.

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Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

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Cyberpunk: Edgerunners – Tutto e subito

Cyberpunk: Edgerunners (2022) è una serie tv ispirata al videogioco omonimoCyberpunk 2077. La serie è stata distribuita in tutto il mondo da Netflix e, come abbastanza prevedibile, non avrà una seconda stagione.

Un aspetto che ha influito non poco sulla riuscita del prodotto…

Di cosa parla Cyberpunk: Edgerunners?

Nella città autonoma di Night City, dominata dalla criminalità e dalla dipendenza cybernetica, David Martinez è un ragazzo di appena 17 anni che cerca di vivere una vita normale. Un incidente mortale cambierà per sempre la sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Cyberpunk: Edgerunners?

Davide e Lucy in una scena di Cyberpunk: Edgerunners (2022)

In generale, sì.

Per quanto non manchino i difetti, Cyberpunk: Edgerunners è una serie molto piacevole da guardare, con ambientazioni affascinanti e personaggi intriganti, le cui vicende sono raccontate in maniera scorrevole e coinvolgente.

L’unico problema è l’evidente intenzione – o necessità – di comprimere una storia piuttosto lunga in soli dieci episodi da poco più di venti minuti, andando in certi punti a sacrificare la possibilità di essere davvero coinvolti con i personaggi in scena e le loro dinamiche.

Tuttavia, non per questo non è una serie da recuperare, anzi.

Posso guardare Cyberpunk: Edgerunners se non ho giocato al videogioco?

Posso godermi la serie anche senza conoscere il videogioco?

Assolutamente sì.

Ovviamente come tutti i prodotti derivativi, conoscere l’opera originale permette di comprendere più immediatamente quanto mostrato in scena. Tuttavia, personalmente, anche senza aver giocato al videogioco, non ho avuto problemi di fruizione – anche perché la storia è del tutto indipendente.

Un unico avvertimento: la maggior parte della lore del mondo non viene esplicitamente spiegata, ma si possono intendere abbastanza facilmente i concetti raccontati partendo dal contesto.

Un’animazione particolare

Davide e Lucy in una scena di Cyberpunk: Edgerunners (2022)

I disegni e l’estetica della serie mi sono piaciute a tratti.

I disegni di per sé non mi hanno entusiasmato: come in certe scene erano molto dettagliati e con un character design molto interessante, in altre mi sembravano molto abbozzati e poco poco d’impatto.

Niente da dire invece per l’estetica generale del prodotto: oltre a riprendere – per quello che ho potuto vedere – piuttosto fedelmente il taglio artistico del videogioco, riesce efficacemente a raccontare una città degradata, ma anche piena di fascino, da cui emergono per contrasto i colori accesi delle insegne neon e dei vestiti stravaganti dei personaggi…

Piuttosto particolare la scelta, in alcune scene, di utilizzare una messinscena di immagini immobili, in cui magari si muove solamente il fumo di una sigaretta, mentre si susseguono dialoghi in scena attraverso voci fuori campo. Al contempo, è molto ben riuscita la resa della follia dei personaggi, particolarmente quella di David.

Gli occhi che si sdoppiano, il tratto di matita molto calcato sui tratti del volto, il montaggio psichedelico delle scene: tutti elementi di grande impatto e fascino.

Una storia semplicemente lunga

Davide in una scena di Cyberpunk: Edgerunners (2022)

La storia è piuttosto semplice e prevedibile per certi versi, ma nondimeno piuttosto coinvolgente.

Infatti, il problema principale non è la storia in sé, ma la sua gestione. A posteriori appare piuttosto evidente che si aveva a disposizione un’unica stagione, e per questo si è dovuto raccontare in poco tempo una storia che avrebbe avuto bisogno in realtà di almeno due stagioni.

Infatti, nel corso di appena dieci episodi, conosciamo il protagonista, lo vediamo crescere, diventare capo di una gang, rimanere per sempre segnato dalla morte di personaggi che abbiamo visto per pochissimo tempo…

Maine in una scena di Cyberpunk: Edgerunners (2022)

In particolare, gli elementi per cui sono andati più di fretta sono il personaggio di Maine – che ci viene raccontato in un paio di episodi e che muore a metà stagione – e il rapporto fra David e Lucy. Quest’ultimo è stato l’elemento più problematico, dal momento che molto del coinvolgimento emotivo del finale è legato alla loro relazione.

In un mondo ideale, l’idea migliore sarebbe sarebbe stata di spalmare la narrazione su venti episodi e dividerla in due stagioni, e gettando i semi della relazione con Lucy nella prima stagione e facendola sbocciare solamente in seguito, e al contempo chiudendo il primi ciclo di episodi con la morte di Maine.

Iconici (e non)

Faraday in una scena di Cyberpunk: Edgerunners (2022)

Il character design dei personaggi è uno degli elementi che mi ha più convinto della serie.

Tutti i personaggi, anche quelli più secondari e che vediamo per pochi episodi, hanno il loro aspetto particolare e iconico, che li rende subito riconoscibili e davvero affascinanti. Il mio personaggio preferito in questo senso è Lucy, nonostante – come per tutte le altre donne della serie – sia una stereotipo su gambe.

Un aspetto che in realtà un po’ mi aspettavo da un prodotto di questo tipo, dove spesso i personaggi femminili sono stereotipati, oltre ad essere ipersessualizzati in maniera quasi ridicola. In questo caso, la caratterizzazione di Lucy mi ha semplicemente mi ha un po’ guastato il coinvolgimento col suo personaggio – che non mi ha personalmente detto molto – e, sopratutto, con la sua relazione con David.

Ed è un peccato, perché il finale l’ho comunque apprezzato.

La lotta impossibile di Cyberpunk

Ho avuto la fortuna di poter inserire questo piccolo contributo di Matteo, che ha giocato al videogioco e che ha voluto raccontarci il tema portante dell’opera.

“Preferiresti vivere in pace da signor nessuno, e morire vecchio, puzzando di piscio, oppure andartene col botto, profumare di fiori, ma non arrivare al tuo trentesimo compleanno?”

Dexter DeShawn, adagiato sul sedile posteriore della sua auto, aspira profondamente dal suo sigaro ed esala una densa nube di fumo bianco. Il primo incontro con uno dei più celebri fixer di Night City introduce uno dei temi portanti affrontati sia nel gioco sia nella serie: ontologia, come la definisce Dex.

Qual è il posto dell’individuo in una società distopica come quella di Cyberpunk 2077?

Dexter DeShawn in Cyberpunk 2077

Che differenza può fare il singolo contro il potere delle megacorporazioni che, a poco a poco, invadono ed erodono la libertà personale, finché nemmeno la propria mente è un luogo sicuro e non ci si può fidare più neanche della propria memoria?

In un mondo in cui è preferibile rimanere a digiuno piuttosto che andare in giro senza armi all’avanguardia e in cui è comune integrare il proprio corpo con innesti cybernetici finché il sistema nervoso non collassa a causa dell’eccessivo sforzo richiesto per gestirli (dando origine all’inquietante fenomeno della cyberpsychosis), non è difficile immaginare come l’obiettivo di molti non sia sopravvivere il più possibile, bensì vivere più intensamente ed essere ricordati più a lungo.

È questa la vita di molti di coloro che scelgono la via del mercenario (merc), saltando di lavoro in lavoro e rischiando la pelle quotidianamente per guadagnarsi da vivere, facendo il possibile per ostacolare le corporazioni in una lotta disperata.

Mr V Cyberpunk

Mr V in Cyberpunk 2077

Ma quella contro le megacorporazioni è una resistenza futile.

Chi le combatte non può sperare di vincere, di sfuggire al loro giogo, ma solo di causare il maggior danno possibile ed essere ricordato dai sopravvissuti per aver trovato una morte gloriosa. Prima di venire catturato da Adam Smasher, Johnny Silverhand riesce a piazzare un ordigno esplosivo nel cuore dell’Arasaka Tower, ma, dopo averla rasa al suolo nel 2023, scopre che un’altra ne ha preso il posto cinquant’anni dopo.

Inamovibile simbolo del potere delle corporazioni che si staglia, nero ed immutabile, contro le sagome colorate al neon che compongono lo scenario cittadino.

Davide e Lucy in una scena di Cyberpunk: Edgerunners (2022)

David Martinez riesce a liberare Lucy dal nuovo quartier generale del colosso economico gestito da Saburo Arasaka, ma anche lui viene fermato per mano di Smasher. Appena un anno dopo, anche V intraprende la stessa strada, quando il suo destino e quello della corporazione giapponese finiscono per diventare inevitabilmente legati dopo che un lavoro prende una direzione inaspettata.

Tutto ciò che rimane dei più celebri mercenari di Night City è un drink sul menù dell’Afterlife con il loro nome.

“Un’ultima cosa, mister V. Vita tranquilla, o finale esplosivo?”

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His Dark Materials – Un bilancio complessivo

His Dark Materials (2019 – 2022) è una serie tv di genere fantasy e avventura tratta dall’omonimo ciclo di romanzi di Philip Pullman, uno dei più importanti autori della letteratura fantastica. La seconda trasposizione, dopo la dimenticabilissima trilogia mancata, iniziata con il film del 2007, La bussola d’oro.

Un esperimento riuscito?

Di cosa parla His Dark Materials?

Ambientato (inizialmente) in un mondo immaginario – che a grandi linee corrisponde ad una Londra di fine Ottocento in stile cyberpunk – la serie segue le avventure della giovane Lyra, una bambina con capacità fuori dal comune…

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Vale pena vedere His Dark Materials?

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

In generale, sì.

Per quanto il mio interesse per la serie sia leggermente calato col passare delle stagioni, rimane comunque un prodotto veramente di alta qualità, a livello di scrittura, effetti speciali e ambientazione. Ma era difficile fare qualcosa di pessimo avendo alla base un’opera così immensa come quella di Pullman, che fra l’altro è produttore esecutivo della serie.

E la sua presenza è stata fondamentale.

In generale se vi piacciono le storie fantasy che si intersecano profondamente con l’elemento fantascientifico, con mondi immensi da scoprire e con poche sbavature, non ve la potete perdere.

Perché il film di His dark Materials era un disastro

Questa sezione è doverosa, perché non vorrei che alcuni spettatori che non hanno conoscenza dell’opera di Pullman, si lascino frenare dalla cattiva qualità di questa pellicola.

I problemi del film erano di fatto due: la mancanza di aderenza all’estetica dell’opera e la scelta della trattazione del materiale.

Anzitutto, l’estetica del film era incredibilmente e inutilmente patinata, in primo luogo facendo sembrare la protagonista, Lyra, che era una ragazzina ribelle e di origini abbastanza umili, una piccola principessa. Senza contare che hanno cercato di puntare su attori di grido come Nicole Kidman e Daniel Craig, una scelta, in ultima analisi, davvero poco indovinata.

Inoltre – e questo quasi per forza di cose – si è tagliato molto dall’opera originale, confezionando un prodotto di meno di due ore, che arriva a spezzare la trama del primo volume.

Per fortuna si sono fermati – e per forza di cose, dato lo scarso successo.

Da qui in poi farò spoiler stagione per stagione.

La prima stagione di His Dark Materials

La prima stagione copre il primo libro, La bussola d’oro (1995).

Una protagonista diversa

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Un elemento che potrebbe un po’ allontanare il pubblico è la poca simpatia di Lyra.

Lyra è in effetti un personaggio complesso, che corrisponde perfettamente alla sua controparte cartacea, e che però è del tutto funzionale alla trama e che la differenzia molto da altre protagoniste femminili di prodotti analoghi.

Non un’insopportabile Mary Sue, ma una protagonista molto determinata, irriverente e coraggiosa, e il cui carattere impetuoso è anche motore delle vicende. E, al contempo, è avventata e per questo spesso fallibile – nella maniera migliore possibile.

Prendersi i propri tempi

Proprio secondo questo stesso ragionamento, Lyra non impara subito ad usare l’Aletiometro (la bussola d’oro), ma ci mette quasi metà della stagione.

Ed è parte di una tendenza complessiva della serie: davanti ad un materiale di base piuttosto corposo, si prende i propri tempi e dedica intere puntate anche ad un unico argomento. È il caso della storia di Iorek e del ritrovamento di Roger, quest’ultimo un primo assaggio che ci porta alla pazzesca penultima puntata, dedicata a Bolvangar.

L’unico momento in cui la serie corre moltissimo è fra la prima e la seconda puntata: nel giro di poco tempo, Lyra salva Lord Asriel e conosce Mrs. Coulter. Non una scelta che mi abbia dato fastidio, anzi piuttosto funzionale a far immergere immediatamente lo spettatore nella storia.

L’indiscutibile superiorità di Mrs. Coulter

Ruth Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Il mio personaggio preferito della stagione è stata indubbiamente Mrs. Coulter, la cui interprete, Ruth Wilson, supera ad ampie falcate l’interpretazione di Nicole Kidman nel film.

Ruth Wilson è proprio il caso di un’attrice che oltre ad essere bravissima, ha proprio il physique du role: appare sempre come una donna infida e macchinatrice, ma anche piuttosto fascinosa.

E infatti è ben rappresentata dal suo daimon: molto bello e affascinante da vedere, ma imprevedibilmente violento e feroce.

E raggiunge il suo apice quando Tony Costa si introduce nella sua casa e lei, con incredibile eleganza e capacità, si comporta esattamente come il suo daimon, a dimostrazione di quanto siano profondamente complementari.

Ampliare il mondo

Il villain principale della stagione – e della storia in generale – è rappresentato dal Magisterium, ben poco esplorato nel film dedicato.

Grave errore, ottimamente superato in questo caso.

Non solo questa diabolica istituzione è raccontata attraverso diversi personaggi, tutti ugualmente iconici e interessanti, ma è anche rappresentato nella sua imponenza e rigidezza attraverso i suoi edifici e interni dalle linee dritte e taglienti, immerse in un bianco e nero molto netto.

Al contempo un altro ampliamento interessante è stato quello di Bulvangar, che va a spiegare un elemento che non era chiarito neanche nel libro: cosa succede ai bambini tagliati?

Il problema di Will

Amir Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

L’unico errore che mi sento di segnalare di questa stagione è la gestione di Will.

Per come sia stato giusto introdurlo più ampiamente già nella prima stagione – nel libro aveva solo un capitolo all’inizio del secondo volume – purtroppo è l’elemento più debole della narrazione.

Durante la visione, come ero incredibilmente coinvolta nella narrazione di una storia dai toni fantastici e avventurosi di Lyra, di contrasto mi interessava davvero poco la vicenda più terrena di Will.

E secondo me non avrebbero neanche dovuto dedicargli tutto quello spazio…

La seconda stagione di His Dark Materials

La seconda stagione copre il secondo libro, La lama sottile (1997).

La materia di partenza

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Il materiale di partenza era piuttosto limitato – un libro di meno di 300 pagine, contro le 350 del primo volume e le 450 del terzo.

Tuttavia, questa stagione è ben riuscita ad ampliare la trama in due direzioni: Lord Boreal e Mary Malone

Per quanto mi sia complessivamente piaciuta, è indubbio che la storyline di Boreal serve principalmente per aggiungere materiale alla trama, anche se comunque offre diversi spunti per ampliare i personaggi, sopratutto Mrs. Coulter.

Altro discorso è Mary Malone.

Simone Kirby in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Mary Malone è uno dei miei personaggi preferiti della serie.

Una bellissima introduzione, che poi prende strade altrettanto interessanti nella stagione successiva e serve a rendere meglio il lato più scientifico della storia, andando a contestualizzare ottimamente il discorso della Polvere nel più vicino concetto della Materia Oscura.

E serve anche per dare maggiore tridimensionalità a Mrs. Coulter.

Ampliare il personaggio

Ruth Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

In questa stagione il personaggio di Marisa Coulter viene ampiamente approfondito, e vengono anche chiariti alcuni dubbi che erano sorti nella prima stagione.

Si capisce definitivamente che questa donna incredibilmente intelligente ha per tutta la vita inseguito il sogno di essere riconosciuta per quello che era, sempre limitata dal suo essere donna in un mondo dominato dal maschile.

E questo ben si capisce con il confronto con Mary Malone, che rappresenta quello che lei non ha mai potuto essere.

Inoltre, si capisce perché riesce a stare così lontana dal suo daimon: una sfida che si è autoimposta per riuscire a mantenere un controllo su se stessa, diventando così invincibile, riuscendo anche a controllare poi gli Spettri.

Troppo?

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Come abbiamo detto per la prima stagione, il personaggio di Lyra può risultare facilmente antipatico.

Ho fatto un po’ fatica ad apprezzarla in questo ciclo di episodi, perché, sopratutto nel rapporto con Will, risulta a tratti veramente sgradevole. Tuttavia, si è riuscito anche a bilanciare questo elemento. Infatti, il personaggio viene costantemente punito per la avventatezza.

Al contempo, nonostante volessero imbastire una trama del tipo enemy to lovers con Will, questo aspetto l’ha un po’ guastata.

Delusione?

Amire Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Fin dalla prima stagione, per me era chiarissimo che il padre di Will non era morto e che sarebbe stato importante per la serie.

Infatti gran parte di questa stagione è dedicata al suo personaggio, andando a costruire la suspense per il ricongiungimento con il figlio. Tuttavia, lo stesso è veramente troppo veloce, troppo improvviso e si conclude in un attimo, senza che sia stato minimamente esplorato.

Un elemento che ho sofferto veramente tanto, uno dei pochi momenti in cui la serie corre tantissimo, quando avrei voluto almeno una puntata dedicata…

La terza stagione di His Dark Materials

La terza stagione copre il terzo libro, Il cannocchiale d’ambra (2000).

Il primo impatto

James Mackavoy in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Nonostante la qualità sia rimasta sostanzialmente invariata, la terza stagione è stata quella che ho meno apprezzato.

E in parte è dovuto anche al primo impatto che ho avuto.

Ho visto la prima puntata appena uscita, e mi sono sentita molto delusa perché le ambientazioni e le tecnologie utilizzate mi sembravano davvero fuori luogo rispetto a quello che avevo visto finora.

In realtà, guardando nel complesso gli episodi a posteriori, riconosco che si mantenga un equilibrio e una coerenza per tutto il tempo. Quindi forse, alla lunga, mi ha meno coinvolto anche per lo sviluppo delle vicende – davvero lento – che mi hanno catturato di meno rispetto ai precedenti episodi.

La questione degli angeli

Dopo due stagioni in cui avevo adorato ogni elemento dell’estetica e degli effetti speciali di His Dark Materials, gli angeli non mi hanno del tutto convinto.

Niente da dire per le loro versioni immateriali – davvero suggestive – ma non mi hanno convinto nella loro forma umana, per il modo in cui sono truccati e sopratutto per gli occhi estremamente azzurri, che dovrebbero apparire molto strani, ma che a me sono sembrati solo posticci.

Ancora meno mi ha convinto Metatron: per quanto sia interessante la scelta dell’attore – lo splendido Alex Hassell, visto recentemente in Macbeth (2021) – la cui fisicità piuttosto arcigna crea un interessante contrasto con il suo personaggio, nel complesso anche la sua estetica mi è sembrata molto dozzinale.

Peccato.

La bellezza di Mary

La storyline di Mary Malone, sopratutto sul finale, è stata la mia isola felice.

Il suo personaggio e la sua storia li ho trovati davvero soddisfacenti, anche con il piccolo racconto del suo passato che ha reso molto tridimensionale un personaggio già piacevolissimo.

Oltre a questo, assolutamente adorabile il suo rapporto con i Mulefa, di cui impara passo passo la lingua e che riesce infine a salvare, capendo finalmente la questione che l’aveva assillata per tutta la sua vita.

Unica pecca: avrei voluto che fosse raccontato meglio il cannocchiale d’ambra – che non viene mai chiamato così nella serie, anche perché non assume mai quella forma.

Caos

Ruth Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

La vicenda di Marisa e Asriel mi è piaciuta a tratti.

Secondo me per certi versi si spinge troppo sull’imprevedibilità e le macchinazioni di Marisa, che cambia continuamente fazione e che, alla fine, pensa solamente a se stessa, pur con un colpo di scena finale piuttosto indovinato.

Al contempo, per quanto mi sia piaciuta tutta la storia di Asriel – il grande assente della scorsa stagione – meno mi ha convinto il suo modo di relazionarsi sia con Lyra che con Marisa: per la prima la costruzione del rapporto è davvero monca, per la seconda i suoi continui perdoni sono troppo poco credibili.

E ad Asriel si lega anche il problema di Will.

Il problema di Will (ancora)

Amir Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Come per la prima stagione, Will si è rivelato un personaggio molto difettoso, e per più motivi.

Anzitutto, purtroppo, più si andava avanti con la storia e, sopratutto quando si confrontava con Lyra, si vedeva l’abisso di capacità recitative fra i due attori: come Dafne Keen si dimostra molto capace nonostante la giovane età, Amir Wilson non riesce andare oltre a poche espressioni accigliate.

Ed è un grande problema quando è il coprotagonista, se non il protagonista della scena.

In secondo luogo, si dimostra sostanzialmente inutile al piano di Asriel: fino all’ultimo mi aspettavo che uccidesse l’Autorità e che fosse utile al progetto di distruzione del Regno dei Cieli.

Al contrario, la vittoria contro Metatron è per mano di Asriel e Marisa, senza che Will neanche abbia mai parlato con Asriel.

L’amore non costruito

Dafne Keen e Amir Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Un altro problema che riguarda Will è la costruzione del rapporto con Lyra.

Da certi punti di vista è un problema a metà: il rapporto fra Lyra e Will non è tanto un amore romantico, ma un amore che verte sopratutto sulla maturazione sessuale dei due personaggi, particolarmente quello di Lyra.

Tuttavia, sul finale si spinge molto l’acceleratore sul dramma puramente romantico, volendo creare una conclusione molto lacrimevole. Purtroppo, complice la costruzione poco vincente e le scarse capacità recitative di Amir Wilson, mi ha coinvolto veramente poco.

Per capirci, mi sono commossa molto di più vedendo Mary che scopriva il suo daimon…

Il finale

Dafne Keen e Amir WIlson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Il finale era il mio grande dubbio.

Non ero sicura che volessero ricalcare l’esatto finale del libro – che era davvero tremendo e tristissimo. E invece l’hanno fatto eccome.

Per fortuna hanno avuto quantomeno il buon gusto di ammorbidirlo un minimo, facendo capire che comunque Lyra e Will sono riusciti a vivere delle vite piacevoli e soddisfacenti.

E, sopratutto, hanno tolto la parte più dolorosa del finale: nella serie si dice che comunque Lyra, nel tempo, ha di nuovo imparato a leggere l’Aletiometro. Nel libro lei doveva allenarsi ogni giorno per il resto della sua vita, riuscendo a leggerlo solamente nel giorno della sua morte.

In effetti, veramente troppo.

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Wednesday – La viralità casuale?

Wednesday (2022 – …) è una serie tv di produzione Netflix, creata da Alfred Gough e Miles Millar, le cui prime tre puntate sono state dirette da Tim Burton. Un prodotto che ha avuto un successo incredibile, sopratutto per il balletto di Jenna Ortega, diventato virale su TikTok.

Ma non è solo questo il motivo della sua popolarità.

Di cosa parla Wednesday?

Wednesday Addams, dopo aver tentato di punire i suoi compagni di scuola quasi uccidendoli, viene espulsa dalla scuola e mandata in un collegio per ragazzi speciali – frequentato, fra gli altri, da sirene, lupi mannari e altre creature magiche. Ma un mistero incombe sulla scuola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wednesday?

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Dipende.

Wednesday non è sicuramente la serie che mi aspettavo: credevo che mi sarei trovata davanti ad un Le terrificanti – e lo sono davvero! – avventure di Sabrina 2.0, quindi un prodotto molto focalizzato sulle dinamiche teen e con l’elemento trash strabordante.

Invece la serie si concentra principalmente sulla parte mistery e per questo è complessivamente godibile, andando ad ingranare sopratutto nella seconda parte.

Non manca di alti e bassi, comprese le dinamiche teen – che comunque ci sono – a tratti veramente noiose – e ve lo dice un’appassionata del genere teen drama. Il problema più grande riguarda ovviamente Wednesday: se siete appassionati del personaggio e sopratutto dei film degli Anni Novanta, vi sconsiglio di guardare questa serie.

Potreste arrabbiarvi moltissimo.

Un’ottima interprete…

Jenna Ortega, Luis Guzmán e Catherine Zeta-Jones in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Avevo già ampiamente tessuto le lodi di Jenna Ortega per Scream 5 (2022)

E anche qui non mi ha deluso.

Non era per nulla facile mantenere un certo tipo di espressività e apparente impassibilità per l’intera serie, pur riuscendo al contempo a trasmettere le diverse emozioni per il suo personaggio, sopratutto nei momenti in cui si trova più in difficoltà.

Ma Jenna Ortega non solo ne è perfettamente in grado, ma è anche riuscita a diventare assolutamente iconica nel suo personaggio. Sicuramente essere in abile mani – anche se temporaneamente – come quelle di Tim Burton ha contribuito.

Ma io spero che questa serie sia solo il primo passo di una promettente carriera.

…un personaggio eccessivo

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Il problema principale di Wednesday è proprio la protagonista.

O, meglio, la sua assurda caratterizzazione.

Wednesday è un personaggio eccessivo, e da ogni punto di vista: è capace di fare ogni cosa, di risolvere ogni mistero, possiede delle conoscenze inimmaginabili, che vanno ben oltre all’ambito più grottesco e orrorifico che la caratterizzava originariamente.

Ne deriva un personaggio veramente insostenibile – a meno che non ce ne si innamori, ovviamente – una insopportabile so-tutto-io che guarda tutti dall’alto al basso. E, anche più grave, che compie azioni effettivamente criminali e violente, dai cui gli altri personaggi persino si dissociano.

E qui sta il principale problema.

L’importanza della contestualizzazione in Wednesday

Prima di scrivere questa recensione, mi sono guardata il film del 1991, La famiglia Addams, per riuscire meglio a comprendere i problemi del personaggio della serie – che erano in realtà già lampanti anche senza aver visto il film.

Nella pellicola Wednesday è un personaggio secondario della storia, che fa cose strane e grottesche all’interno di una famiglia che già di suo è strana e inquietante.

E funziona per due motivi.

Anzitutto, non esce praticamente mai dal contesto familiare, in cui le sue azioni sono ben integrate e per questo funzionano, anche dal punto di vista comico. Al contempo, non va mai fino in fondo nei suoi progetti violenti – e anche lì sta parte del fascino e dell’ironia del personaggio.

Christina Ricci in una scena di La famiglia addams 2 (1993)

Invece la Wednesday della serie tv, per quanto Netflix ci voglia convincere del contrario, viene messa all’interno di un contesto fondamentalmente normale – nel senso che, se si tolgono i poteri ai personaggi, sono dei normalissimi adolescenti con dinamiche molto classiche.

Al contempo, questo personaggio va fino in fondo nelle sue azioni, in scene davvero al limite del disturbante, che vanificano l’elegante equilibrio che invece caratterizzava il personaggio originale.

Allo stesso modo i suoi genitori non hanno un briciolo dell’iconicità degli attori dei film.

E a questo punto una domanda sorge spontanea…

Perché Wednesday ha avuto così tanto successo?

La risposta più ovvia potrebbe essere perché il balletto è andato virale su TikTok.

In realtà io credo che quello sia solamente la punta dell’iceberg.

Per quanto a me – e magari anche a voi che mi state leggendo – possa dare fastidio la caratterizzazione del personaggio, è proprio ad esso che probabilmente la serie deve il suo successo.

Dopo anni di protagoniste di prodotti teen timide e che devono farsi strada in un mondo nuovo, con questa serie i creatori hanno voluto portare in scena un personaggio incredibilmente potente, senza freni, e nella maniera più estrema possibile.

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Per certi versi mi ha ricordato The Mask (1994).

E infatti allo stesso modo mi viene da pensare che, analogamente al film di Jim Carrey, parte del successo di Wednesday sia dovuto a questo sogno di potenza che rappresenta – e che molto spesso caratterizza l’adolescenza.

Sopratutto se si è stati dei ragazzini emarginati, è facile aver avuto dei sogni di rivincita e di invincibilità verso gli altri, anche a volte andando a spaziare – nella formidabile fantasia adolescenziale – nell’elemento magico e surreale.

E Wednesday può essere, nonostante tutto, un sogno a cui rifarsi.

Da qui, la grande attrattiva del personaggio.

La (non) prevedibilità del mistero

Gwendoline Christie in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Uno dei motivi per cui Wednesday non è scaduta nelle trame più banali e scontate, è proprio la costruzione di un mistero che, tutto sommato, risulta efficace.

L’elemento teen è infatti molto secondario – e vista la qualità, per fortuna! – mentre al centro della storia troviamo proprio i misteriosi omicidi e tutte le vicende connesse, che si intrecciano anche con l’evoluzione della protagonista.

Da un certo punto di vista il mistero può risultare molto prevedibile: la villain, interpretata da Christina Ricci, lascia un indizio molto evidente fin da quanto appare per la prima volta in scena con i suoi stivali coperti di fango – che saranno poi l’elemento risolutivo del mistero.

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Tuttavia, nonostante tutto, qualche elemento non è del tutto prevedibile – quasi fino all’ultimo ho avuto il dubbio su chi fosse l’Hyde, se Tyler o Xavier. E questo anche perchè la serie utilizza una serie di piccoli trucchi per sviare lo spettatore dalla risoluzione.

Dalla passione artistica di Xavier – tratto tipico del mostro secondo il bestiario – fino ai capelli biondi della Dottoressa Kinbott, che ricordano quelli della bambina scomparsa, Laurel Gates, la serie dissemina diverse false piste.

Uno spettatore più esperto potrebbe non lasciarsi così facilmente ingannare

Ma la serie è rivolta ad un pubblico di giovanissimi, quindi va bene così.

La strada più difficile

Jenna Ortega e Emma Myers in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Una scelta che davvero non ho compreso della serie – anche se forse è dovuto al mio non essere adolescente da un po’ – è questa volontà di andarsi ad incastrare in una rete di relazioni romantiche una più fastidiosa dell’altra.

Oltre alla relazione di Enid, veramente poco interessante, Wednesday è costantemente assillata da due personaggi maschili che le ronzano intorno in maniera anche leggermente viscida, finendo per portarla persino fuori dal suo personaggio.

La cosa più semplice – e forse anche più sensata – sarebbe stata quella di instaurare una relazione fra Wednesday e Enid, anche in maniera non necessariamente troppo sguaiata. Oppure – anche meglio – ma forse è troppo avanguardistico per Netflix – proporre una protagonista asessuale o anche semplicemente non interessata o pronta alle relazioni.

Jenna Ortega e Moosa Mostafa in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Ma sopratutto problematico appare il personaggio di Eugene.

Come ce lo vorrebbero presentare come il classico ragazzino sfigato che non riesce a farsi notare dalla ragazza di turno, in realtà è un rappresentante di una cultura molto tossica e diffusa anche oggi.

Infatti Eugene sbaglia in primo luogo a non arrendersi davanti al fatto che Enid non sia semplicemente interessata a lui, e continuando ad insistere in maniera veramente problematica. Il picco è in particolare è quando videochiama la ragazzina mentre questa è con Ajax e le chiede, con fare quasi accusatorio, cosa ci faccia lui lì.

Il male che ci hanno fatto certi teen drama è ancora incalcolabile…

Ballo Wednesday

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Tornando invece al balletto diventato virale su TikTok, lo stesso ha una storia un po’ particolare, sopratutto per chi non è pratico della piattaforma.

Anzitutto, è piuttosto interessante constatare che la scena nella serie tv ha molta meno importanza di quanto si potrebbe pensare: è un momento simpatico, di passaggio, all’interno di una puntata che parla di tutt’altro.

E sopratutto, contrariamente a quanto pensavo, non è un momento di realizzazione o di rivincita della protagonista, come tipico di questi prodotti.

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Ancora più interessante se si pensa che la canzone che è diventata virale del video non è la canzone effettiva della scena: nella serie Jenna Ortega balla sulle note di Goo Goo Muck dei Cramps, mentre nel video diventato virale su TikTok la canzone è Bloody Mary di Lady Gaga.

Ma se guardate la scena, in effetti non potrebbe calzare più a pennello: 

https://www.tiktok.com/@beats_op_2099/video/7174077827715779867?q=wednesday%20dance&t=1674662777968
https://www.tiktok.com/@beats_op_2099/video/7174077827715779867?q=wednesday%20dance&t=1674662777968
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Malcolm in the middle – Il dramma della classe media

Malcolm in the middle (2000-2006), in Italia noto semplicemente come Malcolm, è un piccolo cult della televisione di inizio Anni Duemila.

Una sitcom, se così vogliamo definirla, ma più che altro una serie comedy veramente unica nel suo genere.

Perché Malcolm in the middle è una sitcom diversa

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan e Justin Berfield in una scena di Malcolm

Solitamente le sitcom – anche quelle più rinomate – sono caratterizzate da trame semplicissime, con dinamiche incredibilmente prevedibili e concetti facilmente digeribili per il pubblico medio.

Nel suo piccolo – e nella sua follia – Malcolm in the middle riuscì a scardinare questo concetto.

Raccontando la storia di una famiglia povera e folle insieme, e col suo taglio a tratti quasi surreale, la serie è riuscita a portare in scena una storia credibile e al contempo incredibilmente appassionante.

Oltre a raccontare in maniera più efficace i disagi della classe media statunitense: le famiglie strozzate dai debiti, le condizioni di lavoro distruttive e le dinamiche sociali imprevedibili.

Un racconto che si vede molto bene in particolare in due episodi: L’assicurazione (7×02) – in cui Hal, il padre di famiglia, si dimentica di pagare l’assicurazione sanitaria e impazzisce perché i suoi figli non si facciano male, pena sborsare soldi che non ha – e in Doni fatti in casa (6×06) – di cui parleremo più avanti.

Insomma, una serie che ha molto più da raccontare di quanto sembri.

Top 5 episodi Malcolm in the middle

Una selezione dei cinque episodi migliori di Malcolm in the middle, da cui magari partire per farsi un’idea del prodotto.


La partita perfetta (2×20)

or. Bowling

Frankie Muniz e Jane Kaczmarek in una scena di Malcolm

Una puntata che è una sorta di what if sdoppiato: Malcolm e Reese vanno al bowling e si racconta cosa sarebbe successo se li avesse accompagnati Lois o Hal. Intanto, Dewey rimane a casa in punizione.


Una puntata che mi piace moltissimo perché è costruita alla perfezione nell’alternare le due versioni e portando dinamiche per nulla prevedibili, anzi…


Se i ragazzi fossero ragazze (4×10)

or. If Boys Were Girls

Jennette McCurdy in una scena di Malcolm

La puntata più what if di tutte: mentre deve accompagnare i ragazzi al centro commerciale per comprare nuovi vestiti, Lois immagina se avesse avuto tre figlie femmine. Ma non è tutto oro quello che luccica…


La puntata che guardo a ripetizione perché è esilarante il comportamento delle controparti femminili dei protagonisti e le dinamiche che si creano, anche grazie al casting perfetto. Nonostante non manchino stereotipi di genere piuttosto infelici, è comunque una puntata che apprezzo anche oggi.


Un Natale difficile (5×07)

or. Christmas Trees

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan, Justin Berfield, Brian Cranston in una scena di Malcolm

Dal momento che la sua azienda lo costringe a due settimane di ferie non pagate sotto Natale, Hal decide di intraprendere una folle scommessa coi suoi figli: vendere alberi di Natale.


Una puntata che rappresenta benissimo questo senso di impotenza e di fallimento della classe media statunitense impoverita, che deve continuamente mettersi in gioco per riscattarsi, inseguendo il sogno impossibile del self-made man.


Blackout (7×07)

or. Blackout

Erik Per Sullivan in una scena di Malcolm

Un palloncino si impiglia nei pali della luce e crea un blackout in tutto il quartiere. Proprio la sera che ogni personaggio aveva un suo piano da portare a termine…


Adoro la costruzione di questa puntata: si intrecciano diverse vicende e pianificazioni, e la situazione viene mostrata dai diversi punti di vista dei personaggi, in venti gustosissimi minuti pieni di colpi di scena.


Una nuova famiglia (5×14)

or. Malcolm Dates a Family

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan, Justin Berfield in una scena di Malcolm

Lois intraprende una guerra personale contro la Pizzeria da Luigi, il ristorante preferito della famiglia. E i suoi familiari si organizzano di conseguenza. Intanto Malcolm conosce la famiglia della sua nuova ragazza, con esiti inaspettati.


Già la storyline della pizza è stupenda, ed è una di quelle puntate che adoro in cui Hal lavora in combutta con i suoi figli. Ma anche le altre storyline viaggiano sul taglio surreale e comico, che ho apprezzato – persino quella di Francis.

Questa recensione contiene piccoli spoiler – anche se è difficile farli per un prodotto del genere – più che altro sull’evoluzione dei personaggi e le situazioni in cui si trovano.

I fratelli

I quattro fratelli sono il cuore della serie stessa, e hanno ognuno una propria interessante evoluzione, anche per gli anelli più deboli.

Malcolm

Malcolm è un protagonista anomalo, che per certi versi ha anticipato i tempi.

Un protagonista assolutamente imperfetto, quasi negativo, e che mette più volte in scena la sua insicurezza.

In prima battuta è raccontato come il piccolo genio – elemento che è portato avanti organicamente per tutti gli episodi – la cui genialità però gli si rivolta anche contro e che, soprattutto all’inizio, è più una vergogna che un vanto – come si vede bene nella puntata Il picnic (01×08).

Frankie Muniz in una scena di Malcolm

Più entra nell’adolescenza, più Malcolm mischia la sua insicurezza con una sorta di vanità – per sua stessa ammissione. Continua ad inseguire dei riconoscimenti sociali, illudendosi di star simpatico a tutti e andando dietro a diverse ragazze nel corso delle puntate.

La sua incapacità di rapportarsi con l’altro sesso è ben raccontata in due puntate in particolare: in La ragazza di Malcolm (3×04) il protagonista si mette con la sua prima fidanzata – che fra l’altro non vediamo mai in faccia – e vive la situazione in maniera assolutamente folle.

Altrettanto assurda è la relazione segreta con Nicki a partire dalla puntata II gusto del pericolo (4×06), ripresa nelle dinamiche anche nella puntata Un amore segreto (7×06).

La puntata migliore di Malcolm

Finalmente al liceo (4×02)

or. Humilithon

In questa puntata Malcolm arriva finalmente al liceo e cerca di cambiare vita e diventare popolare. Ma Lois ha altri programmi in serbo per lui…


Per me è la puntata migliore dedicata a questo personaggio perché ne racconta veramente l’essenza: nonostante Malcolm sia incredibilmente intelligente – e ne è consapevole – sente al contempo che lo status sociale che ne consegue gli stia stretto.

E cerca di sfuggirne.

Reese

Reese è la scheggia impazzita, il personaggio imprevedibile e che compie le azioni più assurde e senza senso.

Ha una costruzione complessivamente organica per tutta la serie, con degli interessanti picchi drammatici quando si prospetta il suo futuro da nullafacente – in particolare nella incredibile puntata Un amore segreto (7×06), in cui Lois sogna un ipotetico Reese del futuro che non si è ancora diplomato.

Ma la bellezza del suo personaggio è proprio nella sua ingenuità e fantasiosità nell’affrontare la situazioni più assurde, per esempio nell’incredibile puntata Condivisione (7×05), in cui si auto-spedisce in Cina – o crede di farlo – per prendere a botte il suo amico di penna.

Justin Berfield in una scena di Malcolm

Una svolta interessante del suo personaggio è quando scopre la sua passione per la cucina – elemento che purtroppo si va un po’ a perdere nelle stagioni successive.

Già di per sé la puntata Scuola di cucina (2×18) è piacevolissima, ma lo è ancora di più il picco di questa linea narrativa, ovvero la puntata Il giorno del Ringraziamento (5×04), in cui Reese fa di tutto – e davvero di tutto – per preparare la cena perfetta per il Ringraziamento.

Senza contare ovviamente l’indimenticabile intuizione del blallo, che è tutta da scoprire:

La puntata migliore di Reese

Il saggio di ammissione (5×15)

or. Reese’s apartment

In questa puntata Reese fa qualcosa di talmente indicibile che è raccontato fuori scena. Per questo – e per l’ennesima volta – i suoi genitori lo cacciano fuori casa, e lui va vivere da solo.


Per me è la puntata migliore dedicata a questo personaggio perché racconta un lato imprevedibile di Reese, che riesce a rimettersi apparentemente in riga e a diventare uno studente e cittadino modello.

Non l’unica puntata con questa tematica, ma quella più efficace.

Dewey

Dewey è il personaggio che fra tutti ha l’evoluzione più interessante.

Il suo cambio di personalità è andato di pari passo con la crescita dell’attore, che è stata ben più drastica rispetto a quella dei suoi fratelli. Dewey infatti comincia come personaggio abbastanza secondario, la cui personalità si riassume in quella di un qualunque bambino che vuole essere al centro dell’attenzione della sua famiglia.

Particolarmente iconica in questo senso la puntata L’ingorgo (2×01) – che fra l’altro è anche una delle mie preferite – in cui Dewey vive le più incredibili avventure proprio guidato dalla sua ingenuità e buon cuore.

Il personaggio di Dewey

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan, Justin Berfield in una scena di Malcolm

Facendosi più grande, Dewey passa da essere un ingenuo bambino al secondo genio della famiglia, che scopre la sua grande passione per la musica – che lo porterà anche a scontrarsi con Malcolm nella puntata Il santo (6×18).

L’inizio di questa caratterizzazione comincia nella fantastica puntata In visita al collage (5×16), in cui Dewey, davanti al rifiuto del padre di comprargli un pianoforte, trova un’interessante soluzione alternativa…

Le puntate successive più interessanti in questo senso sono Il matrimonio (7×11) – in cui Dewey cerca di andare ad una gara di piano e Lois gli dà un’importante lezione di vita – e Opera (6×11) – in cui scrive un’opera lirica sulla sua famiglia.

La puntata migliore di Dewey

Una terribile vecchietta (2×11)

or. Old Ms. Old

Dewey rompe apposta lo zaino e Lois si rifiuta di comprargliene uno nuovo. Per questo Dewey decide, in tutta la sua ingenuità, di usare una borsa da donna.


Mi piace particolarmente questa puntata perché racconta perfettamente la prima fase di questo personaggio, in cui se ne infischia totalmente delle conseguenze e utilizza la borsa di sua mamma semplicemente perché è comoda.

Inoltre, la puntata regala un finale piacevole e per nulla scontato.

Francis

Francis è il personaggio con cui ho sinceramente più problemi all’interno di questa serie.

Questo perché, nonostante non sia di per sé un cattivo personaggio, l’ho vissuto per la maggior parte delle puntate come un riempitivo che diventava sempre meno interessante all’interno della storia.

Infatti, come ogni sitcom, ogni puntata è divisa in due – o più – linee narrative auto conclusive. E, fino alla quinta stagione, una era sempre dedicata a questo personaggio, nelle sue improbabili avventure in ben tre situazioni diverse.

E, per quanto abbia abbastanza apprezzato quasi tutte le vicende all’Accademia Militare nelle prime stagioni, mi sono risultate col tempo sempre più indigeste quelle invece dell’Alaska e poi del ranch – sempre più improbabili e meno interessanti.

Il personaggio di Francis

Frankie Muniz e Christopher Masterson in una scena di Malcolm

E infatti, dalla quinta stagione in poi, la sua linea narrativa subisce una brusca svolta, e viene ripresa solo in alcune puntate per il resto della serie.

Complessivamente Francis è un personaggio abbastanza bidimensionale: molto simile a Reese per certi versi, si definisce fondamentalmente attraverso il conflitto con le figure femminili della sua famiglia – la nonna e la madre – e in generale con tutte le figure autoritarie – che siano il Colonnello Spangler o la Lavernia.

Il suo conflitto con Lois si intensifica ancora di più con l’arrivo della nuova moglie, Piana, nella puntata che preferisco dedicata al suo personaggio.

La puntata migliore di Francis

Il compleanno di Hal (3×15)

or. Hal’s Birthday

In occasione del compleanno di Hal, Lois vuole sorprendere il marito facendo tornare a casa Francis dal collage. Ma con il figlio maggiore viene anche la nuova moglie, Piana…


Mi piace particolarmente questa puntata perché racconta meglio di tutte il rapporto conflittuale fra Francis e Lois: nonostante alla fine Piana sia un personaggio ricorrente e quindi rimanga nel tempo, subito Lois l’accoglie con freddezza e risentimento.

E, per Francis, è l’ulteriore dimostrazione di come la madre non accetti nulla della sua vita.

I genitori

La coppia di Hal e Lois rappresenta una perfetta – e incredibilmente interessante – controparte rispetto ai figli, che sono sostanzialmente ingestibili.

Ma è fantastico anche il loro rapporto, soprattutto dal punto di vista sessuale: in Malcolm in the middle si parla molto più di quanto ci si potrebbe aspettare di sesso – nonostante non sia mostrato.

Hal

Il personaggio di Hal è indubbiamente arricchito dalla fantastica interpretazione di Bryan Cranston.

Anche guardandolo doppiato, è impossibile non innamorarsi della recitazione corporea e facciale di questo attore, che è la punta di diamante di questa serie.

A dimostrazione che non è solo un superbo attore drammatico in Breaking bad, ma anche un ottimo interprete comico.

Il suo personaggio è comico, ma soprattutto grottesco: rappresenta appieno il classico uomo della middle class, intrappolato in un lavoro noioso e ripetitivo – oltre che punitivo. Per questo, cerca continuamente una via di fuga, rincorrendo via via nuove ossessioni, una più strampalata dell’altra.

In questo senso le puntate più divertenti sono sicuramente La nuova classe di Dewey (5×18) – in cui Hal scopre insieme a Craig la mania per la danza alla sala giochi – e soprattutto Pensare e poi parlare (4×07) – in cui entra in un’assurda competizione sportiva.

Il personaggio di Hal

Brian Cranston in una scena di Malcolm

Altrettanto gustosa è la linea narrativa riguardante il suo processo, dovuto alle false accuse all’interno della sua azienda.

Oltre ad essere incredibilmente divertente e piena di colpi di scena, il finale della duologia delle puntateArresti domiciliari Parte I e II (5×21 – 5×22) – ci racconta moltissimo su quest’uomo distrutto dal lavoro, ma che comunque non ha voluto farsi ingabbiare – e a qualunque costo…

La puntata migliore di Hal

Doni fatti in casa (6×06)

or. Hal’s Christmas gift

È Natale, e per l’ennesima volta la famiglia si trova sommersa dai debiti e senza soldi per fare i regali. Lois quindi decide che quest’anno si faranno regali fatti in casa.


La puntata che meglio racconta l’aspetto più grottesco del personaggio di Hal: davanti all’impossibilità di fare dei bei regali ai suoi figli, tenta il tutto per tutto per non essere un pessimo padre…

Lois

Il personaggio di Lois è quello che più di tutti necessità di una contestualizzazione all’interno della serie.

Infatti, se messa in un contesto realistico – più di tutti gli altri – sarebbe un personaggio totalmente da condannare, quasi da cronaca nera. E i comportamenti, per quanto esagerati, dei suoi figli non giustificano i suoi comportamenti.

La prima volta che la vediamo veramente all’azione è in L’unione fa la forza (1×02), in cui Lois crede che uno dei suoi figli le abbia distrutto l’abito da sera. Per questo li punisce severamente, cercando anche di metterli uno contro l’altro.

Successivamente non mancano le volte in cui questa madre terribile caccia i suoi figli di casa o impedisce loro di accedere ai beni essenziali: è il caso sempre di Un amore segreto (7×06), in cui Lois impedisce a Reese di mangiare, avere vestiti puliti e un tetto sopra la testa, e ancora quando lo caccia nella già citata puntata Il saggio di ammissione (5×15).

Il personaggio di Lois

Jane Kaczmarek in una scena di Malcolm

E più volte vengono citate le più assurde punizioni: dal tagliare l’erba del prato con le forbicine a pulire il bagno finché non ci si possa mangiare sopra…

È anche una madre che controlla ossessivamente i figli, sopratutto Malcolm: così in In visita al collage (5×16), quando lo accompagna forzatamente alla visita delle università, o nella già citata puntata Finalmente al liceo (4×02).

Tuttavia altre puntate cercano un po’ di ridimensionare il personaggio come madre lavoratrice che ha sulle spalle tutto il peso emotivo della casa e della famiglia.

Così in Il club del libro (3×03) – con un’interessantissima riflessione sulla donna moderna e sull’invidia sociale – e in Rapporti anonimi (3×10) – con una riflessione analoga sul ruolo della donna nella società.

Ma già in Il compleanno di mamma (2×03) era chiara la drammaticità del suo personaggio.

La puntata migliore di Lois

Contestazioni (2×16)

or. Traffic Ticket

Lois è convinta di essere stata multata da un poliziotto corrotto, e per questo è sicura di avere ragione.


Un picco davvero interessante per questo personaggio, che deve per la prima volta rimettersi in discussione, nonostante per tutto il tempo cerchi costantemente di combattere per i suoi principi.

I fantastici personaggi secondari di Malcolm in the middle

Malcolm in the middle gode di un ampio gruppo di personaggi secondari assolutamente irresistibili. Dal momento che sono tantissimi, mi limiterò a raccontare i miei tre preferiti.

Jessica

Jessica è il mio personaggio secondario preferito.

Comincia come la babysitter dei protagonisti, nonostante sia loro coetanea, nella puntata Stereo store (4×13), in cui si dimostra immediatamente come la ragazza manipolatrice, che riesce a fregare i protagonisti.

Nella seconda fase delle sue apparizioni si mostra come il suo comportamento venga dalla sua famiglia tossica e problematica – padre ubriacone e in galera – che infatti la porta ad essere più volte ospite della famiglia di Malcolm, in particolare nella già citata puntata Condivisione (7×05).

Adoro il suo personaggio perché è incredibilmente subdola, ma al contempo davvero irresistibile nei comportamenti. Fra l’altro interpretata dalla splendida Hayden Panettiere, diventata un sex symbol più avanti negli anni, mentre in questa serie venne notevolmente imbruttita.

La puntata migliore di Jessica

Pearl Harbour (6×04)

or. Pearl Harbour

Jessica convince Malcolm che Reese è gay, e viceversa. Il tutto solamente per raggiungere i suoi scopi…


Una delle puntate più geniali di questo personaggio, dove si uniscono due tendenze opposte: l’omofobia benevola che circolava in quegli anni e una sorta di accettazione della comunità queer.

Mr Herkebe

Mr. Herkebe è un altro secondario fantastico.

Un’introduzione veramente interessante a partire dalla terza stagione, andando a sostituire un personaggio che personalmente non ho mai apprezzato: Mrs. Miller, la lacrimevole e insopportabile insegnante delle prime due stagioni.

Al contrario, Mr Herkebe è di fatto più un antagonista che un secondario, contro il quale Malcolm – e anche Hal in un episodio – si devono scontrare. È malignamente e irresistibilmente subdolo e malvagio, come dimostra fin dalla sua prima apparizione in La graduatoria (3×02).

E continua ad esserlo in diverse occasioni, in particolare in L’asta (6×13) – in cui incastra Malcolm in un club per il suo tornaconto – e in La gara dei cervelloni (4×16) – in cui fa di tutto per far vincere una competizione ai suoi studenti.

La puntata migliore di Herkebe

La graduatoria (3×02)

or. Emancipation

Malcolm e i suoi compagni incontrano il loro nuovo insegnante, Lionel Herkebe, che cerca di fare di tutto per farli migliorare…


L’introduzione di questo personaggio è anche il suo momento migliore, quello in cui si dimostra non tanto malvagio, ma soprattutto tremendamente ambizioso e vanitoso.

Craig

Craig è uno dei personaggi secondari più ricorrenti e iconici della serie.

Perdutamente innamorato di Lois, si scontra continuamente sia con lei che con la sua famiglia, soprattutto con Hal, in Il compleanno di mamma (2×03), ma in particolare in L’appartamento segreto (5×02), in cui diventa sostanzialmente un villain.

Non del tutto appiattito in questo ruolo, ma riflette molto bene l’ossessione di quel periodo verso l’obesità: Craig è buffo, pasticcione e quasi grottesco, è quel classico personaggio passivo aggressivo che si sente continuamente la vittima.

Ma, proprio per quel motivo, dà molto colore alla serie.

La puntata migliore di Craig

Pensare e poi parlare (4×07)

or. Malcolm Holds His Tongue

Reese vuole portare la sua nuova ragazza ad un concerto, ma suo padre si rifiuta di accompagnarli. Per questo cerca di convincere Craig…


In questa puntata in particolare si racconta la solitudine del personaggio di Craig, che si emoziona oltre ogni misura per quello che di fatto è un inganno, ma gli permette di stare in compagnia.

Il doppiaggio di Malcolm in the middle

Malcolm in the middle ha una peculiarità: il doppiaggio è veramente ottimo – tanto che io ad oggi non ho ancora fatto un rewatch in inglese. Tuttavia l’adattamento è molto latente in diversi punti.

E ci sono due momenti emblematici.

Nella puntata L’ingorgo (2×01) Francis scommette di essere in grado di mangiare cento quacks, caramelle gommose a forma di papera. Non riesce a mangiare le ultime quattro e un suo compagno dice:

No one said that he had to eat all the quacks. They just have to be inside his body, right?

Nessuno ha detto che doveva mangiare tutte le paperelle. Basterebbe che fossero dentro il suo corpo, giusto?

Andando ad intendere che Francis potrebbe anche rigettare tutte le caramelle, ma se le avesse dentro il suo corpo almeno per un momento basterebbe per vincere la scommessa.

E infatti Francis se le mette in bocca e le ingoia.

E invece in italiano dice:

Nessuno ha detto che doveva mandarle giù. Quindi sarebbe sufficiente che le mettesse in bocca, giusto?

Cosa che appunto non ha assolutamente senso nella scena, perché Francis le manda giù.

Scuola di cucina in Malcolm

Justin Berfield in una scena di Malcolm

Un’altra ingenuità di adattamento è dovuta a un problema di mancanza di sfumature di significato in italiano.

Infatti, alla fine della puntata Scuola di cucina (2×18), a Reese viene impedito di cucinare. E in originale il suo personaggio dice:

You said no cooking. The cake is baking!

Ed è di fatto intraducibile, per è un gioco di parole fra la parola cooking, che significa più genericamente cucinare, e baking, che invece fa riferimento specifico ai prodotti da forno. E in italiano infatti diventa:

Hai detto niente cucina! La torta è nel forno.

Un finale amaro di Malcolm

Justin Berfield e Frankie Munizin una scena di Malcolm

Il finale di Malcolm in the middle è uno dei più belli e al contempo amari che ho visto in una serie tv.

Non proseguire se non vuoi spoiler!

L’amarezza sta soprattutto nel personaggio di Malcolm: nonostante abbia dimostrato più e più volte di essere un genio sostanzialmente in tutto e di meritare più di chiunque altro di andare in un college prestigioso, non può farlo se non con tanta fatica.

E questo solamente per la sua condizione sociale.

E infatti alla fine si crea questo parallelismo quasi grottesco in cui Reese, diventato ormai assunto nella scuola come bidello, telefona al fratello, che gli racconta la sua vita al college. La telecamera si allontana e mostra che anche Malcolm sta facendo il bidello.

Come molti giovani statunitensi prima di lui, per non essere sommerso dai debiti universitari, deve alternare lo studio con un lavoro, e pure umilissimo.

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La vita bugiarda degli adulti – Non per me

La vita bugiarda degli adulti (2023 – …) è una serie tv italiana di produzione Netflix, tratta dal romanzo omonimo di Elena Ferrante.

Ho superato il mio naturale repulsione verso questo tipo di prodotti per avere l’occasione di collaborare con Cristina (@cristinasponk), che ha arricchito questa recensione con un confronto col romanzo.

Una buona idea?

Di cosa parla La vita bugiarda degli adulti?

Giovanna vive nel mito della zia Vittoria, personaggio odiato dai genitori ma che lei vuole assolutamente conoscere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La vita bugiarda degli adulti?

Sì e no.

È molto difficile raccontare oggettivamente una serie che, anche se non mi è piaciuta, non è neanche un cattivo prodotto.

Mi sento di consigliarvela se vi interessano le serie con un profondo taglio drammatico e realistico – di cui, se seguite la serialità italiana, avrete molto più esperienza di me. Anche comunque con una regia più che buona e una caratterizzazione dei personaggi complessivamente funzionante – pur all’interno di una sceneggiatura non del tutto vincente.

Una regia intrusiva

Partiamo dal punto più positivo della serie tv: la regia è piacevole e ben fatta.

Ma non mi aspettavo niente di meno da Edoardo De Angelis, vincitore del David di Donatello per Indivisibili (2016),

La macchina da presa segue e insegue fedelmente i personaggi, gli entra dentro e coglie i più piccoli particolari che raccontano una marea di significati anche in una sola inquadratura. E, al contempo, si concentra sugli ambienti che li raccolgono, indugiando sugli stessi in maniera anche inaspettata…

Insomma, un elemento che da solo eleva il livello della serie.

Sorprese e insipidezza

La caratterizzazione dei personaggi – la scelta degli abiti e del modo in cui parlano – è piuttosto indovinata.

Si vede chiaramente la differenza sociale fra le varie figure in scena: da Angela e Ida, che sono nate signore – con i loro abiti e capelli perfetti – a Giovanna, che invece si vede essere figlia di intellettuali di sinistra, ma nati dal basso.

E da questo punto di vista è particolarmente significativa la caratterizzazione di Andrea, il padre di Giovanna. Infatti, come per la maggior parte del tempo parla in maniera forbita e ricercata, in certi momenti – quando perde la pazienza e con Vittoria – scade nel dialetto.

Valeria Golino La vita bugiarda degli adulti

E il dialetto nella serie è spia di un condizione sociale inferiore, particolarmente nel personaggio di Vittoria, considerata fondamentalmente l’ultimo gradino della scala sociale. E non c’è un momento in cui si toglie dalla bocca il dialetto – unica lingua che conosce – con una Valeria Golino che mi ha sinceramente sorpreso.

Sul versante totalmente contrario, il personaggio di Giovanna mi è risultato incredibilmente insipido.

Non so se sia colpa dell’attrice, ma ho avuto per la maggior parte del tempo la sensazione che Giordana Marengo fosse stata diretta male. È alquanto possibile che le abbiano detto di mantenere l’espressione fredda e accigliata che caratterizza il personaggio per tutto il tempo, rendendola di fatto inespressiva.

Un tira e molla

La parte che mi ha meno convinto della pellicola è proprio la gestione della storia.

Non ho purtroppo la capacità di capire quanto sia colpa degli sceneggiatori e quanto del materiale di partenza – Cristina ve lo saprà dire. Tuttavia, sopratutto nella seconda parte, mi è sembrata per molti versi insensata e un inutile tira e molla.

Ho avuto proprio la sensazione di un fastidioso girotondo, che forse voleva raccontare una storia reale con dinamiche reali – compreso il rapporto strano e altalenante fra Vittoria e Giovanna. Tuttavia questo mi ha portato anche alla consapevolezza che questo non è il genere e il tipo di storia che mi interessa fruire.

E questo riguarda anche i libri di Elena Ferrante.

Sopratutto se vi è un certo tipo di rappresentazione della sessualità che mi ha infastidito, se non addirittura disturbato…

Il parere della lettrice su La vita bugiarda

Un confronto con il romanzo di ispirazione a cura di Cristina (@cristinasponk)

Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta.

La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo.

Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione.”

L’omonimo romanzo del 2019 di Elena Ferrante – si dice sia uno pseudonimo, lo sapevate? – ripercorre con una narrazione in prima persona al passato la vita di Giovanna, dalla pubertà all’adolescenza. 

La trama è pressoché la stessa della serie, con qualche piccola divergenza che nel complesso ne va a modificare il tono: nei primi capitoli, Giovanna vive la relativa spensieratezza dell’infanzia, segnata da qualche preoccupazione legata alla scuola e a questa apparente somiglianza alla terribile zia Vittoria, una sagoma senza volto, un demone della Napoli bassa che aveva tormentato la giovinezza dei suoi genitori.

Ma al contrario della serie, nel libro Giovanna è una figlioletta modello tutta vestitini rosa e dizione perfetta, che venera i genitori con cui condivide un ottimo rapporto.

Ribellione graduale

La sua ribellione è graduale: comincia raccontando delle bugie ai suoi per potersi avvicinare sempre più a Vittoria, e al tempo stesso asseconda la zia in qualsiasi cosa pur di farsi ben volere. È solo quando vengono a galla il tradimento del padre e l’instabilità mentale di Vittoria che Giovanna attraversa un vero e proprio periodo di ribellione: trascura gli studi, non dà più valore al proprio corpo, non cura più gli affetti.

Spesso, nel romanzo, la Ferrante si sofferma sui pensieri di Giovanna, ossessivi e ripetitivi, che come per ogni adolescente sono diversi da ciò che poi effettivamente dice. Nella serie, pur essendo presenti momenti di narrazione voice-over, spesso questi monologhi interiori vengono trasformati in dialoghi.

Pensate alla scena in cui Giovanna sale in macchina con Corrado e Rosario: nel libro è chiara la distinzione tra la Giovanna-di-fuori, svampita e sciocca, e quella interiore, che si meraviglia del potere che il suo corpo esercita su quei ragazzi, e prova disgusto per loro e per se stessa

I pensieri di Giovanna

Nell’adattamento seriale Giovanna tronca improvvisamente le civetterie con un Ma com’è possibile che non vi accorgete dello schifo che mi fate? Che mi faccio io stessa? lasciando i due ammutoliti e facendo calare una freddezza impacciata su una scena che avrebbe dovuto lasciare solo a lei (e a noi) un retrogusto amaro.

Perché nel libro è Giovanna la unica protagonista, il punto di vista della narrazione appartiene solo a lei, non assistiamo mai a scene tra soli adulti come nella serie; leggiamo i suoi pensieri, vediamo attraverso i suoi occhi, speculiamo assieme a lei mentre cerchiamo di mettere insieme i pezzi del dramma della sua famiglia.

E il braccialetto di rubini è uno dei pezzi fondamentali, assume un significato simbolico nella rete di bugie che avviluppa Giovanna.

Quello che inizialmente è un dono puro, ambasciatore dell’infrangibilità dei legami familiari, regalatole da Vittoria per celebrare la sua nascita, diventa poi il portavoce di un tradimento, viene spogliato della sua purezza perché sfruttato meschinamente dal padre che lo regalò all’amante.

E, alla fine, così come accade per tutti gli altri personaggi del romanzo, si rivela per quello che è sempre stato: un oggetto macchiato di falsità, testimone della crudeltà con cui si tratta la famiglia, sottratto da Enzo alla propria madre morente per darlo alla madre di Vittoria.

La vita bugiarda degli adulti libro consigliato?

Proprio nelle ultime pagine Giovanna avrebbe il potere di insozzarlo ancora di più, di servirsene egoisticamente per ferire come hanno sempre fatto tutti, tradendo l’amicizia di Giuliana e prendendosi il suo tanto amato Roberto

Potrebbe diventare anche lei protagonista effettiva nella vita bugiarda degli adulti, ma sceglie di non farlo.

Consiglio il libro?

Sì, sia a chi ha apprezzato la serie, sia a chi non è piaciuta.

È una lettura triste ma molto coinvolgente, scorrevole, che rende facile rispecchiarsi nei problemi adolescenziali di Giovanna e in tutte le segretezze e vaghe assurdità della vita familiare.

Ma non lo definirei un romanzo coming-of-age: è scritto in chiave adulta, per adulti, con passaggi espliciti legati soprattutto al sesso che risultano volutamente disturbanti. E poi il titolo è una bomba.

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Comico Disney+ Dramma familiare Drammatico Serie tv

The Bear – Dentro la storia

The Bear (2022 – …) è una serie tv Disney+ creata da Christopher Storer, già attivo da qualche anno come regista nel mondo della tv, diventato la rivelazione dell’anno proprio con questo prodotto.

Una serie che ha avuto il suo momento verso la fine del 2022, quando le recensioni in merito a quella che veniva definita la serie dell’anno fioccavano numerose.

E per fortuna mi sono fidata.

Di cosa parla The Bear?

Carmen è il capo chef di uno dei ristoranti più rinomati del mondo, si trova quasi costretto a tornare a casa e a gestire l’impresa di famiglia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Bear?

Jeremy White in una scena di The Bear (2022 - ...) è una serie tv Disney+

Assolutamente sì.

A chi non l’ha vista è abbastanza difficile spiegare la bellezza di questo prodotto. È una serie ti entra sottopelle, usando un taglio narrativo talmente indovinato che, una volta finita, vi sentirete come se i personaggi fossero vostri stretti amici da una vita.

E, per l’effetto che ha avuto su di me (e altri), vi assicuro che non sto esagerando.

Una vera cucina…

Jeremy White in una scena di The Bear (2022 - ...) è una serie tv Disney+

L’elemento che salta più evidentemente all’occhio fin da subito è il montaggio tremendamente incalzante e al limite dello schizofrenico, che ben racconta i tempi strettissimi della cucina di un ristorante.

Sopratutto all’inizio si viene bombardati di immagini, ma al contempo molto lentamente si seguono i piccoli archi evolutivi dei personaggi, anche di quelli più apparentemente secondari. E la loro evoluzione è tutta legata alla cucina e ai rapporti che la definiscono.

E fra l’altro con una costruzione narrativa che sembra quasi quella della sitcom, con anche piccole storie auto conclusive, ma che in realtà non sono per nulla banali e prevedibili, ma al contrario ci fanno sempre più immergere nelle storie e nelle evoluzioni dei personaggi.

Si chef!

Ebon Moss-Bachrach e Ayo Edebiri  in una scena di The Bear (2022 - ...) è una serie tv Disney+

Un’altra delle caratteristiche peculiari della serie è quanto forte i personaggi urlano, riempiendosi la bocca di parolacce e slang da strada, a cui a volte è anche difficile anche stare dietro.

I due personaggi più rumorosi sono ovviamente Carmen e Richie, nel loro rapporto fin dall’inizio incredibilmente conflittuale: da una parte uno chef affermato ma totalmente nevrotico, dall’altra un uomo cresciuto per strada, e che ragiona secondo le sue dinamiche, senza possibilità di mettere in discussione i suoi principi.

Carmen The Bear

Carmen è la figura più complessa dell’intera serie, e che si comprende effettivamente solo con il monologo dell’ultima puntata.

Sentendosi escluso dal complesso familiare, il protagonista si è gettato alla ricerca di un riscatto altrove, accettando davvero qualunque cosa, anche lasciarsi distruggere psicologicamente…

E la sua è una continua fuga dal confronto, da Sugar e sopratutto da Michael, un fantasma di cui non vediamo il volto fino all’ultima puntata. Ma forse lo stesso fratello lo voleva allontanare perché aveva compreso la sua vera potenzialità…

Una potenzialità che non poteva ridursi ad una piccola realtà familiare come il The Beef.

Sidney The Bear

Sidney è il confronto che riesce a dare un senso a tutto il ristorante e a Carmen stesso.

Infatti, nonostante sia l’ultima arrivata e molto giovane, in un attimo Carmen le mette praticamente sulle spalle tutto il ristorante, per cui deve scontrarsi continuamente sopratutto con Tina, che la respinge fin dall’inizio.

Ed è in un certo senso un carattere simile a quello di Carmen e con cui lo stesso deve confrontarsi: la stessa vocazione e la stessa intensità, che però non si lascia facilmente domare.

E infatti nell’intensissima scena della penultima puntata, in cui, per l’errore di Sidney, la cucina impazzisce, Carmen, dopo anni passati a prendere schiaffi senza dire una parola e avendo assorbito il tipo di comportamento che l’aveva schiacciato, si trova incredibilmente davanti ad una persona che invece non si lascia schiacciare.

Tutto nacque da una scatoletta di pomodoro…

Uno dei fili conduttori di The Bear è l’incomprensibilità del personaggio di Michael, che vive solo attraverso le parole di Carmie quanto di Richie.

La situazione del The Beef sembra impossibile da salvare, ma di fatto la risposta era nelle mani di Carmen per tutto il tempo: fin dalla prima puntata Richie insiste per inserire gli spaghetti al pomodoro nel menù.

Ma Carmie si rifiuta con violenza, chiudendo la prima puntata scaraventando la lattina nel cestino.

Tuttavia nell’ultima puntata è Richie a riportare Carmie sulla giusta strada, dandogli in mano l’ultimo messaggio di Michael, fino a quel momento ben nascosto.

Una scena che fra l’altro mi ha colpito come se quel biglietto fosse indirizzato a me, tanto ero presa dalla storia…

E infine si scopre che tutta la soluzione era sempre stata in un barattolo di pomodoro…

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1899 – Un bagaglio troppo ingombrante

1899 è una serie tv Netflix creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, gli stessi autori della serie di successo Dark. E, non a caso, vanno ad impelagarsi negli stessi problemi della terza stagione del prodotto che li ha resi famosi…

Al momento è una delle serie di punta della piattaforma, nella Top 10 dei prodotti più visti nella settimana a seguito della sua uscita. E non c’è da stupirsi, per quanto è stata pubblicizzata.

Di cosa parla 1899?

1899, Maura Franklin, neurologia, si trova a bordo del Kerberos, un transatlantico che viaggia in direzione degli Stati Uniti. Ma il viaggio si interrompe improvvisamente per il contatto con il Prometheus, nave che era andata dispersa per quattro mesi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare 1899?

Emily Beecham in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

È una domanda molto difficile a cui rispondere senza fare spoiler.

Diciamo che in generale non è una serie che mi sento di sconsigliare, ma neanche così imperdibile. Ha una struttura narrativa interessante per due terzi della sua durata, poi si perde abbastanza inesorabilmente sul finale, ovvero il punto più delicato…

Se vi piacciono serie mistery molto dark e dal sapore gotico, potrebbe essere la serie per voi. In alternativa potrebbe farvi incredibilmente arrabbiare…

Un lento mistero

Isabella Wei in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Partiamo dai punti più o meno positivi.

La struttura narrativa è interessante e per la maggior parte del tempo ben bilanciata: avendo fra le mani moltissimi personaggi da gestire, gli autori sono stati capaci di creare un piccolo background per tutti loro, rivelandolo poco a poco e in maniera sicuramente interessante.

E ho apprezzato che la rivelazione sia appunto molto naturale, che venga raccontata da frasi ben posizionate dei personaggi nei loro dialoghi.

Ma proprio su questo punto si crea il problema.

Il disinteresse

Emily Beecham, Aneurin Barnard eAndreas Pietschmann in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Come riuscivo ad interessarmi e in parte anche ad appassionarmi per certi versi alla storia di questi personaggi, appena ho scoperto che la storia era ambientata in una simulazione, mi è sceso tutto l’interesse.

Se è tutto finto, perché mi dovrebbe interessare di questi personaggi?

Con ogni probabilità il loro background è tutto inventato a uso e consumo della simulazione stessa. E probabilmente, visto la carrellata finale sui protagonisti collegati alla simulazione, è probabile che la maggior parte dei personaggi terziari, come la madre di Ling Yi, siano in realtà una sorta di NPC, ovvero esistono solo all’interno della simulazione stessa.

Motivo in più per cui alla fine ero totalmente disinteressata.

Un mistero sprecato

Fflyn Edwards in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Allo stesso modo tutto il mistero, con le sua peculiarità e gli elementi di fascino, è del tutto buttato via verso la fine della stagione.

Infatti proprio verso la fine sempre la rivelazione che è tutto finto, rende di fatto del tutto inutile il mistero del Prometheus. Perché lo stesso non era altro che una costruzione, un modo quasi per tenere impegnati i personaggi. E, allo stesso modo, un elemento costruito ad uso e consumo dello spettatore, ma, in fin dei conti, totalmente inutile.

E se lo spettatore sente di aver perso il proprio tempo…

Un bagaglio troppo ingombrante

Andreas Pietschmann in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

In ultima analisi, gli autori si sono incartati da soli.

Se vengono messi troppi strati ad una narrazione e, sopratutto, ad un mistero, diventa alla lunga troppo difficile districarsi. E infatti sul finale sembra che tutto sia sfuggito di mano.

Il villain principale è per la maggior parte del tempo il padre, poi si rivela che il realtà era Maura stessa con un colpo di scena che poteva anche funzionare. Se non fosse che si aggiunge un altro strato.

Ed è lì che il bagaglio diventa troppo ingombrante.

E un’eventuale seconda stagione dovrebbe non solo spiegare in maniera convincente tutta la sovrastruttura, ma raccontare praticamente da capo tutta la storia di personaggi secondari.

A meno di non volersene dimenticare…

Netflix all’attacco!

Ho purtroppo idea che il motivo di questa inutile complicatezza sia dovuta a necessità produttive.

Magari gli autori avevano questa idea nel cassetto, l’hanno proposta a Netflix e la piattaforma gli ha chiesto di fare un paio di stagioni. E per questo hanno dovuto sovraccaricare la narrazione di ulteriori elementi che rendessero possibile una continuazione.

Ma di fatto sono andati a snaturare gli elementi chiave della loro stessa creazione…

Cosa succede nel finale di 1899?

Nel finale ci sono di fatto due rivelazioni.

La prima è che il Creatore è in realtà Maura stessa, che aveva creato un mondo virtuale dove poter vivere col figlio morente. Tuttavia, scopriamo anche che il mondo è in realtà controllato da Ciaran, il fratello sempre nominato dalla protagonista.

E alla fine Maura si trova su una astronave nello spazio, nell’anno 2099, e il fratello stesso le dà benvenuto nella realtà reale.

Quindi il fratello era il vero villain tutto il tempo?

Non so se ho interesse a scoprirlo, a questo punto…

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Biopic Dramma familiare Dramma storico Drammatico Netflix Nuove uscite serie tv Serie tv

The Crown 5 – Decennium horribile

The Crown 5 è la quinta stagione della serie tv creata da Peter Morgan per Netflix. Un autore che si era già dimostrato piuttosto interessato e capace nel raccontare le vicende della famiglia reale con il suo The Queen (2006).

Una serie che ha raggiunto subito un grande successo, sia per le vicende raccontate, sia per la cura e l’eleganza nella gestione del materiale.

E questa quinta stagione si è portata dietro qualche polemica molto sterile…

Se vi interessa solo The Crown 5, cliccate qui.

Se invece volete non avete mai visto The Crown, continuate a leggere.

3 motivi per guardare The Crown

Ecco tre motivi per cominciare immediatamente questa serie fantastica.

Il casting (quasi) perfetto

Emma Corrin in una scena di The Crown 4, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Un elemento di grande importanza per prodotti di questo tipo è riuscire ad indovinare il casting. E The Crown ci riesce perfettamente, scegliendo non solo attori che riescono a riprendere le fattezze delle persone reali in maniera anche impressionante, ma sopratutto a portare un’interpretazione incredibilmente convincente.

In particolare perfetto il casting di Diana, sia nella sua versione più giovane con Emma Corrin, sia per l’interprete più adulta, Elizabeth Debicki.

La cura

Helena Bonam Carter in una scena di The Crown 4, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

La cura che viene messa nella produzione di The Crown ha pochi eguali nella storia della televisione. Dietro questo prodotto si vede uno studio e una gestione al limite del maniacale per rendere credibile il setting e i personaggi, tanto che, andando a fare il confronto con i filmati storici, il risultato è da far girare la testa:

La trama non scontata

Elizabeth Debicki in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Scegliendo di raccontare personaggi di questo genere, sarebbe stato molto semplice portare episodi del tutto focalizzati sugli elementi più di richiamo. The Crown sicuramente racconta questi momenti, ma preferisce focalizzarsi sulla psicologia dei personaggi e anche su eventi meno conosciuti, ma che ampliano la narrazione.

Di cosa parla The Crown 5?

La quinta stagione copre il periodo fra il 1991 e il 1997, un periodo molto burrascoso per la corona, in particolare per la figura di Diana, e la sua drammatica conclusione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Crown 5?

Elizabeth Debicki e Dominic West in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Assolutamente sì.

The Crown 5 è in linea con l’attimo livello delle precedenti. Quindi, se vi è piaciuta fin qui, vale la pena di recuperare anche la nuova stagione.

Tuttavia, è anche giusto essere pronti al fatto che questo nuovo ciclo di episodi, quasi come punto di principio, si rifiuta di calcare troppo la mano sui momenti più iconici di Diana, la cui storia è comunque centrale.

Anzi, va per sottrazione.

Insomma, non vuole farci vedere più di tanto quello che sappiamo già.

Perché le polemiche su The Crown 4 non hanno senso

Questa stagione è stata anticipata da numerose polemiche, anche per aver avuto la sfortuna di uscire in un momento politico piuttosto delicato, ovvero a seguito della morte di Elisabetta II.

Per questo si è molto criticato l’aver suggerito che Carlo avesse meditato di attentare al trono della madre. Si è arrivati persino a chiedere che venisse messo un disclaimer iniziale per avvertire lo spettatore che gli eventi raccontati non corrispondessero alla realtà.

Io consiglierei ai detrattori anzitutto di guardare The Crown, sopratutto questa quinta stagione.

Perché The Crown basa la sua forza sul scavare profondamente nella psicologia dei personaggi. E per fare questo ovviamente deve inventare o quantomeno ipotizzare cosa succedeva a porte chiuse. Come – e so che potrebbe veramente sorprendervi – fanno la maggior parte dei prodotti di questo tipo.

E approcciarsi a questa serie pensando di trovare un racconto della verità storica è una grande ingenuità.

Oltre a questo, la serie è del tutto positiva nel raccontare Carlo, che voleva portare novità e freschezza alla Corona. Fra l’altro non insinuando, come è stato detto, che avesse ideato un piano per attentare al trono.

C’è un po’ di The Crown in questa Diana

Elizabeth Debicki in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

La storia di Diana e Carlo è assolutamente centrale nella stagione, anche più della scorsa, dove comunque era molto presente.

Si sceglie ancora una volta il taglio più intimistico, in cui si racconta soprattutto quello che succedeva a porte chiuse e le profonde crepe che si erano formate ormai da tempo nel loro matrimonio.

Perfetta la scelta di Elizabeth Debicki come interprete: la sua prova attoriale è stata davvero convincente. Una regia che la premia continuamente, insistendo molto su primi piani stretti, mentre l’attrice tiene spesso gli occhi bassi e guarda verso l’alto, e così appare sempre molto timida e indifesa.

Ma in realtà è meno angelica di quanto sembri…

Fra luci e ombre

Nella scorsa stagione la figura di Diana era messa in scena come l’assoluta vittima della situazione

Al contrario in questi nuovi episodi Diana non è più una figura così positiva e senza ombre. Complice anche il cambio di casting, che la mostra come una donna molto più matura, e non più un’indifesa ragazzina. E per questo appare forse quasi una bambina capricciosa troppo cresciuta, che si sente costantemente vittima degli eventi.

Da questo punto di vista lo scambio con la Regina è rivelatorio non tanto di quanto effettivamente Diana fosse la vittima, ma più che altro di come si sentisse tale. In realtà Diana era sempre stata messa in un posto che le stava stretto, e quindi non aveva fatto altro che cercare di trovare una via di fuga da quell’ambiente per lei opprimente, anche con azioni non del tutto corrette.

Il principe promesso

Olivia Williams e Dominic West in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Come anticipato, il racconto di Carlo è molto meno drastico di quando si potesse pensare.

Si racconta di fatto il rapporto antagonistico fra Carlo e la madre, e con la corte in generale, in cui l’erede al trono cercava di mettersi al centro della scena e rinnovare il ruolo della Corona.

E si insiste molto su questo concetto, e sembra veramente che in qualche misura Carlo agisca alle spalle della madre per scalzarla.Ma in realtà non è così. Semplicemente il futuro re cerca di trovare il suo posto, piuttosto infelice di non poter salire al trono immediatamente, cercando intanto di guidare la madre secondo le sue idee.

Ed è un racconto che ha tutto un altro sapore alla luce dei recenti eventi…

Piccoli problemi di corone

Leslie Manville in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Anche se più marginali, in questa stagione si racconta anche di altre questioni dei membri della famiglia reale.

Per quanto Elisabetta sia molto meno presente in scena, il suo rapporto con Filippo colpisce a fondo, complice anche la presenza di questi due straordinari attori, perfetti nei loro ruoli. Si racconta un matrimonio non del tutto felice, anzi quasi con ferite aperte da tempo e mai rimarginate, che però alla fine sembra trovare una sorta di pacifico compromesso.

Ma è pure un filo della narrazione quasi troncato.

Un piccolo spazio ha anche Margaret, di cui ho assolutamente adorato la scelta dell’attrice, molto più calzante rispetto a Helena Bonam Carter. Il personaggio ha una puntata quasi tutta per lei, che ho trovato molto toccante, ma la sua storia rimane sotterranea, ma presente, per il resto della stagione.

Perché forse fra lei e Diana non c’era così tanta differenza…

Un finale non scontato

Imelda Staunton in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Ammetto che il finale mi ha lasciato un po’ interdetta.

E non penso di essere l’unica.

Come penso tutti, mi aspettavo una conclusione che quantomeno mostrasse un accenno della tragica morte di Diana e le sue conseguenze. Invece si gettano solo le basi della situazione che effettivamente finirà in tragedia.

E la vera conclusione, molto malinconica, è Elisabetta che visita la sua amata nave, che viene mandata in pensione, e po’ anche lei stessa si sente un ricordo del passato, sopratutto dopo le pressioni del figlio.

E non sa che il momento finale di un’era sta davvero per arrivare…