The Bear (2022 – …) è una serie tv Disney+ creata da Christopher Storer, già attivo da qualche anno come regista nel mondo della tv, diventato la rivelazione dell’anno proprio con questo prodotto.
Una serie che ha avuto il suo momento verso la fine del 2022, quando le recensioni in merito a quella che veniva definita la serie dell’anno fioccavano numerose.
E per fortuna mi sono fidata.
Di cosa parla The Bear?
Carmen è il capo chef di uno dei ristoranti più rinomati del mondo, si trova quasi costretto a tornare a casa e a gestire l’impresa di famiglia…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Bear?
Assolutamente sì.
A chi non l’ha vista è abbastanza difficile spiegare la bellezza di questo prodotto. È una serie ti entra sottopelle, usando un taglio narrativo talmente indovinato che, una volta finita, vi sentirete come se i personaggi fossero vostri stretti amici da una vita.
E, per l’effetto che ha avuto su di me (e altri), vi assicuro che non sto esagerando.
Una vera cucina…
L’elemento che salta più evidentemente all’occhio fin da subito è il montaggio tremendamente incalzante e al limite dello schizofrenico, che ben racconta i tempi strettissimi della cucina di un ristorante.
Sopratutto all’inizio si viene bombardati di immagini, ma al contempo molto lentamente si seguono i piccoli archi evolutivi dei personaggi, anche di quelli più apparentemente secondari. E la loro evoluzione è tutta legata alla cucina e ai rapporti che la definiscono.
E fra l’altro con una costruzione narrativa che sembra quasi quella della sitcom, con anche piccole storie auto conclusive, ma che in realtà non sono per nulla banali e prevedibili, ma al contrario ci fanno sempre più immergere nelle storie e nelle evoluzioni dei personaggi.
Sichef!
Un’altra delle caratteristiche peculiari della serie è quanto forte i personaggi urlano, riempiendosi la bocca di parolacce e slang da strada, a cui a volte è anche difficile anche stare dietro.
I due personaggi più rumorosi sono ovviamente Carmen e Richie, nel loro rapporto fin dall’inizio incredibilmente conflittuale: da una parte uno chef affermato ma totalmente nevrotico, dall’altra un uomo cresciuto per strada, e che ragiona secondo le sue dinamiche, senza possibilità di mettere in discussione i suoi principi.
Carmen The Bear
Carmen è la figura più complessa dell’intera serie, e che si comprende effettivamente solo con il monologo dell’ultima puntata.
Sentendosi escluso dal complesso familiare, il protagonista si è gettato alla ricerca di un riscatto altrove, accettando davvero qualunque cosa, anche lasciarsi distruggere psicologicamente…
E la sua è una continua fuga dal confronto, da Sugar e sopratutto da Michael, un fantasma di cui non vediamo il volto fino all’ultima puntata. Ma forse lo stesso fratello lo voleva allontanare perché aveva compreso la sua vera potenzialità…
Una potenzialità che non poteva ridursi ad una piccola realtà familiare come il The Beef.
Sidney The Bear
Sidney è il confronto che riesce a dare un senso a tutto il ristorante e a Carmen stesso.
Infatti, nonostante sia l’ultima arrivata e molto giovane, in un attimo Carmen le mette praticamente sulle spalle tutto il ristorante, per cui deve scontrarsi continuamente sopratutto con Tina, che la respinge fin dall’inizio.
Ed è in un certo senso un carattere simile a quello di Carmen e con cui lo stesso deve confrontarsi: la stessa vocazione e la stessa intensità, che però non si lascia facilmente domare.
E infatti nell’intensissima scena della penultima puntata, in cui, per l’errore di Sidney, la cucina impazzisce, Carmen, dopo anni passati a prendere schiaffi senza dire una parola e avendo assorbito il tipo di comportamento che l’aveva schiacciato, si trova incredibilmente davanti ad una persona che invece non si lascia schiacciare.
Tutto nacque da una scatoletta di pomodoro…
Uno dei fili conduttori di The Bear è l’incomprensibilità del personaggio di Michael, che vive solo attraverso le parole di Carmie quanto di Richie.
La situazione del The Beef sembra impossibile da salvare, ma di fatto la risposta era nelle mani di Carmen per tutto il tempo: fin dalla prima puntata Richie insiste per inserire gli spaghetti al pomodoro nel menù.
Ma Carmie si rifiuta con violenza, chiudendo la prima puntata scaraventando la lattina nel cestino.
Tuttavia nell’ultima puntata è Richie a riportare Carmie sulla giusta strada, dandogli in mano l’ultimo messaggio di Michael, fino a quel momento ben nascosto.
Una scena che fra l’altro mi ha colpito come se quel biglietto fosse indirizzato a me, tanto ero presa dalla storia…
E infine si scopre che tutta la soluzione era sempre stata in un barattolo di pomodoro…
1899 è una serie tv Netflix creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, gli stessi autori della serie di successo Dark. E, non a caso, vanno ad impelagarsi negli stessi problemi della terza stagione del prodotto che li ha resi famosi…
1899, Maura Franklin, neurologia, si trova a bordo del Kerberos, un transatlantico che viaggia in direzione degli Stati Uniti. Ma il viaggio si interrompe improvvisamente per il contatto con il Prometheus, nave che era andata dispersa per quattro mesi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare 1899?
È una domanda molto difficile a cui rispondere senza fare spoiler.
Diciamo che in generale non è una serie che mi sento di sconsigliare, ma neanche così imperdibile. Ha una struttura narrativa interessante per due terzi della sua durata, poi si perde abbastanza inesorabilmente sul finale, ovvero il punto più delicato…
Se vi piacciono serie mistery molto dark e dal sapore gotico, potrebbe essere la serie per voi. In alternativa potrebbe farvi incredibilmente arrabbiare…
Un lento mistero
Partiamo dai punti più o meno positivi.
La struttura narrativa è interessante e per la maggior parte del tempo ben bilanciata: avendo fra le mani moltissimi personaggi da gestire, gli autori sono stati capaci di creare un piccolo background per tutti loro, rivelandolo poco a poco e in maniera sicuramente interessante.
E ho apprezzato che la rivelazione sia appunto molto naturale, che venga raccontata da frasi ben posizionate dei personaggi nei loro dialoghi.
Ma proprio su questo punto si crea il problema.
Il disinteresse
Come riuscivo ad interessarmi e in parte anche ad appassionarmi per certi versi alla storia di questi personaggi, appena ho scoperto che la storia era ambientata in una simulazione, mi è sceso tutto l’interesse.
Se è tutto finto, perché mi dovrebbe interessare di questi personaggi?
Con ogni probabilità il loro background è tutto inventato a uso e consumo della simulazione stessa. E probabilmente, visto la carrellata finale sui protagonisti collegati alla simulazione, è probabile che la maggior parte dei personaggi terziari, come la madre di Ling Yi, siano in realtà una sorta di NPC, ovvero esistono solo all’interno della simulazione stessa.
Motivo in più per cui alla fine ero totalmente disinteressata.
Un mistero sprecato
Allo stesso modo tutto il mistero, con le sua peculiarità e gli elementi di fascino, è del tutto buttato via verso la fine della stagione.
Infatti proprio verso la fine sempre la rivelazione che è tutto finto, rende di fatto del tutto inutile il mistero del Prometheus. Perché lo stesso non era altro che una costruzione, un modo quasi per tenere impegnati i personaggi. E, allo stesso modo, un elemento costruito ad uso e consumo dello spettatore, ma, in fin dei conti, totalmente inutile.
E se lo spettatore sente di aver perso il proprio tempo…
Un bagaglio troppo ingombrante
In ultima analisi, gli autori si sono incartati da soli.
Se vengono messi troppi strati ad una narrazione e, sopratutto, ad un mistero, diventa alla lunga troppo difficile districarsi. E infatti sul finale sembra che tutto sia sfuggito di mano.
Il villain principale è per la maggior parte del tempo il padre, poi si rivela che il realtà era Maura stessa con un colpo di scena che poteva anche funzionare. Se non fosse che si aggiunge un altro strato.
Ed è lì che il bagaglio diventa troppo ingombrante.
E un’eventuale seconda stagione dovrebbe non solo spiegare in maniera convincente tutta la sovrastruttura, ma raccontare praticamente da capo tutta la storia di personaggi secondari.
A meno di non volersene dimenticare…
Netflix all’attacco!
Ho purtroppo idea che il motivo di questa inutile complicatezza sia dovuta a necessità produttive.
Magari gli autori avevano questa idea nel cassetto, l’hanno proposta a Netflix e la piattaforma gli ha chiesto di fare un paio di stagioni. E per questo hanno dovuto sovraccaricare la narrazione di ulteriori elementi che rendessero possibile una continuazione.
Ma di fatto sono andati a snaturare gli elementi chiave della loro stessa creazione…
Cosa succede nel finale di 1899?
Nel finale ci sono di fatto due rivelazioni.
La prima è che il Creatore è in realtà Maura stessa, che aveva creato un mondo virtuale dove poter vivere col figlio morente. Tuttavia, scopriamo anche che il mondo è in realtà controllato da Ciaran, il fratello sempre nominato dalla protagonista.
E alla fine Maura si trova su una astronave nello spazio, nell’anno 2099, e il fratello stesso le dà benvenuto nella realtà reale.
Quindi il fratello era il vero villain tutto il tempo?
Non so se ho interesse a scoprirlo, a questo punto…
The Crown 5 è la quinta stagione della serie tv creata da Peter Morgan per Netflix. Un autore che si era già dimostrato piuttosto interessato e capace nel raccontare le vicende della famiglia reale con il suo The Queen (2006).
Una serie che ha raggiunto subito un grande successo, sia per le vicende raccontate, sia per la cura e l’eleganza nella gestione del materiale.
E questa quinta stagione si è portata dietro qualche polemica molto sterile…
Se invece volete non avete mai visto The Crown, continuate a leggere.
3 motivi per guardare The Crown
Ecco tre motivi per cominciare immediatamente questa serie fantastica.
Il casting (quasi) perfetto
Un elemento di grande importanza per prodotti di questo tipo è riuscire ad indovinare il casting. E The Crown ci riesce perfettamente, scegliendo non solo attori che riescono a riprendere le fattezze delle persone reali in maniera anche impressionante, ma sopratutto a portare un’interpretazione incredibilmente convincente.
In particolare perfetto il casting di Diana, sia nella sua versione più giovane con Emma Corrin, sia per l’interprete più adulta, Elizabeth Debicki.
La cura
La cura che viene messa nella produzione di The Crown ha pochi eguali nella storia della televisione. Dietro questo prodotto si vede uno studio e una gestione al limite del maniacale per rendere credibile il setting e i personaggi, tanto che, andando a fare il confronto con i filmati storici, il risultato è da far girare la testa:
La trama non scontata
Scegliendo di raccontare personaggi di questo genere, sarebbe stato molto semplice portare episodi del tutto focalizzati sugli elementi più di richiamo. The Crown sicuramente racconta questi momenti, ma preferisce focalizzarsi sulla psicologia dei personaggi e anche su eventi meno conosciuti, ma che ampliano la narrazione.
Di cosa parla The Crown 5?
La quinta stagione copre il periodo fra il 1991 e il 1997, un periodo molto burrascoso per la corona, in particolare per la figura di Diana, e la sua drammatica conclusione…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare The Crown5?
Assolutamente sì.
The Crown 5 è in linea con l’attimo livello delle precedenti. Quindi, se vi è piaciuta fin qui, vale la pena di recuperare anche la nuova stagione.
Tuttavia, è anche giusto essere pronti al fatto che questo nuovo ciclo di episodi, quasi come punto di principio, si rifiuta di calcare troppo la mano sui momenti più iconici di Diana, la cui storia è comunque centrale.
Anzi, va per sottrazione.
Insomma, non vuole farci vedere più di tanto quello che sappiamo già.
Perché le polemiche su The Crown 4 non hanno senso
Questa stagione è stata anticipata da numerose polemiche, anche per aver avuto la sfortuna di uscire in un momento politico piuttosto delicato, ovvero a seguito della morte di Elisabetta II.
Per questo si è molto criticato l’aver suggerito che Carlo avesse meditato di attentare al trono della madre. Si è arrivati persino a chiedere che venisse messo un disclaimer iniziale per avvertire lo spettatore che gli eventi raccontati non corrispondessero alla realtà.
Io consiglierei ai detrattori anzitutto di guardare The Crown, sopratutto questa quinta stagione.
Perché The Crown basa la sua forza sul scavare profondamente nella psicologia dei personaggi. E per fare questo ovviamente deve inventare o quantomeno ipotizzare cosa succedeva a porte chiuse. Come – e so che potrebbe veramente sorprendervi – fanno la maggior parte dei prodotti di questo tipo.
E approcciarsi a questa serie pensando di trovare un racconto della verità storica è una grande ingenuità.
Oltre a questo, la serie è del tutto positiva nel raccontare Carlo, che voleva portare novità e freschezza alla Corona. Fra l’altro non insinuando, come è stato detto, che avesse ideato un piano per attentare al trono.
C’è un po’ di The Crown in questa Diana
La storia di Diana e Carlo è assolutamente centrale nella stagione, anche più della scorsa, dove comunque era molto presente.
Si sceglie ancora una volta il taglio più intimistico, in cui si racconta soprattutto quello che succedeva a porte chiuse e le profonde crepe che si erano formate ormai da tempo nel loro matrimonio.
Perfetta la scelta di Elizabeth Debicki come interprete: la sua prova attoriale è stata davvero convincente. Una regia che la premia continuamente, insistendo molto su primi piani stretti, mentre l’attrice tiene spesso gli occhi bassi e guarda verso l’alto, e così appare sempre molto timida e indifesa.
Ma in realtà è meno angelica di quanto sembri…
Fra luci e ombre
Nella scorsa stagione la figura di Diana era messa in scena come l’assoluta vittima della situazione
Al contrario in questi nuovi episodi Diana non è più una figura così positiva e senza ombre. Complice anche il cambio di casting, che la mostra come una donna molto più matura, e non più un’indifesa ragazzina. E per questo appare forse quasi una bambina capricciosa troppo cresciuta, che si sente costantemente vittima degli eventi.
Da questo punto di vista lo scambio con la Regina è rivelatorio non tanto di quanto effettivamente Diana fosse la vittima, ma più che altro di come si sentisse tale. In realtà Diana era sempre stata messa in un posto che le stava stretto, e quindi non aveva fatto altro che cercare di trovare una via di fuga da quell’ambiente per lei opprimente, anche con azioni non del tutto corrette.
Il principe promesso
Come anticipato, il racconto di Carlo è molto meno drastico di quando si potesse pensare.
Si racconta di fatto il rapporto antagonistico fra Carlo e la madre, e con la corte in generale, in cui l’erede al trono cercava di mettersi al centro della scena e rinnovare il ruolo della Corona.
E si insiste molto su questo concetto, e sembra veramente che in qualche misura Carlo agisca alle spalle della madre per scalzarla.Ma in realtà non è così. Semplicemente il futuro re cerca di trovare il suo posto, piuttosto infelice di non poter salire al trono immediatamente, cercando intanto di guidare la madre secondo le sue idee.
Ed è un racconto che ha tutto un altro sapore alla luce dei recenti eventi…
Piccoli problemi di corone
Anche se più marginali, in questa stagione si racconta anche di altre questioni dei membri della famiglia reale.
Per quanto Elisabetta sia molto meno presente in scena, il suo rapporto con Filippo colpisce a fondo, complice anche la presenza di questi due straordinari attori, perfetti nei loro ruoli. Si racconta un matrimonio non del tutto felice, anzi quasi con ferite aperte da tempo e mai rimarginate, che però alla fine sembra trovare una sorta di pacifico compromesso.
Ma è pure un filo della narrazione quasi troncato.
Un piccolo spazio ha anche Margaret, di cui ho assolutamente adorato la scelta dell’attrice, molto più calzante rispetto a Helena Bonam Carter. Il personaggio ha una puntata quasi tutta per lei, che ho trovato molto toccante, ma la sua storia rimane sotterranea, ma presente, per il resto della stagione.
Perché forse fra lei e Diana non c’era così tanta differenza…
Un finale non scontato
Ammetto che il finale mi ha lasciato un po’ interdetta.
E non penso di essere l’unica.
Come penso tutti, mi aspettavo una conclusione che quantomeno mostrasse un accenno della tragica morte di Diana e le sue conseguenze. Invece si gettano solo le basi della situazione che effettivamente finirà in tragedia.
E la vera conclusione, molto malinconica, è Elisabetta che visita la sua amata nave, che viene mandata in pensione, e po’ anche lei stessa si sente un ricordo del passato, sopratutto dopo le pressioni del figlio.
E non sa che il momento finale di un’era sta davvero per arrivare…
Yellowjackets è una serie tv di genere mistery – fantastico, distribuita inizialmente sul canale statunitense Showtime e poi in Italia su Sky. Un prodotto che non ha avuto particolare eco nel nostro mercato, tanto che io l’ho scoperta davvero per caso, tramite passaparola.
E alla fine mi sono decisa a vederla.
E non sono rimasta delusa.
Di cosa parla Yellowjackets?
Le Yellowjackets sono una giovane squadra di calcio femminile, che parte per un viaggio in aereo per giocare nel campionato. Ma l’aereo precipita e le ragazze si trovano sperdute in una foresta misteriosa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Yellowjackets?
Sì, ma solo se siete pronti.
Yellowjackets è una di quelle serie basate sullo svelamento di un mistero, con un’alternanza fra presente e passato. Ma è anche un tipo particolare di serie che presenta degli elementi in qualche modo fantastici e orrorifici, ma che sono ben contestualizzati nel contesto realistico della storia.
Se avete visto The Leftovers, capirete di cosa sto parlando.
Se siete patiti per le serie mistery e vi piacciono i misteri con anche elementi apparentemente soprannaturali e inspiegabili, è la serie che fa per voi. Ma siate pronti all’idea che lo svelamento del mistero è ben più lento di quanto ci si potrebbe aspettare, e la serie si concentra maggiormente sulla costruzione dei personaggi.
Partire dal picco…
La genialità di questa serie è il gancio che utilizza per coinvolgere lo spettatore.
Si comincia con un flashforward spalmato all’interno della prima puntata in cui una delle ragazze rimane vittima di una trappola mortale. Nell’inquietante seguito un gruppo di persone mascherate in maniera tribale si nutrono della sua carne durante una sorta di rito cannibale.
Solo sul finale vediamo lo svelamento di una degli individui mascherati. E scopriamo che è Misty, il personaggio che, più andiamo avanti, più è credibile in quelle vesti. Ma il gruppo è composto anche dalle altre ragazze…
E chi si nasconde sotto la maschera?
…proseguire per una storia normale?
Il resto della stagione mantiene una costante tensione, alimentata sia dalla fantastica colonna sonora, sia dal comportamento delle protagoniste da adulte, che mostrano le profonde ferite della loro traumatica esperienza.
E si usa un meccanismo simile da Severance, in cui l’unica fonte di svelamento del mistero non è per qualche motivo disposta a svelarlo. Ed è infatti il caso delle protagoniste, che da una parte non avrebbero motivo di raccontarsi fra loro quello che hanno vissuto, e al contempo (e per ovvi motivi) non hanno desiderio di raccontarlo agli altri.
Altrettanto bene funziona la falsa sicurezza che proviamo durante la stagione su chi sia effettivamente morto, cullandoci nella sciocca certezza che gli unici sopravvissuti siano quelli che vediamo in scena.
Un meccanismo ben oliato, che però scricchiola sul finale.
Un finale non del tutto convincente
Sono rimasta vagamente delusa dalla gestione del finale: non tanto perché il mistero non sia stato totalmente svelato, ma perché le dinamiche del cambiamento delle protagoniste non mi sono sembrate così credibili.
Il punto di svolta sembra di fatto il Dooming, ovvero il ballo della scuola, in cui tutte impazziscono per aver inconsapevolmente ingerito funghetti allucinogeni. Da lì questa esperienza sembra averle cambiate nel profondo, ma sinceramente le loro reazioni non mi sono sembrate credibili, appunto.
Sembra veramente che da un momento all’altro abbiano deciso di diventare aggressive, forse volendosi smarcare a vicenda delle reciproche colpe.
Anche se c’è ancora spazio per essere convincenti.
Cosa succede nel finale di Yellowjackets?
Le rivelazioni del finale in realtà sono molteplici. La più incredibile è proprio il fatto che Lottie sia ancora viva e a capo di unamisteriosa organizzazione che continua il culto cominciato nelle foreste tanti anni prima.
È molto probabile che il seguito dei flashback si concentrerà su come Lottie (?) abbia definitivamente plagiato le menti delle sue compagne, portandole dentro al suo culto cannibale.
Così neanche al massimo della forma è Taissa, che si scopre, come era forse abbastanza prevedibile, esserela lady in the tree, e che abbia fatto cose indicibili sia al figlio sia al loro cane.
La nuova stagione dovrebbe arrivare all’inizio del 2023.
House of the dragon è una serie tv prequel spin-off di Game of Thrones prodotta da HBO. Un prodotto accolto con tanta (anche giusta) diffidenza, dopo il disastro unanimemente riconosciuto del finale della serie madre.
Ma secondo me molti hanno dovuto ricredersi.
Fra l’altro una serie che è uscita in contemporanea con un’altra grande serie fantasy, Rings of power, rappresentandone la perfetta alternativa.
Di cosa parla House of the dragon?
Circa 200 anni prima di Game of thrones, i Targaryendominato la scena politica di Westeros, monopolizzando il Trono di Spade e la conseguente discendenza. Il re in carica è Viserys, uomo pacato e pacifico, che si trova a dover gestire la complicata discendenza con la primogenita, Rhaenyra, mentre il trono è insidiato da ogni parte…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere House of the dragon?
Premetto che sono molto di parte: al di là di tutti i difetti che può avere, è una serie che ho semplicemente adorato.
Ma, parlando più obiettivamente, se vi piace un fantasy più dark, con rimi molto concitati, pochi personaggi protagonisti e una robusta storyline principale, probabilmente vi piacerà. Se al contrario, preferite una serie più corale, con un fantasy più classico e ritmi più compassati, è ora di vedere Rings of Power.
Oppure vedetele entrambe.
Ma sopratutto House of the dragon.
L’ho detto che sono di parte.
Il percorso di Rhaenyra
Rhaenyra è l’indiscussa protagonista della scena, e la sua maturazione è di fatto il perno della narrazione. Nella prima parte della stagione è di fatto una principessa ribelle, del tutto allergica al suo ruolo da donna di corte, che a Westeros significa di fatto supportare la discendenza della propria casata sfornando infinita prole.
E il padre tenta in tutto i modi di domare il suo spirito, ma Rhaenyra è indomabile: nonostante indubbiamente col tempo ritorni sui suoi passi, accetti il matrimonio e le gravidanze, comunque continua ad agire praticamente sempre con la sua testa: con la tresca con Ser Criston Cole e poi con Lord Strong, da cui lo scandalo di corte, e poi il matrimonio con Daemon.
Tuttavia indubbiamente Rhaenyra dimostra col tempo una grande maturità, sopratutto sul finale, quando si trova ad un passo dalla guerra, ma decide di agire con prudenza.
E invece Aemond deve rovinare tutto.
Alicent: lasciarsi trasportare dagli eventi?
Alicent è un altro personaggio che mostra un interessante cambiamento nel tempo, con un’evoluzione del tutto organica. Infatti fin dalla prima scena Alicent è subito raccontata come una giovane donna del tutto ligia al dovere, tanto che accetta in maniera abbastanza obbediente l’invito del padre ad intrattenersi con Viserys dopo la morte della moglie.
Tuttavia già da qui si capisce come Alicent sia una donna che non si appiattisce nel ruolo di arpia e arrampicatrice sociale: non ha mai il ruolo di seduttrice, ma, in un altro contesto, si sarebbe intrattenuta abbastanza felicemente con il suo futuro marito senza neanche essere obbligata.
E così accetta a testa bassa anche il matrimonio, facendosi negli anni avvelenare dal padre, Otto, che la mette più volte in guardia sulla minaccia della successione ai suoi figli e la incoraggia più o meno malignamente a prendersi sempre più spazio a corte per ottenere il trono. E tanto peggio quando si affida alle cure di Larys Strong.
Ed è quasi commovente come fino alla fine e nonostante tutto, Alicent cerca una via pacifica con la vecchia amica…
Viserys: la pace a tutti i costi
Sarebbe riduttivo definire Viserys un inetto, ma indubbiamente è un personaggio che si trova al centro di una situazione che è incapace di gestire con il pugno di ferro, o, meglio, come gli altri si aspetterebbero da lui.
E per certi versi Viserys non è tanto dissimile dalla figlia: la maggior parte delle volte segue la sua testa e non quello che gli dicono gli altri. Anche se alla fine accetta di mettere sulle spalle della figlia il peso del trono, non si piega l’agghiacciante possibilità del matrimonio con la giovanissima Laena, per quanto fosse la cosa migliore da fare per mantenere la solidità della discendenza.
E cosi continua a difendere strenuamente la figlia davanti alle accuse di adulterio, unicamente perché vuole mantenere questa pace impossibile e di fatto fittizia che si è creato intorno. E nonostante tutto riesce ad andarsene in pace, guardando negli occhi la moglie perduta…
Daemon: l’eterna invidia
Daemon è un personaggio per certi versi più fumoso, anche se sembra complessivamente guidato sempre dallo stesso sentimento: l’invidia.
Invidioso prima del fratello e poi della nipote e moglie per la loro ascesa al trono, che non è mai riuscito ad ottenere. Un personaggio che per fortuna non ha cambiamenti da una puntata all’altra: rimane sempre un uomo violento e iroso, che alza le mani contro gli altri, sopratutto gli innocenti, la maggior parte delle volte solo per sfogare la sua rabbia cieca.
E penso infatti che sarà interessante se approfondiranno meglio la relazione con Rhaenyra, che è molto meno intima e felice di quanto lei stessa potesse pensare. Perché è così evidente come Daemon viva per attaccar briga e mettersi a capo di battaglie non tanto perché ci crede, ma perché deve dimostrare qualcosa a se stesso.
E a questo aggiungiamo la sua possibile impotenza che viene più volte suggerita, sembra il classico caso del personaggio maschile che si sente demascolinizzato e risponde con violenza.
Ma, come tutti i personaggi di questa serie, non è mai appiattito su un solo concetto.
Un finale perfetto
Per quanto il finale non sia forse stato l’incredibile, fantastica e scioccante conclusione che alcuni si aspettavano, io l’ho trovato perfetto così.
Nell’ultima puntata Rhaenyra dimostra la sua maturità politica, evitando di correre subito alle armi nonostante ce ne fossero tutti i motivi. In generale la protagonista sembra aver in parte interiorizzare quello che il padre aveva cercato di portate avanti fino alla fine della sua vita.
Ed è altrettanto interessante che l’effettivo casus belli, o la famosa goccia che fra traboccare il vaso, sia di fatto un incidente che però non sarà mai dimostrabile, anzi indubbiamente nessuno crederà mai veramente che Aemond non abbia ucciso volutamente Lucerys.
E questa è effettivamente la scintilla che fa scoppiare la guerra, in maniera anche storicamente credibile e interessantissima.
Il femminile tridimensionale
Un elemento che ho decisamente preferito rispetto a Rings of Power è la gestione dei personaggi femminili.
Se infatti in Rings of Power in generale tutti i personaggi sono un po’ appiattiti dagli schemi narrativi in cui sono incasellati, House of the dragon sceglie di rinunciare a a qualsiasi tipo di veridicità storica e mette al centro l’emotività dei personaggi.
E così ne derivano personaggi femminili molto tridimensionali, che prendono però strade diverse: Rhaenyra che è appunto la ragazza ribelle, che però non è banalizzata né all’essere edgy senza motivo né nell’essere una Mary Sue altrettanto senza motivo.
Invece la sua ribellione è ben contestualizzata all’interno di contesto politico complesso ed intricato.
Il momento migliore al riguardo è la scena del suo debutto sessuale con Ser Criston: una sequenza diretta con particolare eleganza, che mette al centro il piacere e il desiderio femminile, senza drammatizzare il momento.
Meglio di cosi difficilmente avrebbero potuto farlo.
Una strada diversa quella di Alicent, che racconta invece un femminile plagiato dal maschile, a cui il personaggio si sottomette più o meno obbedientemente. Il momento cardine è quando Alicent deve concedersi in tarda notte al marito, con un montaggio alternato che mette in luce il grande divario fra lei e Rhaenyra.
Verso il finale della stagione mostra un minimo di ribellione e rivalsa, ma in realtà da questo punto di vista secondo me Alicent ha ancora molto da raccontare.
Il problema dei time skip
Personalmente non ho trovato particolarmente problematici i time skip, che nella serie abbondano. Ho preferito per certi versi che la vicenda politica non avvenisse in un lasso di tempo ristretto, ma che si prolungasse più realisticamente all’interno di periodo più ampio.
Per quanto riguarda i personaggi, è tutto un altro discorso.
Sulle prime i rapporti e caratteri dei personaggi non mi avevano dato particolare fastidio, anche perché banalmente mi emozionavo a vedere i nuovi casting ogni puntata. Tuttavia, alla lunga mi sono resa conto dei problemi. I rapporti fra i personaggi forse non sono così tanto problematici, perché sforzandosi un attimo si possono capire, meno credibile è il fatto che alcuni non invecchino di un giorno in vent’anni di narrazione.
Se per esempio fate un confronto fra il Daemon della prima puntata e quello dell’ultima, non sembra passato neanche un anno. E con tutto che nel finale c’è stato un lavoro oculato sulla fotografia per dare al suo volto delle luci più drammatiche che lo fanno apparire più invecchiato. Tuttavia nel complesso il lavoro da questo punto di vista non è stato particolarmente intelligente.
L’eccesso
Per quanto sia stata una delle più strenue difenditrici della serie, è innegabile che ci siano dei momenti in cui la abbiano portato alcuni elementi all’eccesso.
Per quanto mi abbia emozionato la scena, è stato al limite del trash il momento in cui Daemon decapitata Vaemond nell’ottava puntata, complice anche una CGI veramente scarsa. Forse anche peggio l’ormai famosa scena della nona puntata in cui Larys si masturba guardando i piedi di Alicent. Infatti, per quando il concetto fosse anche interessante nel complesso della caratterizzazione di Alicent, la messa in scena è stata veramente di cattivo gusto.
In generale la combo fra CGI scarsa, che purtroppo è un problema abbastanza evidente di tutte le puntate, e il tentativo di sconvolgere lo spettatore è stato in più momenti una combo micidiale.
Tuttavia in generale non sto dalla parte di chi in generale condanna in toto il cosiddetto wow-effect: per me, semplicemente, dipende da come viene fatto.
E raramente ho visto momenti in questa serie che mi hanno davvero dato fastidio.
Dahmer è una serie Netflix creata da Ryan Murphy e basata sulle vicende riguardanti gli omicidi di Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il Mostro di Milwaukee.
Una serie arrivata al momento giusto, quello di massima popolarità del true crime, portando per altro in scena un racconto molto coinvolgente, sopratutto dal punto di vista emotivo.
E per molti questo è stato un problema.
Di cosa parla Dahmer?
Come detto, la serie si concentra sulla storia di Jeffrey Dahmer, coprendo complessivamente tutta la sua vita, dell’infanzia fino alla sua morte nel 1994.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dahmer?
Sì, ma se avete molto tempo.
Ci ho messo davvero troppo tempo a finire questa serie, che in effetti è troppo lunga, con dieci puntate che durano anche un’ora.
Tuttavia non si può negare che come serie possa diventare anche davvero coinvolgente, considerando che appunto punta molto sul lato emotivo della vicenda. Insomma, se siete appassionati di true crime o se anche solo vi interessano le serie riguardanti i serial killer, è molto probabile che vi piacerà.
Considerando che fra l’altro come serie può avvalersi di due nomi di alto livello: anzitutto Ryan Murphy, che già si era occupato di prodotti simili con American Crime Story. E poi l’ottimo Evan Peters, attore che ultimamente sembra in grande rampa di lancio.
E finalmente, vorrei dire.
C’è vita oltre a Dahmer?
La durata della serie è, a mio parere, veramente eccessiva.
Non dico tanto per la durata degli episodi singoli, ma proprio per la durata complessiva: si ha come la sensazione che gli autori volessero raccontare tutto della storia di Dahmer, anche i lati meno scontati come la storia delle famiglie e vittime, del padre del protagonista, e via dicendo.
E, se per certe parti ho anche apprezzato una maggiore tridimensionalità del racconto, per altre avrei invece preferito che si facesse una maggiore selezione del materiale. Per esempio avrei lasciato fuori parte della storia di Glenda, la vicina, e così anche le puntate dedicate al processo e al carcere.
Insomma, per me sarebbe stato meglio raccontare le parti veramente interessanti della storia, senza sentirsi in dovere di raccontare ogni cosa.
La gestione della trama
Qualche dubbio ho avuto anche sulla gestione della trama: invece di seguire gli eventi in ordine cronologico, si fanno un po’ di salti in avanti e indietro.
E, per quanto abbia apprezzato generalmente la scelta di non portare un racconto eccessivamente lineare, d’altra parte non ho trovato del tutto organico e coerente la scelta di quali scene mostrare e dell’andamento complessivo della narrazione.
Avrei quindi preferito una gestione della trama più pensata da questo punto di vista
L’aggancio emotivo
Come detto, la serie non si limita a raccontare banalmente la storia di Jeffrey Dahmer, ma utilizza diversi agganci emotivi.
Anzitutto il racconto per cui Jeffrey fu un ragazzo e un bambino abbandonato a se stesso, che ebbe molte difficoltà ad affrontare la sua omosessualità, che poi usò come arma dietro la quale nascondersi anche per sfuggire al controllo della polizia.
Non di meno l’apparente e profondo pentimento e in generale la consapevolezza dei suoi comportamenti distruttivi, che lo portarono a rovinare ogni sua interazione sociale e momento felice che avrebbero potuto salvarlo, per così dire.
Ma l’aggancio emotivo più forte, e con il quale mi sono sentita personalmente emotivamente coinvolta, è la storia del padre. Il padre di Dahmer nella serie è sempre preoccupato per il figlio e per tutta la sua vita cerca di salvarlo, per così dire, e nonostante tutto lo perdona e lo aiuta, fino alla fine.
Davvero particolare che questo ruolo tipicamente materno sia affidato alla figura del padre.
Ma è giusto empatizzare con un serial killer?
È giusto empatizzare con un serial killer?
La questione è molto spinosa e può essere ampliata anche oltre a questo discorso specifico.
Tuttavia, parlando esclusivamente di questa serie, bisogna fare la distinzione fra feticizzazione e umanizzazionedel serial killer.
La feticizzazione o romanticizzazione di un criminale è una tendenza che esiste da quando esistono i serial killer, come si vede anche nella serie. E si parla di esaltare e in qualche modo giustificare le azioni criminali di un criminale, arrivando ad idolatrarlo. Ed è una tendenza esistente tutt’oggi, che questa serie ha solo riportato al centro della discussione.
E non credo di dover dire io quanto sia sbagliato.
Al contrario, il tentativo di umanizzare e spiegare le azioni di un serial killer o un criminale in generale non solo è una cosa giusta da fare, ma anche dovuta. Questo perché, proprio per auto-tutelarci come società, non ci guadagnamo niente a bollare stupidamente queste persone come le mele marce della società. È invece molto più utile capire da dove derivino determinati comportamenti, spesso legati a contesti familiari difficili o emarginazione sociale in genere.
Non sbattere quindi il mostro in prima pagina, ma intervenire per tempo prima che effettivamente lo diventi.
La verità dietro alla serie
La serie è per certi versi molto fedele agli effettivi eventi riguardanti la storia di Dahmer, pur con significative differenze.
La prima grande differenza è che Glenda, la vicina di casa, non era in effetti la sua vicina di casa, ma abitava nel palazzo vicino. Tuttavia effettivamente chiamò più volte la polizia e la storia del quattordicenne che tentò di sfuggire a Dahmer è del tutto vera. E comunque i vicini di Dahmer si lamentarono più volte del rumore e della puzza che veniva dal suo appartamento
La scena già iconica in cui Dahmer fa vedere l’Esorcista III alle sue vittime è altresì vera, come confermato nella sua intervista in Inside Edition, ma al contrario Dahmer non bevve il sangue rubato dalla clinica in cui lavorava come si vede nella serie. E il bar dove adescava le sua vittime è un bar veramente esistente, anche se ad oggi ha chiuso.
Il tentativo del padre di salvare il figlio quando fu arrestato per violenza sessuale nel 1990 è effettivamente avvenuto: il padre scrisse una lettera al giudice per chiedere che suo foglio fosse curato. Molte delle scene che riguardano il padre sono prese proprio dal libro citato nella serie, A Father’s Story, per cui Lionel Dahmer venne effettivamente portato in tribunale da due delle famiglie delle vittime (e non tutte come nella serie).
È il momento di Evan Peters
Evan Peters è un attore rimasto purtroppo ancora poco conosciuto nel panorama televisivo e cinematografico.
Se avete seguito la saga degli X-Men dal 2000 in poi, indubbiamente lo ricorderete come Peter Maximoff, AKA Quicksilver. E purtroppo ha fatto poco altro di interessante, a parte una parte incredibilmente memorabile in American Animals (2018).
Si era anche fatto conoscere per un’altra serie di Ryan Murphy, American Horror Story, per poi essere scelto dallo stesso come protagonista di Dahmer, che gli sta assicurando un successo incredibile a livello internazionale.
E forse è anche ora che la sua bravura venga riconosciuta.
Rings of power è una serie tv Prime Video, racconto prequel de Il Signore degli Anelli.
La produzione seriale più costosa mai realizzata finora, con un budget di quasi 60 milioni di dollari a puntata: per fare un confronto, una puntata di House of the dragoncosta circa 20 milioni ad episodio.
La narrazione è basata sui libri della trilogia classica ed una serie di appendici, scatenando le ire di molti puristi tolkieniani per la mancata fedeltà massima all’opera. Personalmente, non facendo parte di nessuno schieramento e considerandomi più una casual fan de Il Signore degli Anelli, ho potuto giudicare la serie a mente fredda.
E mi trovo in una posizione di mezzo.
Di cosa parla Rings of power?
La storia segue le vicende di diversi personaggi, generalmente tutte collegate all’avventura dell’elfa Galadriel, impegnata nella sua missione di vita di ritrovare Sauron e sconfiggerlo definitivamente…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Rings of power?
Dipende.
In generale se siete dei tolkieniani duri e puri, e volete vedere una riproposizione dell’opera di riferimento, lasciate stare: non hanno i diritti per trasporre il materiale effettivo, è inutile accanirsi.
Se invece, come me, siete più dei casual fan della saga cinematografica, potrebbe essere un prodotto per i vostri gusti. Ma dipende anche da che tipo di serie state cercando: se vi piacciono le serie fantasy classiche (high-fantasy), con racconti corali, tantissimi personaggi e ritmi molto compassati, è assolutamente la serie per voi.
Se invece vi piace un fantasy più dark, con ritmi più incalzanti e che si basa più su intrighi politici che sull’elemento fantastico, avete sbagliato prodotto: è ora di cominciare House of the Dragon.
La gestione della storia
Per quanto non abbia personalmente apprezzato la gestione della trama, che ho trovato per i miei gusti troppo dispersiva, nel complesso può essere considerata un buon esempio di unprologo molto prolisso. La parte più attiva della vicenda è di fatto quella di Galadriel, ma in generale anche quella è solo la prima tappa di una storia ben più ampia.
Indubbiamente, la serie è stata un incontro di storie dal sapore molto diverso, così da riuscire a soddisfare i più diversi palati. E per me è stato decisamente rassicurante che, anche nella maniera più aspettata, tutte le storie si sono ritrovate collegate ad una più ampia linea narrativa.
Ad eccezione dei guizzi delle ultime puntate, la gestione della trama presenta ritmi davvero lenti e compassati, per nulla nelle mie corde. Tuttavia, è anche giusto che esista questo tipo di fantasy in linea con le tematiche e i ritmi tolkieniani.
Non possiamo tutti essere fan dei ritmi sfrenati di House of the dragons, insomma.
Galadriel è un personaggio problematico?
Lasciando da parte le polemiche riguardanti la fedeltà del personaggio all’opera originale, il problema principale di Galadriel è la sua poca amabilità. E questo può essere una cosa positiva e negativa allo stesso tempo.
Negativa perché la sua caratterizzazione sembra scivolare in una tendenza piuttosto diffusa del panorama televisivo e cinematografico di non riuscire a raccontare personaggi femminili forti senza renderli al contempo anche sgradevoli. L’esempio principe è, ovviamente, Captain Marvel, personaggio proprio appiattito su questo concetto.
Tuttavia questo aspetto è anche positivo perché anche se la sua caratterizzazione non è particolarmente ampia, ma del tutto funzionale e organica al suo personaggio. Anzitutto perché è un’elfa, razza che, fuori e dentro le opere di Tolkien, è sempre caratterizzata da una certa alterigia.
In secondo luogo, è una donna testarda e tenace, che risulta in parte sgradevole agli stessi altri personaggi. Tuttavia, se non avesse questo carattere, non avrebbe mai convinto Númenor a salvare in parte le Southlands, non avrebbe scoperto Sauron e soprattutto avrebbe permesso allo stesso di impossessarsi degli Anelli del Potere.
La questione di Sauron
Per quanto riguarda il personaggio di Sauron, gli autori hanno tentato un bell’azzardo, visto che in parte doveva inventare di sana pianta. Ovviamente consapevoli che sarebbe diventata la pietra dello scandalo, hanno giocato tantissimo su questo personaggio, disseminando indizi e false piste.
E io ho abboccato praticamente a tutto.
E va bene così.
Da un certo punto di vista ero molto convinta della scelta di rivelare che lo Straniero fosse Sauron, ma è anche vero che così si sarebbe entrati in un cortocircuito troppo complicato da gestire. D’altra parte, scegliere un attore con la faccia così pulita e amabile per questo ruolo e con un plot twist così potente, è stato molto azzeccato.
Aspetto i tolkieniani che vengano qui a spiegarmi perché è stata la scelta più sbagliata e inorganica mai presa, perché non ho dubbi che lo sia.
Ma, di nuovo, a me va bene così.
L’identità dello Straniero
Un importante mistero della serie era la vera identità dello Straniero. Per quanto la gestione della storyline dei Pelopiedi mi sia piaciuta a tratti, la sua conclusione è stata una delle mie preferite, perché getta le basi per una storyline che mi torna a far sognare il viaggio di Frodo e Sam.
E lasciatemi sognare.
Per il resto, come già detto, ho trovato molto credibile la rivelazione della sua identità. Per quanto ho visto molte persone arrovellarsi su diverse teorie, io credo che sia più scontato e digeribile per il pubblico di riferimento dire che si tratta o di Gandalf o di Saruman, indipendentemente da che questo sia coerente col canone o meno.
E, visto che Gandalf è uno dei personaggi più amati della saga (ed infatti è il mio preferito), ho idea che quella sia la direzione che prenderanno.
L’aspetto estetico
L’aspetto estetico della serie è stato un po‘ il mio cruccio.
Non sempre, ma troppo spesso di sicuro, mi sono trovata a non credere a quello che vedevo in scena, nel senso che vedevo gli attori che recitavano in scena, e non i loro personaggi. Tanto più che anche quando questi dovrebbero essere più sporchi e naturali, come i Pelopiedi, li ho trovati invece molto finti.
Ma questo è un problema tutto mio, in quanto questa è l’estetica di Tolkien, tanto più pompata con un budget stellare. Perché sarebbe del tutto ingiusto dire che i costumi e gli oggetti di scena non siano stati al limite della perfezione, per quelli che erano gli intenti.
Andrò avanti a vedere Rings of power?
Per quanto abbia avuto un dubbio in certi momenti, soprattutto nella prima parte, questo finale mi ha davvero convinto a proseguire con la serie.
Con tutto che non mi ha entusiasmato, non mi sento ancora di gettare la spugna, perché come mi piace il Signore degli Anelli, spero che più nel lungo periodo anche Rings of power riesca effettivamente a convincermi.
Scenes from a marriage, in Italia noto come Scene da un matrimonio, è una serie remake dell’omonimo prodotto diretto da Ingmar Bergman nel 1973. In questo caso alla regia della serie troviamo Hagai Levi, già autore di diverse serie tv, e che sceglie come protagonisti gli straordinari Oscar Isaac e Jessica Chastain.
Una serie davvero particolare, un dramma da camera non sicuramente per tutti i palati, ma che può essere molto più appassionante di quanto ci si potrebbe aspettare…
Di cosa parla Scenes from a marriage?
Mira e Jonathan sono sposati da dieci anni e, nonostante tutto, sembrano una coppia molto affiatata. Tuttavia basta poco perché la loro relazione vada in crisi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perché vedere Scenes from a marriage
Come anticipato, Scenes from a marriage non è una serie per tutti. In primo luogo perché è un dramma da camera da manuale (vedi sotto), e in secundis perché presenta dei trigger alert abbastanza pesanti. In particolare potrebbe farvi stare davvero male se siete appena usciti da una relazione o se avete dei genitori divorziati, e nessuna delle due cose l’avete mai vissuta bene.
Una serie che scava profondamente nella psicologia dei personaggi, nelle crepe della loro relazione con delle dinamiche drammaticamente realistiche e credibili, che non si perde nel facile dramma ma in una tragedia profonda e sentita.
Ma insomma, cos’è un dramma da camera?
Cos’è un dramma da camera?
Il dramma da camera è un tecnica teatrale e cinematografica che nasce in Germania negli Anni Venti. In parole povere, indica un tipo di rappresentazione teatrale e cinematografica in cui si privilegia il mettere in scena le emozioni dei personaggi, scegliendo ambienti intimi e raccolti, e dando grande importanza alla espressività e alle sfumature di significato dei loro dialoghi.
In Scenes from a marriage questa rappresentazione si vede in tutta la sua potenza: l’ambiente è quasi per tutto il tempo uno: la loro casa. La regia indugia moltissimo sui volti dei protagonisti, passando da mezzi primi piani e primi piani stretti.
La sceneggiatura è praticamente del tutto incentrata sul dialogo fra i due protagonisti, che dialogano incessantemente per ore ed ore, in cui la situazione può cambiare davvero in un attimo.
Un amore sofferto
Questa serie per certi versi mi ha ricordato Eternal sunshine of the spotless mind (2004), ma con la grande differenza che Scenes from a marriage ha un taglio molto più drammatico e malinconico. La storia di Mira e Jonathan è fatta di fughe e ritorni, in primo luogo da parte di Mira. E, sopratutto, non porta assolutamente ad un finale consolatorio.
Per tutta la serie si ha la sensazione che, come in un certo senso è anche raccontato, i due siano fondamentalmente impossibilitata a dividersi, ma continuano a incontrarsi e scontrarsi per anni.
Jonathan, il marito perfetto Scenes from a Marriage
Jonathan è il personaggio forse più drammatico fra i due: fin da subito viene raccontato come il marito buono, perfetto, che si sforza continuamente di esserlo, illudendosi che questo basti per mantenere la solidità della loro relazione. Inoltre, è genuinamente ignaro delle crepe della loro relazione.
Ed è straziante vedere e sentir raccontare come ha affrontato l’abbandono della moglie, con un taglio tragicamente realistico e credibile. Ed è Jonathan quello nella relazione che mette (apparentemente) un punto fermo al loro matrimonio, quando Mira cerca inutilmente di tornare da lui.
Come inizialmente sembrava lui il personaggio pieno di fiducia per la riuscita della loro relazione, alla fine si mostra invece rassegnato a doverla portare avanti in segreto, andando contro al matrimonio a cui sembra essersi semplicemente adattato.
Mira, la donna in fuga in Scenes from a Marriage
Mira è la scheggia impazzita che si scontra con l’apparente tranquillità di Jonathan. Fin dalla prima inquadratura mostra di sentirsi fuori posto, e a posteriori capiamo che c’era qualcosa che stava crescendo dentro di lei. E non positivamente.
Ed è la prima che scappa, a parole dopo un’attenta riflessione, ma in realtà tutto in lei racconta altro: la fretta, l’ansia di essere fermata, la totale incapacità di comunicare veramente. Quando racconta a Jonathan di volerlo lasciare glielo dice quasi con tranquillità, come se di fatto fosse tutto deciso e non ci fosse più nulla da fare.
Ma è la stessa Mira che poi torna indietro, e più di una volta: a differenza di quanto racconta, non è affatto decisa nel lasciare definitivamente il marito. Insiste più e più volte nell’intrufolarsi nuovamente nella sua vita, cercando anche di portare una qualche forma di controllo: sul fumo, sull’arredamento, su quello che non è più suo marito.
E alla fine anche lei sembra fra i due quella meno arresa, quella che in realtà è tornata felicemente sui suoi passi. Insomma, se avesse potuto, probabilmente si sarebbe di nuovo sposata con Jonathan.
Un finale soddisfacente?
Il finale della serie è un non finale e si mischia con l’elemento meta narrativo: la scena narrativa si chiude con la coppia affettuosamente abbracciata nel letto, in un parziale e apparente ricongiungimento, che però sembra ormai possibile.
Poi ci spostiamo fuori scena, chiudendo la serie con la cornice narrativa che aveva aperto tutte le altre puntate: l’apparente dietro le quinte. E i due attori sembrano affettuosamente affiatati, si dirigono verso i camerini abbracciati e si scambiano un rapido bacio prima di dividersi.
Only murders in the building è una serie tv Disney+ di genere mistery e comico, con protagonisti Selena Gomez, Steve Martin e Martin Short. Un prodotto arrivato ad oggi alla seconda stagione e già confermato per una terza.
Una serie che è un mio cruccio: la guardo con piacere, anche molto coinvolta, ne riconosco i vari e innegabili pregi…ma alla fine non rimango con un buon sapore in bocca.
Tuttavia, è una serie che dovete vedere per buonissimi motivi.
Di cosa parla Only murders in the building?
A seguito di un misterioso omicidio nel loro palazzo, un improbabile terzetto di protagonisti si ritrova non solo ad indagare il caso, ma anche a creare un podcast di successo.
Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:
Perché dovreste vedere assolutamente Only murders in the building
Only murders in the building è una serie davvero imperdibile per molti motivi: l’ottima regia e messa in scena, una costruzione molto sapiente sia del mistero che dei personaggi in scena, colpi di scena ben calibrati e un intrigo per nulla scontato.
Tanti elementi derivati da una particolare cura per la totale partecipazione degli attori protagonisti nella produzione: sono tutti produttori esecutivi della serie, che significa che hanno ampissima voce in capitolo nella sua realizzazione, e Steve Martin è anche co-creatore.
Vi consiglio solo di non guardare le due stagioni una di fila all’altra: rendono molto meglio se guardate con una minima distanza l’una dall’altra.
Saper gestire un mistero
Se avete una discreta conoscenza delle serie di genere mistery sapete che una gestione ottimale del mistero non è per nulla scontata, anzi. Ci sono non pochi casi di serie tv che costruiscono un mistero che sulle prime appare anche molto intrigante, ma che poi, arrivati alle battute finali, appare totalmente sconclusionato.
Non è il caso di Only murders in the building il quale, sopratutto per questa seconda stagione, mi ha ricordato Pretty little liars ai tempi d’oro. Un paragone infelice, ma vale come esempio vincente: alcune dinamiche sono simili, ma, come Pretty little liars è uno inconcludente accumulo di indizi e intrighi, Only murders in the building si dimostra ben più efficace e narrativamente organico.
Infatti sia nella prima che nella seconda stagione vediamo in scena una progressiva e intelligente rivelazione del mistero, con un colpo di scena finale in entrambe le stagioni che è ben costruito fin dall’inizio. In particolare, nella seconda stagione si è scelto di giocare con i falsi colpi di scena per un’intera scena.
Unica pecca di questa scelta: se si è abbastanza esperti di questo genere di prodotti, appare del tutto evidente come gli stessi colpi di scena siano fintianche prima che siano spiegati.
Pochi tocchi di sitcom
Un elemento davvero peculiare di questa serie è il suo elemento sitcom: come proprio di questo genere, ci sono non pochi momenti nella prima stagione in cui vengono raccontati dei brevi archi narrativi che servono a far conoscere meglio i personaggi.
Degli archi narrativi che di fatto non torneranno più e che non hanno una vera influenza sulla trama generale, ma che di fatto la arricchiscono non poco. Alcuni fra l’altro anche molto toccanti come la relazione fra Howard ed il suo vicino di casa cominciata durante il blackout.
Un prodotto davvero inclusivo
Un aspetto non da poco della serie è la sua capacità di portare un tipo di inclusività per nulla scontata e autentica. In non pochi prodotti in ambito seriale e cinematografico prodotti e autori poco capaci banalizzano drammaticamente questo aspetto, tramite tokenism e girl power molto cheap.
Al contrario in Only murders in the building troviamo due figure raramente ben rappresentate.
Anzitutto Theo, interpretato da un attore effettivamente ragazzo sordo, James Caverly. La differenza da altri prodotti non è un semplice token, ma un personaggio estremamente importante che ha una delle puntate più belle dell’intera serie.
Infatti nella prima stagione la puntata The Boy From 6B, riesce a raccontare con ottimi tocchi di regia il punto di vista reale del personaggio. E il tema viene ripreso anche in maniera non poco interessante anche nella seconda stagione.
Only murders in the building
Un altro tipo di rappresentazione che sta prendendo piede in questo periodo è quello della donna incinta smarcata dall’idea di maternità rassicurante. In questa stagione viene infatti introdotta Nina, che si rivela un personaggio molto tridimensionale: sulle prime appare un’arpia approfittatrice, poi dimostra il suo lato più umano, in particolare nella puntata del blackout.
Allo stesso modo ho particolarmente apprezzato che, quando Nina sta per partorire, la persona che interviene immediatamente non è il personaggio femminile spinto da un improbabile senso materno, ma Charles, con fra l’altro anche una simpatica motivazione alle spalle.
…e allora perché non mi piace cosi tanto Only murders in the building?
Nonostante tutti questi elementi indubbiamente positivi che mi hanno anche intrattenuto, ci sono due elementi che mi hanno impedito di essere davvero appassionata a questa serie.
Il primo e più importante è che, per motivi non del tutto chiari neanche a me, non riesco ad essere coinvolta coi protagonisti, nonostante, almeno per quanto riguarda Charles e Oliver, gli attori già di per sè sono molto affabili.
Ma nulla, non è mai scattata la scintilla.
La cosa peggiora per Mabel, il personaggio di Selena Gomez: nonostante si cerchi indubbiamente di raccontare un personaggio quando più tridimensionale, a pelle non mi è mai piaciuta, anzi l’ho trovata discretamente sgradevole.
Infine, e forse è anche l’aspetto che trovo più difettoso della serie, nonostante il finale sia ben costruito, non mi lascia mai un buon sapore in bocca. Il più delle volte mi dimentico tutto il contesto e non lo trovo alla fine così avvincente e interessante.
E a questo proposito…
L’omicidio alla fine della stagione è ridondante?
Come abbiamo visto recentemente per la saga di Una notte da leoni, non è per nulla facile gestire un brand quando lo stesso è basato su un elemento forte, ma non facilmente replicabile.
Nel caso di Only murders in the building perché alla lunga diventa poco credibile che questi personaggi siano coinvolti in un numero potenzialmente indefinito di omicidi.
Come, con mente più matura, abbiamo rivalutato (si fa per dire), la credibilità della storia della Signora in giallo e la sua scia di omicidi, cosi alla lunga questo elemento della serie potrebbe cominciare a stancare e a non essere così d’impatto.
Già con questo finale di stagione sono rimasta poco convinta.
The girl from Plainville è una serie tv di produzione Hulu (la succursale adulta di Disney+) con protagonista Elle Fanning. Un prodotto che si propone di raccontare un caso di cronaca nera avvenuto fra il 2012 e il 2020: una giovane ragazza spinse il suo fidanzato, tramite messaggi, a suicidarsi.
Un racconto non poco grottesco, che riesce a centrare alcuni elementi, come l’ottimo casting della protagonista, ma pecca drammaticamente in altri. Ma, come altri prodotti di cui abbiamo parlato in tempi recenti, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi, e anche molto.
Di cosa parla The girl from plainville?
Come anticipato The girl from plainville racconta la storia veramente accaduta di due giovani adolescenti che avevano un’assidua relazione tramite messaggio. La loro storia prese però una piega drammatica quando la ragazza cominciò a spingere il suo fidanzato, già di per sè depresso, a togliersi la vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perchè guardare The girl from plainville
Complessivamente, The girl of plainville non è una serie che considero imperdibile, ma neanche che mi sentirei di sconsigliare in toto. A mio parere è una serie difettosa in molte parti, ma che non mi ha coinvolto anche perchè evidentemente non è una serie per me.
Gli episodi sono infatti principalmente concentrati sul raccontare il personaggio di Michelle e la sua storia con Conrad, quindi la parte mistery e legal drama è abbastanza ridotta. Tuttavia, ci sono due ottimi motivi per cui mi sento di consigliare questa serie.
Anzitutto, se vi piacciono le storie true crime, anche parecchio grottesche e sui generis come in questo caso, più di genere thriller psicologicoche mistery, ovvero andando a scavare le motivazioni dietro a certi atti così incomprensibili.
In secondo luogo, ve la consiglio se eravate adolescenti fra il 2010 e il 2015, o se siete patiti per quel periodo: la serie lo racconta veramente bene, sopratutto tramite la protagonista, che è proprio la ragazza tumbrl per eccellenza.
E ho detto tutto.
Quando Elle Fanning non basta
Partiamo dalla cosa migliore della serie: Elle Fanning è un’attrice che apprezzo fin dai suoi esordi in Super 8(2008), e in questa serie conferma tutte le sue ottime capacità recitative. La vediamo infatti destreggiarsi in un personaggio molto ambiguo, che passa dall’essere la spensierata ragazza di Tumblr appunto, a diventare minacciosa, quasi paurosa.
E Elle Fanning è riuscita a calarsi perfettamente nella parte, nonostante talvolta il suo personaggio sia molto banalizzato. E questo è uno dei problemi principali della serie: il racconto riguardo Michelle sembra molto tridimensionale all’inizio, ma poi si perde sui punti fondamentali.
Infatti, quando si arriva al momento focale in cui Michelle effettivamente spinge Conrad al suicidio, non mi è parso per nulla costruito adegutamente, anzi mi è sembrato abbastanza improvviso. E, più in generale, non adeguatamente esplorato come, secondo me, avrebbero dovuto fare.
L’impossibile racconto
L’ostacolo principale della pellicola era riuscire a raccontare la comunicazione fra i protagonisti, avvenuta quasi totalmente tramite messaggio. Per questo si è scelto, invece che mostrare le chat in continuazione, cosa che sarebbe in effetti stata alla lunga ridondante, di mettere in scena le conversazioni come se i protagonisti fossero nella stessa stanza.
Tuttavia questa scelta non è molto indovinata, anzi tende ad essere confondente: in più di un caso non riesce a rendere il come i due protagonisti fossero distanti e si stessero parlando per chat, realtà dove la comunicazione è totalmente diversa.
Insomma, un buon tentativo, ma non la scelta migliore.
Raccontare un’era
Uno degli elementi parzialmente vincenti della serie è la sua capacità di raccontare un’era del tutto particolare come è stata quella fra il 2010 e il 2015. E, incredibilmente, riesce a cogliere tutti gli elementi che la definivano: Glee, i libri di John Green (ad un certo punto Michelle sta guardando Colpa delle stelle) e questa cultura dell’apparire a tutti i costi.
Eravamo agli albori dei social network, quando tutto sembrava ancora nuovo e strano, e la voglia di essere presenti e notati era tanta. Non a caso mi sono piuttosto ritrovata nel personaggio di Michelle (escludendo le parti più grottesche e criminose, ovviamente), perchè rappresentava proprio la tipica adolescente del periodo, ossessionata dall’idea di avere tutte le attenzioni su di sè.
La verità dietro alla serie
Vi sorprenderà scoprire che la serie è veramente molto fedele ai fatti.
Michelle e Conrad effettivamente si incontrarono solamente poche volte nel corso dei due anni della loro relazione, scambiandosi migliaia di messaggi e dichiarandosi continuamente il loro amore.
Ed effettivamente Michelle incoraggiò ripetutamente Conrad a compiere il suicidio (si calcola circa quaranta volte nella sua ultima settimana di vita). Tuttavia, la situazione era anche più grave di quanto raccontata: il ragazzo nella realtà tentò il suicidio ben quattro volte dopo separazione dei suoi genitori nel 2011.
E Michelle cercò di dissuadere inizialmente Conrad dal togliersi la vita, incoraggiandolo anche a farsi curare (come lei si stava curando per il disordine alimentare). Tuttavia col tempo cominciò appunto a spingerlo a togliersi la vita, dandogli addirittura idee su come farlo.
Infine, sì, Michelle incoraggiò Conrad a tornare sul camioncino quando il ragazzo mostrò di volersi tirare indietro, anche se questa è un’idea più speculativa: non ci sono registrazioni della telefonata fra i due (che comunque avvenne).
Ma il messaggio incriminato che Michelle inviò alla sua amica (come nella serie) lascia pochi dubbi: