Yellowjackets è una serie tv di genere mistery – fantastico, distribuita inizialmente sul canale statunitense Showtime e poi in Italia su Sky. Un prodotto che non ha avuto particolare eco nel nostro mercato, tanto che io l’ho scoperta davvero per caso, tramite passaparola.
E alla fine mi sono decisa a vederla.
E non sono rimasta delusa.
Di cosa parla Yellowjackets?
Le Yellowjackets sono una giovane squadra di calcio femminile, che parte per un viaggio in aereo per giocare nel campionato. Ma l’aereo precipita e le ragazze si trovano sperdute in una foresta misteriosa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di guardare Yellowjackets?
Sì, ma solo se siete pronti.
Yellowjackets è una di quelle serie basate sullo svelamento di un mistero, con un’alternanza fra presente e passato. Ma è anche un tipo particolare di serie che presenta degli elementi in qualche modo fantastici e orrorifici, ma che sono ben contestualizzati nel contesto realistico della storia.
Se avete visto The Leftovers, capirete di cosa sto parlando.
Se siete patiti per le serie mistery e vi piacciono i misteri con anche elementi apparentemente soprannaturali e inspiegabili, è la serie che fa per voi. Ma siate pronti all’idea che lo svelamento del mistero è ben più lento di quanto ci si potrebbe aspettare, e la serie si concentra maggiormente sulla costruzione dei personaggi.
Partire dal picco…
La genialità di questa serie è il gancio che utilizza per coinvolgere lo spettatore.
Si comincia con un flashforward spalmato all’interno della prima puntata in cui una delle ragazze rimane vittima di una trappola mortale. Nell’inquietante seguito un gruppo di persone mascherate in maniera tribale si nutrono della sua carne durante una sorta di rito cannibale.
Solo sul finale vediamo lo svelamento di una degli individui mascherati. E scopriamo che è Misty, il personaggio che, più andiamo avanti, più è credibile in quelle vesti. Ma il gruppo è composto anche dalle altre ragazze…
E chi si nasconde sotto la maschera?
…proseguire per una storia normale?
Il resto della stagione mantiene una costante tensione, alimentata sia dalla fantastica colonna sonora, sia dal comportamento delle protagoniste da adulte, che mostrano le profonde ferite della loro traumatica esperienza.
E si usa un meccanismo simile da Severance, in cui l’unica fonte di svelamento del mistero non è per qualche motivo disposta a svelarlo. Ed è infatti il caso delle protagoniste, che da una parte non avrebbero motivo di raccontarsi fra loro quello che hanno vissuto, e al contempo (e per ovvi motivi) non hanno desiderio di raccontarlo agli altri.
Altrettanto bene funziona la falsa sicurezza che proviamo durante la stagione su chi sia effettivamente morto, cullandoci nella sciocca certezza che gli unici sopravvissuti siano quelli che vediamo in scena.
Un meccanismo ben oliato, che però scricchiola sul finale.
Un finale non del tutto convincente
Sono rimasta vagamente delusa dalla gestione del finale: non tanto perché il mistero non sia stato totalmente svelato, ma perché le dinamiche del cambiamento delle protagoniste non mi sono sembrate così credibili.
Il punto di svolta sembra di fatto il Dooming, ovvero il ballo della scuola, in cui tutte impazziscono per aver inconsapevolmente ingerito funghetti allucinogeni. Da lì questa esperienza sembra averle cambiate nel profondo, ma sinceramente le loro reazioni non mi sono sembrate credibili, appunto.
Sembra veramente che da un momento all’altro abbiano deciso di diventare aggressive, forse volendosi smarcare a vicenda delle reciproche colpe.
Anche se c’è ancora spazio per essere convincenti.
Cosa succede nel finale di Yellowjackets?
Le rivelazioni del finale in realtà sono molteplici. La più incredibile è proprio il fatto che Lottie sia ancora viva e a capo di unamisteriosa organizzazione che continua il culto cominciato nelle foreste tanti anni prima.
È molto probabile che il seguito dei flashback si concentrerà su come Lottie (?) abbia definitivamente plagiato le menti delle sue compagne, portandole dentro al suo culto cannibale.
Così neanche al massimo della forma è Taissa, che si scopre, come era forse abbastanza prevedibile, esserela lady in the tree, e che abbia fatto cose indicibili sia al figlio sia al loro cane.
La nuova stagione dovrebbe arrivare all’inizio del 2023.
House of the dragon è una serie tv prequel spin-off di Game of Thrones prodotta da HBO. Un prodotto accolto con tanta (anche giusta) diffidenza, dopo il disastro unanimemente riconosciuto del finale della serie madre.
Ma secondo me molti hanno dovuto ricredersi.
Fra l’altro una serie che è uscita in contemporanea con un’altra grande serie fantasy, Rings of power, rappresentandone la perfetta alternativa.
Di cosa parla House of the dragon?
Circa 200 anni prima di Game of thrones, i Targaryendominato la scena politica di Westeros, monopolizzando il Trono di Spade e la conseguente discendenza. Il re in carica è Viserys, uomo pacato e pacifico, che si trova a dover gestire la complicata discendenza con la primogenita, Rhaenyra, mentre il trono è insidiato da ogni parte…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere House of the dragon?
Premetto che sono molto di parte: al di là di tutti i difetti che può avere, è una serie che ho semplicemente adorato.
Ma, parlando più obiettivamente, se vi piace un fantasy più dark, con rimi molto concitati, pochi personaggi protagonisti e una robusta storyline principale, probabilmente vi piacerà. Se al contrario, preferite una serie più corale, con un fantasy più classico e ritmi più compassati, è ora di vedere Rings of Power.
Oppure vedetele entrambe.
Ma sopratutto House of the dragon.
L’ho detto che sono di parte.
Il percorso di Rhaenyra
Rhaenyra è l’indiscussa protagonista della scena, e la sua maturazione è di fatto il perno della narrazione. Nella prima parte della stagione è di fatto una principessa ribelle, del tutto allergica al suo ruolo da donna di corte, che a Westeros significa di fatto supportare la discendenza della propria casata sfornando infinita prole.
E il padre tenta in tutto i modi di domare il suo spirito, ma Rhaenyra è indomabile: nonostante indubbiamente col tempo ritorni sui suoi passi, accetti il matrimonio e le gravidanze, comunque continua ad agire praticamente sempre con la sua testa: con la tresca con Ser Criston Cole e poi con Lord Strong, da cui lo scandalo di corte, e poi il matrimonio con Daemon.
Tuttavia indubbiamente Rhaenyra dimostra col tempo una grande maturità, sopratutto sul finale, quando si trova ad un passo dalla guerra, ma decide di agire con prudenza.
E invece Aemond deve rovinare tutto.
Alicent: lasciarsi trasportare dagli eventi?
Alicent è un altro personaggio che mostra un interessante cambiamento nel tempo, con un’evoluzione del tutto organica. Infatti fin dalla prima scena Alicent è subito raccontata come una giovane donna del tutto ligia al dovere, tanto che accetta in maniera abbastanza obbediente l’invito del padre ad intrattenersi con Viserys dopo la morte della moglie.
Tuttavia già da qui si capisce come Alicent sia una donna che non si appiattisce nel ruolo di arpia e arrampicatrice sociale: non ha mai il ruolo di seduttrice, ma, in un altro contesto, si sarebbe intrattenuta abbastanza felicemente con il suo futuro marito senza neanche essere obbligata.
E così accetta a testa bassa anche il matrimonio, facendosi negli anni avvelenare dal padre, Otto, che la mette più volte in guardia sulla minaccia della successione ai suoi figli e la incoraggia più o meno malignamente a prendersi sempre più spazio a corte per ottenere il trono. E tanto peggio quando si affida alle cure di Larys Strong.
Ed è quasi commovente come fino alla fine e nonostante tutto, Alicent cerca una via pacifica con la vecchia amica…
Viserys: la pace a tutti i costi
Sarebbe riduttivo definire Viserys un inetto, ma indubbiamente è un personaggio che si trova al centro di una situazione che è incapace di gestire con il pugno di ferro, o, meglio, come gli altri si aspetterebbero da lui.
E per certi versi Viserys non è tanto dissimile dalla figlia: la maggior parte delle volte segue la sua testa e non quello che gli dicono gli altri. Anche se alla fine accetta di mettere sulle spalle della figlia il peso del trono, non si piega l’agghiacciante possibilità del matrimonio con la giovanissima Laena, per quanto fosse la cosa migliore da fare per mantenere la solidità della discendenza.
E cosi continua a difendere strenuamente la figlia davanti alle accuse di adulterio, unicamente perché vuole mantenere questa pace impossibile e di fatto fittizia che si è creato intorno. E nonostante tutto riesce ad andarsene in pace, guardando negli occhi la moglie perduta…
Daemon: l’eterna invidia
Daemon è un personaggio per certi versi più fumoso, anche se sembra complessivamente guidato sempre dallo stesso sentimento: l’invidia.
Invidioso prima del fratello e poi della nipote e moglie per la loro ascesa al trono, che non è mai riuscito ad ottenere. Un personaggio che per fortuna non ha cambiamenti da una puntata all’altra: rimane sempre un uomo violento e iroso, che alza le mani contro gli altri, sopratutto gli innocenti, la maggior parte delle volte solo per sfogare la sua rabbia cieca.
E penso infatti che sarà interessante se approfondiranno meglio la relazione con Rhaenyra, che è molto meno intima e felice di quanto lei stessa potesse pensare. Perché è così evidente come Daemon viva per attaccar briga e mettersi a capo di battaglie non tanto perché ci crede, ma perché deve dimostrare qualcosa a se stesso.
E a questo aggiungiamo la sua possibile impotenza che viene più volte suggerita, sembra il classico caso del personaggio maschile che si sente demascolinizzato e risponde con violenza.
Ma, come tutti i personaggi di questa serie, non è mai appiattito su un solo concetto.
Un finale perfetto
Per quanto il finale non sia forse stato l’incredibile, fantastica e scioccante conclusione che alcuni si aspettavano, io l’ho trovato perfetto così.
Nell’ultima puntata Rhaenyra dimostra la sua maturità politica, evitando di correre subito alle armi nonostante ce ne fossero tutti i motivi. In generale la protagonista sembra aver in parte interiorizzare quello che il padre aveva cercato di portate avanti fino alla fine della sua vita.
Ed è altrettanto interessante che l’effettivo casus belli, o la famosa goccia che fra traboccare il vaso, sia di fatto un incidente che però non sarà mai dimostrabile, anzi indubbiamente nessuno crederà mai veramente che Aemond non abbia ucciso volutamente Lucerys.
E questa è effettivamente la scintilla che fa scoppiare la guerra, in maniera anche storicamente credibile e interessantissima.
Il femminile tridimensionale
Un elemento che ho decisamente preferito rispetto a Rings of Power è la gestione dei personaggi femminili.
Se infatti in Rings of Power in generale tutti i personaggi sono un po’ appiattiti dagli schemi narrativi in cui sono incasellati, House of the dragon sceglie di rinunciare a a qualsiasi tipo di veridicità storica e mette al centro l’emotività dei personaggi.
E così ne derivano personaggi femminili molto tridimensionali, che prendono però strade diverse: Rhaenyra che è appunto la ragazza ribelle, che però non è banalizzata né all’essere edgy senza motivo né nell’essere una Mary Sue altrettanto senza motivo.
Invece la sua ribellione è ben contestualizzata all’interno di contesto politico complesso ed intricato.
Il momento migliore al riguardo è la scena del suo debutto sessuale con Ser Criston: una sequenza diretta con particolare eleganza, che mette al centro il piacere e il desiderio femminile, senza drammatizzare il momento.
Meglio di cosi difficilmente avrebbero potuto farlo.
Una strada diversa quella di Alicent, che racconta invece un femminile plagiato dal maschile, a cui il personaggio si sottomette più o meno obbedientemente. Il momento cardine è quando Alicent deve concedersi in tarda notte al marito, con un montaggio alternato che mette in luce il grande divario fra lei e Rhaenyra.
Verso il finale della stagione mostra un minimo di ribellione e rivalsa, ma in realtà da questo punto di vista secondo me Alicent ha ancora molto da raccontare.
Il problema dei time skip
Personalmente non ho trovato particolarmente problematici i time skip, che nella serie abbondano. Ho preferito per certi versi che la vicenda politica non avvenisse in un lasso di tempo ristretto, ma che si prolungasse più realisticamente all’interno di periodo più ampio.
Per quanto riguarda i personaggi, è tutto un altro discorso.
Sulle prime i rapporti e caratteri dei personaggi non mi avevano dato particolare fastidio, anche perché banalmente mi emozionavo a vedere i nuovi casting ogni puntata. Tuttavia, alla lunga mi sono resa conto dei problemi. I rapporti fra i personaggi forse non sono così tanto problematici, perché sforzandosi un attimo si possono capire, meno credibile è il fatto che alcuni non invecchino di un giorno in vent’anni di narrazione.
Se per esempio fate un confronto fra il Daemon della prima puntata e quello dell’ultima, non sembra passato neanche un anno. E con tutto che nel finale c’è stato un lavoro oculato sulla fotografia per dare al suo volto delle luci più drammatiche che lo fanno apparire più invecchiato. Tuttavia nel complesso il lavoro da questo punto di vista non è stato particolarmente intelligente.
L’eccesso
Per quanto sia stata una delle più strenue difenditrici della serie, è innegabile che ci siano dei momenti in cui la abbiano portato alcuni elementi all’eccesso.
Per quanto mi abbia emozionato la scena, è stato al limite del trash il momento in cui Daemon decapitata Vaemond nell’ottava puntata, complice anche una CGI veramente scarsa. Forse anche peggio l’ormai famosa scena della nona puntata in cui Larys si masturba guardando i piedi di Alicent. Infatti, per quando il concetto fosse anche interessante nel complesso della caratterizzazione di Alicent, la messa in scena è stata veramente di cattivo gusto.
In generale la combo fra CGI scarsa, che purtroppo è un problema abbastanza evidente di tutte le puntate, e il tentativo di sconvolgere lo spettatore è stato in più momenti una combo micidiale.
Tuttavia in generale non sto dalla parte di chi in generale condanna in toto il cosiddetto wow-effect: per me, semplicemente, dipende da come viene fatto.
E raramente ho visto momenti in questa serie che mi hanno davvero dato fastidio.
Dahmer è una serie Netflix creata da Ryan Murphy e basata sulle vicende riguardanti gli omicidi di Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il Mostro di Milwaukee.
Una serie arrivata al momento giusto, quello di massima popolarità del true crime, portando per altro in scena un racconto molto coinvolgente, sopratutto dal punto di vista emotivo.
E per molti questo è stato un problema.
Di cosa parla Dahmer?
Come detto, la serie si concentra sulla storia di Jeffrey Dahmer, coprendo complessivamente tutta la sua vita, dell’infanzia fino alla sua morte nel 1994.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dahmer?
Sì, ma se avete molto tempo.
Ci ho messo davvero troppo tempo a finire questa serie, che in effetti è troppo lunga, con dieci puntate che durano anche un’ora.
Tuttavia non si può negare che come serie possa diventare anche davvero coinvolgente, considerando che appunto punta molto sul lato emotivo della vicenda. Insomma, se siete appassionati di true crime o se anche solo vi interessano le serie riguardanti i serial killer, è molto probabile che vi piacerà.
Considerando che fra l’altro come serie può avvalersi di due nomi di alto livello: anzitutto Ryan Murphy, che già si era occupato di prodotti simili con American Crime Story. E poi l’ottimo Evan Peters, attore che ultimamente sembra in grande rampa di lancio.
E finalmente, vorrei dire.
C’è vita oltre a Dahmer?
La durata della serie è, a mio parere, veramente eccessiva.
Non dico tanto per la durata degli episodi singoli, ma proprio per la durata complessiva: si ha come la sensazione che gli autori volessero raccontare tutto della storia di Dahmer, anche i lati meno scontati come la storia delle famiglie e vittime, del padre del protagonista, e via dicendo.
E, se per certe parti ho anche apprezzato una maggiore tridimensionalità del racconto, per altre avrei invece preferito che si facesse una maggiore selezione del materiale. Per esempio avrei lasciato fuori parte della storia di Glenda, la vicina, e così anche le puntate dedicate al processo e al carcere.
Insomma, per me sarebbe stato meglio raccontare le parti veramente interessanti della storia, senza sentirsi in dovere di raccontare ogni cosa.
La gestione della trama
Qualche dubbio ho avuto anche sulla gestione della trama: invece di seguire gli eventi in ordine cronologico, si fanno un po’ di salti in avanti e indietro.
E, per quanto abbia apprezzato generalmente la scelta di non portare un racconto eccessivamente lineare, d’altra parte non ho trovato del tutto organico e coerente la scelta di quali scene mostrare e dell’andamento complessivo della narrazione.
Avrei quindi preferito una gestione della trama più pensata da questo punto di vista
L’aggancio emotivo
Come detto, la serie non si limita a raccontare banalmente la storia di Jeffrey Dahmer, ma utilizza diversi agganci emotivi.
Anzitutto il racconto per cui Jeffrey fu un ragazzo e un bambino abbandonato a se stesso, che ebbe molte difficoltà ad affrontare la sua omosessualità, che poi usò come arma dietro la quale nascondersi anche per sfuggire al controllo della polizia.
Non di meno l’apparente e profondo pentimento e in generale la consapevolezza dei suoi comportamenti distruttivi, che lo portarono a rovinare ogni sua interazione sociale e momento felice che avrebbero potuto salvarlo, per così dire.
Ma l’aggancio emotivo più forte, e con il quale mi sono sentita personalmente emotivamente coinvolta, è la storia del padre. Il padre di Dahmer nella serie è sempre preoccupato per il figlio e per tutta la sua vita cerca di salvarlo, per così dire, e nonostante tutto lo perdona e lo aiuta, fino alla fine.
Davvero particolare che questo ruolo tipicamente materno sia affidato alla figura del padre.
Ma è giusto empatizzare con un serial killer?
È giusto empatizzare con un serial killer?
La questione è molto spinosa e può essere ampliata anche oltre a questo discorso specifico.
Tuttavia, parlando esclusivamente di questa serie, bisogna fare la distinzione fra feticizzazione e umanizzazionedel serial killer.
La feticizzazione o romanticizzazione di un criminale è una tendenza che esiste da quando esistono i serial killer, come si vede anche nella serie. E si parla di esaltare e in qualche modo giustificare le azioni criminali di un criminale, arrivando ad idolatrarlo. Ed è una tendenza esistente tutt’oggi, che questa serie ha solo riportato al centro della discussione.
E non credo di dover dire io quanto sia sbagliato.
Al contrario, il tentativo di umanizzare e spiegare le azioni di un serial killer o un criminale in generale non solo è una cosa giusta da fare, ma anche dovuta. Questo perché, proprio per auto-tutelarci come società, non ci guadagnamo niente a bollare stupidamente queste persone come le mele marce della società. È invece molto più utile capire da dove derivino determinati comportamenti, spesso legati a contesti familiari difficili o emarginazione sociale in genere.
Non sbattere quindi il mostro in prima pagina, ma intervenire per tempo prima che effettivamente lo diventi.
La verità dietro alla serie
La serie è per certi versi molto fedele agli effettivi eventi riguardanti la storia di Dahmer, pur con significative differenze.
La prima grande differenza è che Glenda, la vicina di casa, non era in effetti la sua vicina di casa, ma abitava nel palazzo vicino. Tuttavia effettivamente chiamò più volte la polizia e la storia del quattordicenne che tentò di sfuggire a Dahmer è del tutto vera. E comunque i vicini di Dahmer si lamentarono più volte del rumore e della puzza che veniva dal suo appartamento
La scena già iconica in cui Dahmer fa vedere l’Esorcista III alle sue vittime è altresì vera, come confermato nella sua intervista in Inside Edition, ma al contrario Dahmer non bevve il sangue rubato dalla clinica in cui lavorava come si vede nella serie. E il bar dove adescava le sua vittime è un bar veramente esistente, anche se ad oggi ha chiuso.
Il tentativo del padre di salvare il figlio quando fu arrestato per violenza sessuale nel 1990 è effettivamente avvenuto: il padre scrisse una lettera al giudice per chiedere che suo foglio fosse curato. Molte delle scene che riguardano il padre sono prese proprio dal libro citato nella serie, A Father’s Story, per cui Lionel Dahmer venne effettivamente portato in tribunale da due delle famiglie delle vittime (e non tutte come nella serie).
È il momento di Evan Peters
Evan Peters è un attore rimasto purtroppo ancora poco conosciuto nel panorama televisivo e cinematografico.
Se avete seguito la saga degli X-Men dal 2000 in poi, indubbiamente lo ricorderete come Peter Maximoff, AKA Quicksilver. E purtroppo ha fatto poco altro di interessante, a parte una parte incredibilmente memorabile in American Animals (2018).
Si era anche fatto conoscere per un’altra serie di Ryan Murphy, American Horror Story, per poi essere scelto dallo stesso come protagonista di Dahmer, che gli sta assicurando un successo incredibile a livello internazionale.
E forse è anche ora che la sua bravura venga riconosciuta.
Rings of power è una serie tv Prime Video, racconto prequel de Il Signore degli Anelli.
La produzione seriale più costosa mai realizzata finora, con un budget di quasi 60 milioni di dollari a puntata: per fare un confronto, una puntata di House of the dragoncosta circa 20 milioni ad episodio.
La narrazione è basata sui libri della trilogia classica ed una serie di appendici, scatenando le ire di molti puristi tolkieniani per la mancata fedeltà massima all’opera. Personalmente, non facendo parte di nessuno schieramento e considerandomi più una casual fan de Il Signore degli Anelli, ho potuto giudicare la serie a mente fredda.
E mi trovo in una posizione di mezzo.
Di cosa parla Rings of power?
La storia segue le vicende di diversi personaggi, generalmente tutte collegate all’avventura dell’elfa Galadriel, impegnata nella sua missione di vita di ritrovare Sauron e sconfiggerlo definitivamente…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Rings of power?
Dipende.
In generale se siete dei tolkieniani duri e puri, e volete vedere una riproposizione dell’opera di riferimento, lasciate stare: non hanno i diritti per trasporre il materiale effettivo, è inutile accanirsi.
Se invece, come me, siete più dei casual fan della saga cinematografica, potrebbe essere un prodotto per i vostri gusti. Ma dipende anche da che tipo di serie state cercando: se vi piacciono le serie fantasy classiche (high-fantasy), con racconti corali, tantissimi personaggi e ritmi molto compassati, è assolutamente la serie per voi.
Se invece vi piace un fantasy più dark, con ritmi più incalzanti e che si basa più su intrighi politici che sull’elemento fantastico, avete sbagliato prodotto: è ora di cominciare House of the Dragon.
La gestione della storia
Per quanto non abbia personalmente apprezzato la gestione della trama, che ho trovato per i miei gusti troppo dispersiva, nel complesso può essere considerata un buon esempio di unprologo molto prolisso. La parte più attiva della vicenda è di fatto quella di Galadriel, ma in generale anche quella è solo la prima tappa di una storia ben più ampia.
Indubbiamente, la serie è stata un incontro di storie dal sapore molto diverso, così da riuscire a soddisfare i più diversi palati. E per me è stato decisamente rassicurante che, anche nella maniera più aspettata, tutte le storie si sono ritrovate collegate ad una più ampia linea narrativa.
Ad eccezione dei guizzi delle ultime puntate, la gestione della trama presenta ritmi davvero lenti e compassati, per nulla nelle mie corde. Tuttavia, è anche giusto che esista questo tipo di fantasy in linea con le tematiche e i ritmi tolkieniani.
Non possiamo tutti essere fan dei ritmi sfrenati di House of the dragons, insomma.
Galadriel è un personaggio problematico?
Lasciando da parte le polemiche riguardanti la fedeltà del personaggio all’opera originale, il problema principale di Galadriel è la sua poca amabilità. E questo può essere una cosa positiva e negativa allo stesso tempo.
Negativa perché la sua caratterizzazione sembra scivolare in una tendenza piuttosto diffusa del panorama televisivo e cinematografico di non riuscire a raccontare personaggi femminili forti senza renderli al contempo anche sgradevoli. L’esempio principe è, ovviamente, Captain Marvel, personaggio proprio appiattito su questo concetto.
Tuttavia questo aspetto è anche positivo perché anche se la sua caratterizzazione non è particolarmente ampia, ma del tutto funzionale e organica al suo personaggio. Anzitutto perché è un’elfa, razza che, fuori e dentro le opere di Tolkien, è sempre caratterizzata da una certa alterigia.
In secondo luogo, è una donna testarda e tenace, che risulta in parte sgradevole agli stessi altri personaggi. Tuttavia, se non avesse questo carattere, non avrebbe mai convinto Númenor a salvare in parte le Southlands, non avrebbe scoperto Sauron e soprattutto avrebbe permesso allo stesso di impossessarsi degli Anelli del Potere.
La questione di Sauron
Per quanto riguarda il personaggio di Sauron, gli autori hanno tentato un bell’azzardo, visto che in parte doveva inventare di sana pianta. Ovviamente consapevoli che sarebbe diventata la pietra dello scandalo, hanno giocato tantissimo su questo personaggio, disseminando indizi e false piste.
E io ho abboccato praticamente a tutto.
E va bene così.
Da un certo punto di vista ero molto convinta della scelta di rivelare che lo Straniero fosse Sauron, ma è anche vero che così si sarebbe entrati in un cortocircuito troppo complicato da gestire. D’altra parte, scegliere un attore con la faccia così pulita e amabile per questo ruolo e con un plot twist così potente, è stato molto azzeccato.
Aspetto i tolkieniani che vengano qui a spiegarmi perché è stata la scelta più sbagliata e inorganica mai presa, perché non ho dubbi che lo sia.
Ma, di nuovo, a me va bene così.
L’identità dello Straniero
Un importante mistero della serie era la vera identità dello Straniero. Per quanto la gestione della storyline dei Pelopiedi mi sia piaciuta a tratti, la sua conclusione è stata una delle mie preferite, perché getta le basi per una storyline che mi torna a far sognare il viaggio di Frodo e Sam.
E lasciatemi sognare.
Per il resto, come già detto, ho trovato molto credibile la rivelazione della sua identità. Per quanto ho visto molte persone arrovellarsi su diverse teorie, io credo che sia più scontato e digeribile per il pubblico di riferimento dire che si tratta o di Gandalf o di Saruman, indipendentemente da che questo sia coerente col canone o meno.
E, visto che Gandalf è uno dei personaggi più amati della saga (ed infatti è il mio preferito), ho idea che quella sia la direzione che prenderanno.
L’aspetto estetico
L’aspetto estetico della serie è stato un po‘ il mio cruccio.
Non sempre, ma troppo spesso di sicuro, mi sono trovata a non credere a quello che vedevo in scena, nel senso che vedevo gli attori che recitavano in scena, e non i loro personaggi. Tanto più che anche quando questi dovrebbero essere più sporchi e naturali, come i Pelopiedi, li ho trovati invece molto finti.
Ma questo è un problema tutto mio, in quanto questa è l’estetica di Tolkien, tanto più pompata con un budget stellare. Perché sarebbe del tutto ingiusto dire che i costumi e gli oggetti di scena non siano stati al limite della perfezione, per quelli che erano gli intenti.
Andrò avanti a vedere Rings of power?
Per quanto abbia avuto un dubbio in certi momenti, soprattutto nella prima parte, questo finale mi ha davvero convinto a proseguire con la serie.
Con tutto che non mi ha entusiasmato, non mi sento ancora di gettare la spugna, perché come mi piace il Signore degli Anelli, spero che più nel lungo periodo anche Rings of power riesca effettivamente a convincermi.
Scenes from a marriage, in Italia noto come Scene da un matrimonio, è una serie remake dell’omonimo prodotto diretto da Ingmar Bergman nel 1973. In questo caso alla regia della serie troviamo Hagai Levi, già autore di diverse serie tv, e che sceglie come protagonisti gli straordinari Oscar Isaac e Jessica Chastain.
Una serie davvero particolare, un dramma da camera non sicuramente per tutti i palati, ma che può essere molto più appassionante di quanto ci si potrebbe aspettare…
Di cosa parla Scenes from a marriage?
Mira e Jonathan sono sposati da dieci anni e, nonostante tutto, sembrano una coppia molto affiatata. Tuttavia basta poco perché la loro relazione vada in crisi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perché vedere Scenes from a marriage
Come anticipato, Scenes from a marriage non è una serie per tutti. In primo luogo perché è un dramma da camera da manuale (vedi sotto), e in secundis perché presenta dei trigger alert abbastanza pesanti. In particolare potrebbe farvi stare davvero male se siete appena usciti da una relazione o se avete dei genitori divorziati, e nessuna delle due cose l’avete mai vissuta bene.
Una serie che scava profondamente nella psicologia dei personaggi, nelle crepe della loro relazione con delle dinamiche drammaticamente realistiche e credibili, che non si perde nel facile dramma ma in una tragedia profonda e sentita.
Ma insomma, cos’è un dramma da camera?
Cos’è un dramma da camera?
Il dramma da camera è un tecnica teatrale e cinematografica che nasce in Germania negli Anni Venti. In parole povere, indica un tipo di rappresentazione teatrale e cinematografica in cui si privilegia il mettere in scena le emozioni dei personaggi, scegliendo ambienti intimi e raccolti, e dando grande importanza alla espressività e alle sfumature di significato dei loro dialoghi.
In Scenes from a marriage questa rappresentazione si vede in tutta la sua potenza: l’ambiente è quasi per tutto il tempo uno: la loro casa. La regia indugia moltissimo sui volti dei protagonisti, passando da mezzi primi piani e primi piani stretti.
La sceneggiatura è praticamente del tutto incentrata sul dialogo fra i due protagonisti, che dialogano incessantemente per ore ed ore, in cui la situazione può cambiare davvero in un attimo.
Un amore sofferto
Questa serie per certi versi mi ha ricordato Eternal sunshine of the spotless mind (2004), ma con la grande differenza che Scenes from a marriage ha un taglio molto più drammatico e malinconico. La storia di Mira e Jonathan è fatta di fughe e ritorni, in primo luogo da parte di Mira. E, sopratutto, non porta assolutamente ad un finale consolatorio.
Per tutta la serie si ha la sensazione che, come in un certo senso è anche raccontato, i due siano fondamentalmente impossibilitata a dividersi, ma continuano a incontrarsi e scontrarsi per anni.
Jonathan, il marito perfetto Scenes from a Marriage
Jonathan è il personaggio forse più drammatico fra i due: fin da subito viene raccontato come il marito buono, perfetto, che si sforza continuamente di esserlo, illudendosi che questo basti per mantenere la solidità della loro relazione. Inoltre, è genuinamente ignaro delle crepe della loro relazione.
Ed è straziante vedere e sentir raccontare come ha affrontato l’abbandono della moglie, con un taglio tragicamente realistico e credibile. Ed è Jonathan quello nella relazione che mette (apparentemente) un punto fermo al loro matrimonio, quando Mira cerca inutilmente di tornare da lui.
Come inizialmente sembrava lui il personaggio pieno di fiducia per la riuscita della loro relazione, alla fine si mostra invece rassegnato a doverla portare avanti in segreto, andando contro al matrimonio a cui sembra essersi semplicemente adattato.
Mira, la donna in fuga in Scenes from a Marriage
Mira è la scheggia impazzita che si scontra con l’apparente tranquillità di Jonathan. Fin dalla prima inquadratura mostra di sentirsi fuori posto, e a posteriori capiamo che c’era qualcosa che stava crescendo dentro di lei. E non positivamente.
Ed è la prima che scappa, a parole dopo un’attenta riflessione, ma in realtà tutto in lei racconta altro: la fretta, l’ansia di essere fermata, la totale incapacità di comunicare veramente. Quando racconta a Jonathan di volerlo lasciare glielo dice quasi con tranquillità, come se di fatto fosse tutto deciso e non ci fosse più nulla da fare.
Ma è la stessa Mira che poi torna indietro, e più di una volta: a differenza di quanto racconta, non è affatto decisa nel lasciare definitivamente il marito. Insiste più e più volte nell’intrufolarsi nuovamente nella sua vita, cercando anche di portare una qualche forma di controllo: sul fumo, sull’arredamento, su quello che non è più suo marito.
E alla fine anche lei sembra fra i due quella meno arresa, quella che in realtà è tornata felicemente sui suoi passi. Insomma, se avesse potuto, probabilmente si sarebbe di nuovo sposata con Jonathan.
Un finale soddisfacente?
Il finale della serie è un non finale e si mischia con l’elemento meta narrativo: la scena narrativa si chiude con la coppia affettuosamente abbracciata nel letto, in un parziale e apparente ricongiungimento, che però sembra ormai possibile.
Poi ci spostiamo fuori scena, chiudendo la serie con la cornice narrativa che aveva aperto tutte le altre puntate: l’apparente dietro le quinte. E i due attori sembrano affettuosamente affiatati, si dirigono verso i camerini abbracciati e si scambiano un rapido bacio prima di dividersi.
Only murders in the building è una serie tv Disney+ di genere mistery e comico, con protagonisti Selena Gomez, Steve Martin e Martin Short. Un prodotto arrivato ad oggi alla seconda stagione e già confermato per una terza.
Una serie che è un mio cruccio: la guardo con piacere, anche molto coinvolta, ne riconosco i vari e innegabili pregi…ma alla fine non rimango con un buon sapore in bocca.
Tuttavia, è una serie che dovete vedere per buonissimi motivi.
Di cosa parla Only murders in the building?
A seguito di un misterioso omicidio nel loro palazzo, un improbabile terzetto di protagonisti si ritrova non solo ad indagare il caso, ma anche a creare un podcast di successo.
Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:
Perché dovreste vedere assolutamente Only murders in the building
Only murders in the building è una serie davvero imperdibile per molti motivi: l’ottima regia e messa in scena, una costruzione molto sapiente sia del mistero che dei personaggi in scena, colpi di scena ben calibrati e un intrigo per nulla scontato.
Tanti elementi derivati da una particolare cura per la totale partecipazione degli attori protagonisti nella produzione: sono tutti produttori esecutivi della serie, che significa che hanno ampissima voce in capitolo nella sua realizzazione, e Steve Martin è anche co-creatore.
Vi consiglio solo di non guardare le due stagioni una di fila all’altra: rendono molto meglio se guardate con una minima distanza l’una dall’altra.
Saper gestire un mistero
Se avete una discreta conoscenza delle serie di genere mistery sapete che una gestione ottimale del mistero non è per nulla scontata, anzi. Ci sono non pochi casi di serie tv che costruiscono un mistero che sulle prime appare anche molto intrigante, ma che poi, arrivati alle battute finali, appare totalmente sconclusionato.
Non è il caso di Only murders in the building il quale, sopratutto per questa seconda stagione, mi ha ricordato Pretty little liars ai tempi d’oro. Un paragone infelice, ma vale come esempio vincente: alcune dinamiche sono simili, ma, come Pretty little liars è uno inconcludente accumulo di indizi e intrighi, Only murders in the building si dimostra ben più efficace e narrativamente organico.
Infatti sia nella prima che nella seconda stagione vediamo in scena una progressiva e intelligente rivelazione del mistero, con un colpo di scena finale in entrambe le stagioni che è ben costruito fin dall’inizio. In particolare, nella seconda stagione si è scelto di giocare con i falsi colpi di scena per un’intera scena.
Unica pecca di questa scelta: se si è abbastanza esperti di questo genere di prodotti, appare del tutto evidente come gli stessi colpi di scena siano fintianche prima che siano spiegati.
Pochi tocchi di sitcom
Un elemento davvero peculiare di questa serie è il suo elemento sitcom: come proprio di questo genere, ci sono non pochi momenti nella prima stagione in cui vengono raccontati dei brevi archi narrativi che servono a far conoscere meglio i personaggi.
Degli archi narrativi che di fatto non torneranno più e che non hanno una vera influenza sulla trama generale, ma che di fatto la arricchiscono non poco. Alcuni fra l’altro anche molto toccanti come la relazione fra Howard ed il suo vicino di casa cominciata durante il blackout.
Un prodotto davvero inclusivo
Un aspetto non da poco della serie è la sua capacità di portare un tipo di inclusività per nulla scontata e autentica. In non pochi prodotti in ambito seriale e cinematografico prodotti e autori poco capaci banalizzano drammaticamente questo aspetto, tramite tokenism e girl power molto cheap.
Al contrario in Only murders in the building troviamo due figure raramente ben rappresentate.
Anzitutto Theo, interpretato da un attore effettivamente ragazzo sordo, James Caverly. La differenza da altri prodotti non è un semplice token, ma un personaggio estremamente importante che ha una delle puntate più belle dell’intera serie.
Infatti nella prima stagione la puntata The Boy From 6B, riesce a raccontare con ottimi tocchi di regia il punto di vista reale del personaggio. E il tema viene ripreso anche in maniera non poco interessante anche nella seconda stagione.
Only murders in the building
Un altro tipo di rappresentazione che sta prendendo piede in questo periodo è quello della donna incinta smarcata dall’idea di maternità rassicurante. In questa stagione viene infatti introdotta Nina, che si rivela un personaggio molto tridimensionale: sulle prime appare un’arpia approfittatrice, poi dimostra il suo lato più umano, in particolare nella puntata del blackout.
Allo stesso modo ho particolarmente apprezzato che, quando Nina sta per partorire, la persona che interviene immediatamente non è il personaggio femminile spinto da un improbabile senso materno, ma Charles, con fra l’altro anche una simpatica motivazione alle spalle.
…e allora perché non mi piace cosi tanto Only murders in the building?
Nonostante tutti questi elementi indubbiamente positivi che mi hanno anche intrattenuto, ci sono due elementi che mi hanno impedito di essere davvero appassionata a questa serie.
Il primo e più importante è che, per motivi non del tutto chiari neanche a me, non riesco ad essere coinvolta coi protagonisti, nonostante, almeno per quanto riguarda Charles e Oliver, gli attori già di per sè sono molto affabili.
Ma nulla, non è mai scattata la scintilla.
La cosa peggiora per Mabel, il personaggio di Selena Gomez: nonostante si cerchi indubbiamente di raccontare un personaggio quando più tridimensionale, a pelle non mi è mai piaciuta, anzi l’ho trovata discretamente sgradevole.
Infine, e forse è anche l’aspetto che trovo più difettoso della serie, nonostante il finale sia ben costruito, non mi lascia mai un buon sapore in bocca. Il più delle volte mi dimentico tutto il contesto e non lo trovo alla fine così avvincente e interessante.
E a questo proposito…
L’omicidio alla fine della stagione è ridondante?
Come abbiamo visto recentemente per la saga di Una notte da leoni, non è per nulla facile gestire un brand quando lo stesso è basato su un elemento forte, ma non facilmente replicabile.
Nel caso di Only murders in the building perché alla lunga diventa poco credibile che questi personaggi siano coinvolti in un numero potenzialmente indefinito di omicidi.
Come, con mente più matura, abbiamo rivalutato (si fa per dire), la credibilità della storia della Signora in giallo e la sua scia di omicidi, cosi alla lunga questo elemento della serie potrebbe cominciare a stancare e a non essere così d’impatto.
Già con questo finale di stagione sono rimasta poco convinta.
The girl from Plainville è una serie tv di produzione Hulu (la succursale adulta di Disney+) con protagonista Elle Fanning. Un prodotto che si propone di raccontare un caso di cronaca nera avvenuto fra il 2012 e il 2020: una giovane ragazza spinse il suo fidanzato, tramite messaggi, a suicidarsi.
Un racconto non poco grottesco, che riesce a centrare alcuni elementi, come l’ottimo casting della protagonista, ma pecca drammaticamente in altri. Ma, come altri prodotti di cui abbiamo parlato in tempi recenti, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi, e anche molto.
Di cosa parla The girl from plainville?
Come anticipato The girl from plainville racconta la storia veramente accaduta di due giovani adolescenti che avevano un’assidua relazione tramite messaggio. La loro storia prese però una piega drammatica quando la ragazza cominciò a spingere il suo fidanzato, già di per sè depresso, a togliersi la vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perchè guardare The girl from plainville
Complessivamente, The girl of plainville non è una serie che considero imperdibile, ma neanche che mi sentirei di sconsigliare in toto. A mio parere è una serie difettosa in molte parti, ma che non mi ha coinvolto anche perchè evidentemente non è una serie per me.
Gli episodi sono infatti principalmente concentrati sul raccontare il personaggio di Michelle e la sua storia con Conrad, quindi la parte mistery e legal drama è abbastanza ridotta. Tuttavia, ci sono due ottimi motivi per cui mi sento di consigliare questa serie.
Anzitutto, se vi piacciono le storie true crime, anche parecchio grottesche e sui generis come in questo caso, più di genere thriller psicologicoche mistery, ovvero andando a scavare le motivazioni dietro a certi atti così incomprensibili.
In secondo luogo, ve la consiglio se eravate adolescenti fra il 2010 e il 2015, o se siete patiti per quel periodo: la serie lo racconta veramente bene, sopratutto tramite la protagonista, che è proprio la ragazza tumbrl per eccellenza.
E ho detto tutto.
Quando Elle Fanning non basta
Partiamo dalla cosa migliore della serie: Elle Fanning è un’attrice che apprezzo fin dai suoi esordi in Super 8(2008), e in questa serie conferma tutte le sue ottime capacità recitative. La vediamo infatti destreggiarsi in un personaggio molto ambiguo, che passa dall’essere la spensierata ragazza di Tumblr appunto, a diventare minacciosa, quasi paurosa.
E Elle Fanning è riuscita a calarsi perfettamente nella parte, nonostante talvolta il suo personaggio sia molto banalizzato. E questo è uno dei problemi principali della serie: il racconto riguardo Michelle sembra molto tridimensionale all’inizio, ma poi si perde sui punti fondamentali.
Infatti, quando si arriva al momento focale in cui Michelle effettivamente spinge Conrad al suicidio, non mi è parso per nulla costruito adegutamente, anzi mi è sembrato abbastanza improvviso. E, più in generale, non adeguatamente esplorato come, secondo me, avrebbero dovuto fare.
L’impossibile racconto
L’ostacolo principale della pellicola era riuscire a raccontare la comunicazione fra i protagonisti, avvenuta quasi totalmente tramite messaggio. Per questo si è scelto, invece che mostrare le chat in continuazione, cosa che sarebbe in effetti stata alla lunga ridondante, di mettere in scena le conversazioni come se i protagonisti fossero nella stessa stanza.
Tuttavia questa scelta non è molto indovinata, anzi tende ad essere confondente: in più di un caso non riesce a rendere il come i due protagonisti fossero distanti e si stessero parlando per chat, realtà dove la comunicazione è totalmente diversa.
Insomma, un buon tentativo, ma non la scelta migliore.
Raccontare un’era
Uno degli elementi parzialmente vincenti della serie è la sua capacità di raccontare un’era del tutto particolare come è stata quella fra il 2010 e il 2015. E, incredibilmente, riesce a cogliere tutti gli elementi che la definivano: Glee, i libri di John Green (ad un certo punto Michelle sta guardando Colpa delle stelle) e questa cultura dell’apparire a tutti i costi.
Eravamo agli albori dei social network, quando tutto sembrava ancora nuovo e strano, e la voglia di essere presenti e notati era tanta. Non a caso mi sono piuttosto ritrovata nel personaggio di Michelle (escludendo le parti più grottesche e criminose, ovviamente), perchè rappresentava proprio la tipica adolescente del periodo, ossessionata dall’idea di avere tutte le attenzioni su di sè.
La verità dietro alla serie
Vi sorprenderà scoprire che la serie è veramente molto fedele ai fatti.
Michelle e Conrad effettivamente si incontrarono solamente poche volte nel corso dei due anni della loro relazione, scambiandosi migliaia di messaggi e dichiarandosi continuamente il loro amore.
Ed effettivamente Michelle incoraggiò ripetutamente Conrad a compiere il suicidio (si calcola circa quaranta volte nella sua ultima settimana di vita). Tuttavia, la situazione era anche più grave di quanto raccontata: il ragazzo nella realtà tentò il suicidio ben quattro volte dopo separazione dei suoi genitori nel 2011.
E Michelle cercò di dissuadere inizialmente Conrad dal togliersi la vita, incoraggiandolo anche a farsi curare (come lei si stava curando per il disordine alimentare). Tuttavia col tempo cominciò appunto a spingerlo a togliersi la vita, dandogli addirittura idee su come farlo.
Infine, sì, Michelle incoraggiò Conrad a tornare sul camioncino quando il ragazzo mostrò di volersi tirare indietro, anche se questa è un’idea più speculativa: non ci sono registrazioni della telefonata fra i due (che comunque avvenne).
Ma il messaggio incriminato che Michelle inviò alla sua amica (come nella serie) lascia pochi dubbi:
Si è conclusa l’ultima stagione diBetter Call Saul, la serie AMC (in Italia distribuita da Netflix) che racconta la nascita del personaggio di Saul Goodman, l’eccentrico avvocato che appare dalla terza stagione di Breaking Bad.
Si tratta quindi di uno spin-off, del migliore spin-off degli ultimi dieci anni (come minimo) e una delle migliori serie della storia della televisione, oltre che, per certi versi, anche più matura della serie madre. Se non sapete come approcciarvi alla serie, continuate a leggere. Se volete la recensione completa, passate direttamente alla parte spoiler.
Di cosa parla Better Call Saul?
Jimmy McGill è un ottimo avvocato, che però ha cominciato dal niente e deve occuparsi solo dei peggiori casi al tribunale pubblico. Ma lui ambisce molto di più, anche andandosi ad invischiare in giri poco puliti…
Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:
Si può guardare Better Call Saul senza aver visto Breaking Bad?
In linea teorica, essendo un prequel, si potrebbe fare. Tuttavia avrebbe lo stesso senso di vedere la Trilogia Prequel di Star Wars prima della Trilogia Originale: nessuno.
Better Call Saul è una serie concepita proprio per chiudere il cerchio su alcune questioni di Breaking Bad, quindi vive in funzione di essa. Vederla senza avere in mente il punto di arrivo toglie tutto il fascino.
Quindi, anche se è un percorso lungo, cominciate da Breaking Bad e approcciatevi secondo i giusti tempi alla visione di Better Call Saul.
Vi assicuro che non ve ne pentirete.
Vale la pena di vedere Better Call Saul?
Better Call Saul è una serie imperdibile per diversi motivi: anzitutto, è una narrazione complessivamente organica, pur con qualche deviazione dal percorso principale. Guardando Better Call Saul infatti si vede l’evoluzione perfettamente bilanciata di tutti i personaggi in scena.
Oltre a questo, i personaggi sono incredibili per più ragioni, anzitutto perché sono drammaticamente grigi: non ci sono spiccatamente positivi o spiccatamente negativi, ma figure multiformi, tormentate da drammi e tensioni che si evolvono perfettamente nel tempo.
Infine, come se tutto questo non bastasse, la regia e la scrittura sono ad un livello superbo. Una delle migliori serie mai prodotte, per l’appunto.
Il dramma di Saul in Better Call Saul
La figura di Saul si articola in diverse personalità e alter-ego che raccontano i diversi momenti della sua vita, ma tutte con elementi comuni.
Slipping Jimmy
La prima forma di Saul è Slippin Jimmy, un ragazzo che, fin da giovanissimo, era attirato verso le truffe e l’inganno del prossimo. In particolare il tutto si traduce in piccole e abbastanza patetiche truffe di strada con il suo amico Marco.
La fine di Slippin Jimmy è segnata da Chuck, che porta il fratello, dopo tanti anni che si era allontanato dalla famiglia, fuori di galera. Il tutto a patto che abbandoni quelle vesti e che metta la testa a posto.
Questo è il primo passo verso la transizione verso Jimmy McGill.
La chiusura definitiva avviene però solo più avanti, quando Jimmy torna per qualche tempo a fare truffe con Marco, fino alla morte dello stesso.
Jimmy McGill
Il concetto intorno a cui gira un po’ tutta la narrazione è di come Jimmy sia fin dall’inizio portato verso fare le cose in grande. Inizialmente era solo un innocuo impiegato nell’azienda del fratello, che si occupava della posta.
In questa fase conosce Kim, al tempo già considerata come una brillante promessa per la HHM, e che è in parte l’artefice del suo cambiamento. L’inizio di tutto avviene infatti in un giorno qualsiasi, quando Jimmy si sente inadeguato davanti a Kim e Chuck che parlano di un caso.
E così decide di avvicinarsi alla professione di avvocato, tenendolo però nascosto a tutti.
Jimmy McGill
Dopo essere riuscito a raggiungere il suo obiettivo, ma senza essere accolto dentro alla HHM come sperava, comincia da zero presso il tribunale pubblico.
Jimmy incarna in questo senso veramente il sogno americano: un uomo lasciato a sé stesso, che nessuno aiuta e che, se non fosse così caparbio e pronto tutto, non arriverebbe da nessuna parte.
La figura di Jimmy McGill è la parte onesta di Saul: sicuramente non lavora sempre in favore della verità e della giustizia, ma nel complesso è portato verso la via più onesta e giusta.
Tuttavia, alla prova dei fatti, Jimmy non può essere veramente quella persona (almeno fino alla fine).
In questo senso è emblematico, all’inizio della seconda stagione, l’assunzione per Davis & Main: fin da subito Jimmy capisce che quel posto è perfetto, ma non adatto a lui.
E lo capisce per un evento banale, ma piuttosto eloquente, quando non riesce a trovare un posto per il thermos regalatogli da Kim nella nuova macchina aziendale, tanto da arrivare a rompere il vano per farcela stare.
E, lentamente, capisce che questa vita non è quella che più gli si addice.
Saul Goodman
Saul Goodman è l’alter ego più importante di Jimmy, sempre presente e sotterraneo, pronto ad emergere.
Lo vediamo già quando promuove con degli spot televisivi il suo servizio di legge per gli anziani, nel suo modo di trattare i clienti, e, infine, quando deve scegliersi un nome per vendere gli spazi pubblicitari nella terza stagione.
It’s all good man.
Saul è una figura vincente, potente e infallibile, che non si ferma davanti a nulla.
Passo passo
Il passaggio verso Saul è definito da più momenti emblematici, cominciando da quando, nella quarta stagione, dopo aver perso la carica di avvocato, passa un anno a lavorare in un negozio di cellulari.
E da subito trova un modo per sfruttare la situazione, creando questa realtà fittizia in cui ci ascoltano e in cui un cellulare usa e getta e non tracciabile, ovvero il suo prodotto, è assolutamente indispensabile.
La situazione è perfettamente definita quando Jimmy recupera la carica di avvocato, e decide di operare sotto un altro nome: Saul Goodman.
E si presenta subito ai clienti peggiori nel migliore dei modi: in una fiera di paese facendo un’offerta sui telefoni e offrendo sconti come un qualunque commerciante da strapazzo.
Ma questo è solo un avvocatucolo che aiuta i disperati, mentre per diventare davvero Saul Goodman e lavorare con i peggiori criminali bisogna aspettare la quinta stagione, quando Lalo gli chiede di intervenire per difendere Krazy8.
Il passo successivo non può essere che diventare avvocato di Lalo, il suo mulo, attraversare il deserto ed essere coinvolto in una sparatoria. Ma alla fine accettando tutto: il caldo, bere la propria urina, il viaggio sfiancante.
Il momento definitivo per Saul Goodman è l’abbandono di Kim: come dopo la morte di Chuck, Jimmy non ha più nessun motivo per essere Jimmy McGill.
Gene
Saul è un personaggio eccessivo, quasi autodistruttivo.
E infatti, anche se non del tutto per colpa sua, Jimmy è costretto, alla fine di Breaking Bad, ad abbandonare le vesti di Saul. E allora diventa un mediocre commesso ad un negozio di Cinnamon Rolls in un centro commerciale, sotto al nome di Gene Taković.
La regia delle puntate del presente è davvero singolare: scene del tutto sui toni del bianco e nero, con musica malinconica, con cui solitamente si ambienterebbe una scena del passato.
Un forte contrasto con la fotografia generale della serie, che invece ha colori molto pieni. Quindi il presente è la realtà svuotata e senza significato, mentre il passato, nonostante tutte le vicissitudini anche terribili, era quello che valeva la pena vivere.
Il personaggio di Gene ci viene veramente rivelato nell’ultima stagione, quando si trova costretto ad architettare il furto al centro commerciale. Una macchinazione lunga e complessa, degna di Saul, che ha successo solo per la sua grande capacità di immedesimarsi in un personaggio.
E di raccontare, alla fine, la sua storia.
E da lì, ricomincia in parte ad essere di nuovo Saul.
Il rapporto con Chuck in Better Call Saul
Dipendenza
Il personaggio di Jimmy è fin da subito raccontato anche attraverso il suo rapporto con Chuck, il fratello che si crede malato e che Jimmy sa benissimo che non lo è.
Inizialmente, dopo essersi legato con il fratello la promessa di prendere una strada migliore per la sua vita, è incredibilmente timoroso nel deluderlo, nonostante Chuck dimostri più volte di non saper riconoscere le capacità del fratello.
Così, ad esempio, nella prima stagione, quando diventa per caso un eroe locale, lo nasconde consapevolmente a Chuck, per paura che il fratello possa pensare che di nuovo voglia mettersi in affari poco puliti.
E il suo desiderio di farsi riconoscere da Chuck ha radici molto lontane.
Dopo la parentesi disastrosa di Slippin Jimmy, Jimmy si rimette in piedi, lavora sodo e acquisisce il titolo di avvocato. Tuttavia questo non gli viene veramente riconosciuto né da Chuck né dalla HHM.
Si nota molto bene nella scena della prima stagione, quando Jimmy gli annuncia la sua carica di avvocato appena acquisita: Chuck gli rivolge dei sorrisi poco sinceri e stentati, e non lo sostiene davvero come dovrebbe.
Il primo momento di rottura arriva sempre durante il primo ciclo di episodi, quando Chuck ammette chiaramente e candidamente che il fratello non è un vero avvocato, e che la sua formazione non vale nulla.
Conflitto
Il conflitto si accentua ancora di più con la nuova assunzione di Jimmy per Davis & Main nella seconda stagione.
Tuttavia fin da subito si conferma la bellezza del personaggio di Chuck: non banalmente cattivo, ma incredibilmente tridimensionale, che dal suo punto di vista ha tutte le buone ragioni del modo.
Per tutta la serie Chuck considera Jimmy ancora come Slippin Jimmy, non riesce a superare questa figura. Uno dei momenti più evidenti è l’incontro di Jimmy con Rebecca, la moglie di Chuck.
In quell’occasione il fratello si preoccupa in maniera anche piuttosto antipatica che Jimmy possa essere fastidioso per Rebecca, e, quando invece si rivela una piacevole compagnia, si dimostra infastidito.
Altro momento chiave che racconta le origini del conflitto è il racconto di Chuck a Kim riguardo al padre: un uomo specchiato, che aveva messo tutto sé stesso nel suo piccolo negozio, che si era visto costretto a chiudere per i ripetuti furtarelli di Jimmy.
E, come racconta Chuck, il padre non ci voleva credere, ed era morto poco dopo, con grandissimo dispiacere di Jimmy.
Quindi Jimmy per lui non è una persona cattiva, ma non può evitare di fare cose sbagliate e danneggiare gli altri. E sono sempre gli altri a rimetterci. Oltre a questo, Chuck non può sopportare che Jimmy sia sempre perdonato da tutti.
Questo antagonismo, neanche troppo sotterraneo, sfocia nella vendetta.
Vendetta
La spirale distruttiva del loro rapporto nasce dalla follia di Jimmy di far credere a Mesa Verde che Chuck sia stato incapace di redigere i giusti documenti, facendo un banalissimo errore di inversione di due cifre dell’indirizzo della sede.
Questo piano fa uscire di testa Chuck, che fa di tutto per dimostrare la sua innocenza, arrivando a registrare la confessione di Jimmy.
E questo, apparentemente per dare una lezione al fratello, in realtà volendo ossessivamente dimostrarne l’inferiorità. Questo porta alla denuncia con cui Jimmy rischia di perdere il ruolo di avvocato e al terribile processo in cui Jimmy umilia e rivela come in realtà Chuck non sia veramente malato, almeno non di quello che racconta.
Da qui Jimmy, pur avendo una rivincita temporanea, non riesce a rimettersi in piedi e per questo si prende la rivincita decisiva: finge di dispiacersi per il fratello davanti all’impiegata attonita dell’assicurazione, svelando la situazione mentale del fratello e i grossi errori che sta facendo, cosa che la HHM aveva cercato di nascondere.
In questo momento Chuck sembra sicuro di sé stesso, ma in realtà è solamente apparenza.
Basta infatti arrivare al punto di chiudere con Howard, danneggiarlo economicamente con l’assicurazione, minacciare di denunciarlo e, infine di non accettare il tentativo di ricongiungimento con Jimmy, anzi sminuire del tutto il loro rapporto.
E, infine, perdere totalmente il controllo e togliersi la vita.
Rinascita?
Dopo la sua morte, Jimmy resta in quasi completo silenzio per un’intera puntata.
Sa in cuor suo che il motivo per cui Chuck ha perso infine la testa è colpa sua. Ma, appena Howard racconta i suoi sensi di colpa, invece che ammettere quello che ha fatto, si sente immediatamente liberato dalle sue colpe. E torna alla vita.
La freddezza di Jimmy nei confronti del fratello si vede soprattutto quando legge con grande serenità la lettera di addio di Chuck, mentre Kim si commuove.
Ma l’ombra di Chuck lo perseguita: quando dovrebbe riconquistare il ruolo di avvocato, fa un discorso veramente bello e sentito alla commissione. Tuttavia non nomina Chuck e, per questo, viene considerato poco sincero.
Allora Jimmy, pur di riconquistare il suo ruolo, sfrutta la commozione che tante bugie ben piazzare posso creare e rende protagonista Chuck del suo monologo. E infine riesce a tornare avvocato, ma in realtà diventa di più: si registra come Saul Goodman.
Finalmente si è liberato di Chuck.
It’s all good man!
Il rapporto con Kim in Better Call Saul
L’influenza (positiva) di Kim
Il personaggio di Kim è la controparte morale di Jimmy, il punto di riferimento positivo che riporta il personaggio sui suoi passi e verso le migliori decisioni.
La relazione con Kim si forma molto lentamente: si capisce fin da subito che i due hanno una relazione sessuale, ma poco altro. Sicuramente erano grandi amici da tempo, come si vede con i flashback di quando lavoravano insieme alla HHM.
Per tutto il tempo Kim è consapevole del personaggio di Jimmy e, non a caso, all’inizio della seconda stagione, cerca di mettere un paletto alla loro relazione: niente più attività illegali.
Tuttavia fin da subito Jimmy, per tutta la questione di Sandpiper e la class action, si dimostra ben poco trasparente, andando incontro ad azioni che potrebbero costargli il titolo di avvocato. E, continuamente, Kim va in suo soccorso, salvandolo da ogni problema.
Definirsi tramite Kim
Così Jimmy scegliere di rinunciare anche a guadagni facili e sicuri per aiutare Kim: così rinuncia ad aiutare i Kettleman nelle loro azioni legali per fare in modo che Kim ne risulti vincente, dopo che aveva quasi perso la faccia per questo cliente.
Così aiuta Kim nella pazzia che porterà al processo contro Chuck, facendo credere che il fratello abbia fatto un errore banalissimo come sbagliare l’indirizzo della sede, di nuovo per mettere in buona luce Kim.
La trasformazione verso Saul è definita tanto più Jimmy si allontana da Kim e le nasconde le sue azioni. In particolare nella terza stagione quando Jimmy porta avanti la sua attività poco trasparenti vendendo cellulari usa e getta, i due sembrano vivere due vite separate.
Addirittura Kim, per evitare di dover tornare sui suoi passi e lavorare con Jimmy, si rivolge a Schwaikart per coprire Mesa Verde e lo spaccia come se glielo avessero offerto loro.
La parte oscura di Kim
Il personaggio di Kim è peggiorato da Jimmy, e lei stessa si lascia trascinare nelle truffe e nei loro inganni.
Queste scappatelle sembrano l’unico momento di eccitazione per Kim, nonostante rappresentino la sua parte più negativa, da cui sembra sempre cercare di distaccarsi. Ma, come ammette lei stessa nell’ultima stagione, era troppo divertente.
Questa situazione inizialmente è anche innocua, limitata a piccole truffe con avventori dei bar, come puro divertimento senza conseguenze. Ma la situazione diventa incontrollabile con il piano per screditare Howard, che è Kim stessa a suggerire alla fine della quinta stagione.
Il piano è folle, arzigogolato, ma progettato e portato avanti con grande intensità da Kim stessa, che addirittura rinuncia ad un importantissimo appuntamento lavorativo per poter portare a termine efficacemente il piano, diventato quasi un’ossessione.
Quando Kim si distacca da questa parte più oscura di sé stessa, si rende conto che tutto è fuori controllo. Così, quando cerca di far quadrare la relazione e sposare Jimmy, con un tentativo disperato di far quadrare la situazione.
Infatti, appena Jimmy comincia a dirle la verità e lei prova ad opporsi, si rende conto di non avere comunque nessun potere su di lui e sulle sue scelte.
Dopo Kim
L’abbandono di Kim è l’ultimo momento del passaggio a Saul Goodman.
Un’ellissi temporale improvvisa, ma forse dovuta, che ci lascia senza parole. E vediamo Saul che è davvero Saul, in una casa incredibilmente cheap, un atteggiamento e una presenza scenica che lo rende quasi una macchietta di un truffatore di terza categoria.
Ed è praticamente quello che abbiamo visto in Breakin Bad.
Solo che ora sappiamo tutto il dramma che c’è dietro. Ed è ancora più devastante per l’atteggiamento davvero meschino che Saul ha nei confronti di Kim: sia nella scena dove firmano le carte del divorzio, sia quando la chiama nel presente e comincia ad attaccarla verbalmente.
Jimmy, senza Kim, è un uomo totalmente perso.
Il personaggio di Kim
Farsi da soli (per bene)
Come Jimmy, anche Kim è una donna che si è fatta da sola.
Da anni sotto l’egida della HHM, deve pagare con i soldi e con il tempo la sua possibilità di fare carriera. Non a caso nei flashback la si vede lavorare nel seminterrato e insieme a Jimmy.
Infatti negli Stati Uniti la cosiddetta law school è frequentabile solo dopo l’università, già di per sé molto costosa. E per questo ci si fa aiutare da firme importanti per la parte di studio con l’idea di poter poi fare carriera.
Il primo momento importante avviene alla fine della seconda stagione, quando Kim riesce finalmente a mettersi in proprio con Jimmy, prendendosi sulle spalle tutto il peso del caso di Mesa Verde.
Un peso abbastanza terribile, ancora più appesantito dalle azioni di Jimmy: per quanto il trucco folle dello scambio di numeri nell’indirizzo di Mesa Verde le permetta di ottenere il cliente, proprio per questo Kim diviene ossessionata per la minima virgola.
Kim è apparentemente inarrestabile e raggiunge il suo apice quando sceglie di accettare un altro cliente oltre a Mesa Verde, in realtà solo per dimostrare ad Howard, oltre che a sé stessa, di saper fare tutto.
Da qui si innesca un climax delirante, che raggiunge l’apice con l’improvviso e inaspettato incidente d’auto.
Trovare la propria strada
Il momento successivo con cui Kim cerca di essere felice è quando decide di dedicarsi alle cause pro bono.
Col tempo il lavoro per la banca diventa sempre più un obbligo che un piacere, tanto che Kim, pur di salvare l’uomo che Mesa Verde cerca di sfrattare dalla sua casa, va contro il suo cliente e complotta con Jimmy per mettergli i bastoni fra le ruote.
Il momento finale è il distacco definitivo da Mesa Verde, per dedicarsi definitivamente alle cause pro bono. Questa situazione di apparente felicità è totalmente guastata dal suo cercare di stare dietro a Jimmy e alle sue pazzie, con il climax, appunto, rappresentato dal piano ai danni di Howard.
E il punto più basso è proprio al funerale della loro vittima: se guardate il dialogo fra lei e la vedova di Howard, noterete il gesto che fa Kim con la mano prima di inventare la peggiore calunnia che poteva inventarsi: è il gesto tipico di Saul Goodman.
A quel punto Kim capisce di aver davvero dato il peggio di sé, e finalmente parla a cuore aperto.
E scappa.
Reinventarsi
La conclusione della storia di Kim è complessivamente positiva e di fatto analoga al percorso che abbiamo visto nel resto della stagione.
Kim deve distaccarsi dalla sua vecchia vita, è obbligata ad un lavoro ed a delle frequentazioni che in maniera evidente non sono alla sua altezza e non la soddisfano.
Cerca parzialmente di riabilitarsi portando la sua confessione riguardo alla vicenda di Howard alla polizia. Ma in realtà questa stessa si rivela fondamentalmente inutile, perché probabilmente non porterà ad una vera punizione.
E trova infine una realizzazione proprio in pro-bono, ma in forma diversa: un’associazione per aiutare le donne vittime di violenza, una buonissima causa dove può finalmente ritrovare sé stessa, pur dopo aver perso tutto.
Il personaggio di Mike in Better Call Saul
Gli inizi
Mike inizialmente appare come il tenace e silenzioso operaio del parcheggio, ma noi da Breaking Bad sappiamo di che personaggio si tratta.
Cominciano a vedere la sua storia solamente a metà della prima stagione: in un commissariato totalmente corrotto, il figlio Matt non volevo farsi coinvolgere nel giro di mazzette e viene, per questo, ucciso.
E la storia di Mike inizia proprio con la sua vendetta per il figlio compianto.
La sua vita criminale vera e propria nasce più per bisogno che per volontà: come potrebbe godersi la pensione, Mike decide invece di aiutare economicamente la famiglia che gli è rimasta, anche se questo significa andarsi a cacciare nuovamente inattività al limite della legalità.
Tuttavia una cosa non può sopportare: uccidere qualcuno, arrivare a quel livello. E infatti nella seconda stagione preferisce fare picchiare a sangue da Tuco piuttosto che ucciderlo.
Una morale di ferro
Solo nella terza stagione Mike viene per la prima volta a contatto con Gus, proprio per la questione di Hector, e diventa direttamente suo dipendente. Questo suo nuovo rapporto, ben più pericoloso che fare il bodyguard per scambi commerciali poco puliti, dovrebbe mettere in discussione la sua moralità.
Ma Mike è un uomo di ghiaccio, indurito dalla vita, che non ha paura di niente, neanche di mettersi contro Gus. Il momento decisivo è la quinta stagione, quando Mike si trova a gestire le teste calde degli operai che dovrebbero costruire il futuro laboratorio di Gus.
Mentre il problema sembrano i ragazzi più giovani che Mike tratta col pugno di ferro, in realtà la mina vagante è Wilmer, il caposquadra. Lo stesso scappa per andare a trovare la moglie, sicuro di poterla passare liscia.
Ma, nonostante Mike cerchi di salvarlo in tutti i modi, non può salvarlo dal giudizio di Gus.
E ed è costretto, contro ogni suo principio, a ucciderlo a sangue freddo.
Howard in Better Call Saul
Un villain…
Howard non è propriamente un villain di Better Call Saul, ma è certamente un antagonista importante per la maggior parte della serie.
Possiamo dire quasi che è un antagonista nella mente di Jimmy, che lo vede come tale e cerca di mettersi in opposizione con lui, prendendo sulle spalle la vendetta insoluta verso il fratello.
Più avanti nella prima stagione scopriamo che l’odio di Jimmy per Howard ha radici più profonde: era stato Howard a dirgli, con assoluta freddezza e mancanza di tatto, che non l’avrebbero assunto per la HHM, nonostante avesse conseguito il titolo di avvocato.
Tuttavia poi veniamo a scoprire che Howard per due volte ha negato il ruolo a Jimmy, ma non per sua volontà, ma su richiesta di Chuck.
E così il personaggio ha una profondità decisamente diversa.
…o la vittima?
In generale, Howard rimane un personaggio di difficile lettura.
Come sembra spietato ed eccessivamente severo per come tratta più volte Kim nelle prime stagioni, così è lui stesso le rivela che era più severo con lei perché pensava dovesse spingerla a dare il meglio di sé.
Una sorta di antagonista che non sa di essere un antagonista.
E infatti dimostra tutte le sue buone intenzioni quando, con grande ingenuità, offre a Jimmy di tornare da HHM come avvocato. Invece Jimmy lo disprezza, cerca di metterlo in difficoltà, di punirlo, a parole per aver ucciso il fratello, nella realtà come capro espiatorio per la sua frustrazione verso Chuck e la HHM.
E alla fine lo uccide veramente.
L’ascesa di Gus in Better call saul
L’ossessione per Hector
Better Call Saul si propone anche di raccontare l’ascesa di Gus come magnate della droga e come lo vediamo in Breaking Bad. In realtà Gus non lo vediamo di fatto molto diverso o con una vera evoluzione: appare da subito come freddo e calcolatore.
Il primo approccio al personaggio è nella seconda stagione, con il personaggio di Mike: Gus lo incoraggia a danneggiare la catena operativa del suo avversario, ma non vuole che lo uccida.
Solo Gus può uccidere Hector (e viceversa).
E infatti Gus è ossessionato da Hector, tanto che, quando questo è in coma, solo lui vuole decidere come intervenire sulla sua sorte. E, quando vede che effettivamente Hector è ancora sé stesso, solo paralizzato, decide che può essere lasciato così, senza provare a migliorare ulteriormente.
Ma di fatto noi sappiamo che Gus sta sottovalutando Hector, che si rivelerà una minaccia ben maggiore successivamente.
La vera malvagità: Nacho
La vera malvagità del personaggio di Gus si vede nel suo rapporto con Nacho, che comincia inizialmente come personaggio secondarissimo, prima nel ruolo del piccolo pesce che si approfitta della situazione per condurre i suoi affari sottobanco.
Una figura abbastanza imperscrutabile, che si preoccupa profondamente per il padre, arrivando addirittura ad attentare alla vita di Don Hector. Però la cosa gli si rivolta contro, rendendolo di fatto una vittima e una spia per Gus.
E questo non ha alcuna pietà nei suoi confronti, ma lo sfrutta fino all’ultimo, rendendolo il capro espiatoriodietro al quale nascondersi per la questione di Lalo.
Tuttavia Nacho, alla fine, riesce a prendersi la sua rivincita: prima di morire, sputa in faccia ad Hector tutta la verità e si toglie la vita da solo, andandosene secondo le sue regole.
L’ultimo nemico: Lalo Salamanca
L’ultimo nemico che Gus si trova a dover fronteggiare è Lalo, che cerca di riscattare la famiglia Salamanca.
Introdotto improvvisamente alla fine della quarta stagione, diventa da lì fondamentale. Infatti, quando sembrava che i Salamanca, con la dipartita di Hector, fossero diventati insignificanti, arriva Lalo.
Lalo è di fatto un’altra faccia di Gus: apparentemente amichevole e guascone, è in realtà un terribile macchinatore, spietato e vendicativo. Così crea tutto un’astuzia articolata per incastrare e smascherare Gus, portandolo ad un ultimo scontro finale.
Uno scontro che si risolve con la sua morte, ma che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino all’ultimo.
E Lalo se ne va sempre a modo suo: con il sorriso.
Better Call Saul è il giusto finale
Il finale di Better Call Saul racchiude tutta l’essenza del personaggio.
Una carrellata di flashback, con tantissimi riferimenti alle stagioni passate (Jimmy che viene trovato in un cassonetto come nella prima stagione, l’inquadratura sul cartello EXIT mentre parla di Chuck…), che servono a chiudere il cerchio.
In questa puntata Jimmy è semplicemente Jimmy, che si riveste per l’ultima volta del personaggio di Saul: lo ha interpretato per tanti anni ormai, e in ultimo nella sua falsa testimonianza contro Kim.
Ma infine confessa: la prima vera confessione in cui accetta tutto quello che ha fatto, tutti i danni che ha provocato. E si dimostra, per una volta, veramente pentito.
E allora non sceglie più la via facile, non la pena ridotta tramite trucchetti. Al contrario pure tutta la vita in prigione, potendo scontare di meno con la sua buona condotta.
Anatomy of a scandal, noto in Italia come Anatomia di uno scandalo, è una miniserieuscita quest’anno su Netflix.
Un buon prodotto di genere legal drama in cui si parla in maniera interessante e realistica di un caso di violenza sessuale. Non a caso il creatore è lo stesso di serie ottime (e anche dalle dinamiche simili) come The Undoing e Big Little Lies.
Di cosa parla Anatomy of a scandal?
James Whitehouse, un importante parlamentare britannico, viene coinvolto in uno scandalo per una relazione extraconiugale con una sua dipendente. La situazione si complica quando la sua amante lo accusa di stupro, portando il caso in tribunale…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Anatomy of a scandal?
Come anticipato, Anatomy of a scandal è un racconto non poco interessante per il tipo di rappresentazione il più possibile realistica di un caso di violenza sessuale.
Per questo è necessario anche fare un trigger alert, in quanto da questo punto di vista, pur senza esagerare sul dramma, si parla in maniera molto esplicita della questione. E questo potrebbe non essere digeribile per tutti.
Tuttavia se riuscite a sostenere questo tipo di argomenti e vi piacciono i legal drama che tengono col fiato sospeso, non ve la potete perdere.
James: raccontare il mostro
La parte decisamente migliore di questa serie è il tipo di rappresentazione dello stupratore: non un mostro, una persona instabile e cattiva, ma un uomo insospettabile, con la faccia pulita, nonché un marito affettuoso e attento.
E i suoi comportamenti non sono dovuti ad una malvagità intrinseca, ma il prodotto di un tipo di cultura machista in un ambiente protetto e inaccessibile. Quando James dice di non aver stuprato quelle donne, lo crede veramente. Quando dice che lei ha detto di no, ma intendeva sì, lo pensa veramente.
L’idea che una donna possa dirgli di no e non voler veramente avere un rapporto con lui non è contemplata, anche perché sembra non interessarsi per nulla al piacere della sua amante, ma solo al poter sfogare il suo desiderio sessuale nato in momenti di particolare stress emotivo.
E questo, nel contesto in cui è stato cresciuto ed educato, è del tutto normale e accettabile.
Sophie: l’ancella silenziosa
Il percorso di Sophie è altrettanto interessante: inizia come moglie e madre modello, che ha sempre sostenuto suo marito in tutto, e anche con la sindrome della crocerossina. E per la maggior parte del tempo sostiene il marito, anche stressata da tutti dalla necessità di dover perdonare il marito, perché boys will be boys.
Ma il dubbio, l’idea che il marito in realtà non sia così meritevole di essere supportato le cresce dentro per tutta la stagione. E alla fine conclude cercando di mettere il marito almeno davanti ad una parte delle responsabilità che si è rifiutato di affrontare.
Kate: la vittima sepolta
Il grande colpo di scena è la rivelazione della vera identità di Kate: in realtà è Holly Berry, la compagna di corso di Sophie che è stata stuprata da James vent’anni prima.
Una donna che ha portato dentro di sè per tantissimo tempo questo segreto e questo peso, arrivando addirittura a cambiare nome e identità. E combatte ogni giorno per aiutare altre vittime ad ottenere la loro verità. E alla fine, quando almeno sa che un po’ di giustizia è stata fatta, guarda in camera con sguardo sereno.
Una regia fra specchi e montaggio ad arte
La regia di questa serie l’ho trovata veramente incredibile: questo montaggio dinamico, per cui i personaggi emergono dai flashback e tornano nel presente, per raccontare la loro verità.
Così questo uso interessantissimo degli specchi, che mostra la doppiezza sia di Kate che di James, che nascondono ben altro di quello che mostrano. E l’unica invece fuori da questa dinamica è Sophie: l’unica che non ha niente da nascondere.
Perché il finale di Anatomy of a scandal non mi ha convinto
Per quanto abbia apprezzato il fatto che realisticamente James venga assolto dal caso, non mi ha del tutto convinto questo tipo di narrazione del finale. Troppo improvviso per certi versi, come se Sophie, più che mettere il marito davanti ad una responsabilità, lo volesse punire.
E non viene poi mostrato molto, se non Tom e James arrestati, senza aggiungere altro. Una sorta di finale consolatorio, che forse voleva correggere la direzione troppo cruda e drammatica che aveva preso fino a questo punto.
The Boys 3 è la terza stagione di una delle serie di punta di Prime Video. Un prodotto che è partito come fondamentalmente rivoluzionario per il genere, perdendosi già dalla seconda stagione in una scrittura poco indovinata.
Tuttavia al contempo per molti è una semplice serie di intrattenimento spicciolo che riesce a sorprendere e ad emozionare, nonostante tutto. E per certi versi va bene così.
Se sapete nulla di The Boys e non sapete se può fare per voi, continuate a leggere. Altrimenti, passate direttamente alla parte spoilercliccando qui.
Di cosa parla The Boys
In una realtà parallela simile alla nostra, i supereroi sono prodotti di una multinazionale che li sfrutta e li controlla come armi e come prodotti di marketing.
Hughie, un ragazzo normalissimo che non ha mai avuto niente a che fare con i super, viene coinvolto in una inaspettata tragedia. Questo lo porterà a far parte del gruppo dei Boys, che cerca di opporsi ai super e al loro strapotere.
Una tendenza mai sbocciata
Al tempo The Boys sembrava una tendenza nuova per il genere supereroistico. In realtà è stato un fenomeno che è nato e morto con questo prodotto, ritrovando una nuova vita solamente in pochi prodotti di successo come Invincible.
Il problema è probabilmente che questo tipo di narrazione non può essere replicato più di tanto, se non proponendo la stessa medesima storia con qualche piccola differenza.
The Boys può fare per me?
The Boys è una serie famosa per essere molto violenta e splatter, ed effettivamente è così. Tuttavia non vi dovete immaginare una violenza orrorifica, ma, al contrario, molto cartoonesca, allaThe Suicide Squad(2021).
Se riuscite a sopportare questo aspetto, in generale almeno per la prima stagione è stata una serie che ha portato un po’ di freschezza al genere, pur poi perdendosi in se stessa.
Ma se, appunto, vi aspettate un intrattenimento spicciolo e molto spesso caciarone, potrebbe anche piacervi. Insomma, provate e, se vi stufa già alla seconda, mollate: non vi perderete molto.
Di cosa parla The Boys 3?
Il gruppo dei Boys si trova a combattere con un nuovo nemico: Soldier Boy, un vecchio supereroe che è tornato fra loro. Lo stesso però potrebbe essere il modo di uccidere finalmente Homelander…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Vale la pena di vedere The Boys 3?
Dipende: se vi è piaciuta la seconda stagione, soprattutto se vi è piaciuta molto, decisamente sì. La strada presa è sempre quella: un prodotto con poche pretese, che cerca di scioccare ingenuamente lo spettatore con tanti fuochi d’artificio, ma con nessun contenuto rilevante. E piegandosi del tutto alla necessità, appunto, di farci rimanere a bocca aperta.
Se, al contrario, la seconda stagione vi è piaciuta poco e vi siete già stancati di questa serie, non vi dico di non guardarla, ma di avere semplicemente la consapevolezza che non troverete niente di diverso come dinamiche e scrittura.
Il gusto dell’eccesso
Un aspetto che mi ha sinceramente infastidito, soprattutto nelle prime puntate, è stato questa continua insistenza nel voler stupire lo spettatore con violenza gratuita ed altre scene sconvolgenti.
Tuttavia certe scene, soprattutto se reiterate gratuitamente troppe volte in un solo episodio, non mi danno la sensazione di qualcosa di sconvolgente, ma di maldestri tentativi di voler sembrare molto alternativi e senza freni.
Per fortuna dopo la metà della stagione si torna su binari più controllati, riuscendo a farmi sentire effettivamente intrattenuta e stupita da quello che stavo vedendo sullo schermo.
Soldier Boy: un nuovo amore
Per me Solider Boy è stata la parte migliore della stagione. Anzitutto per l’ottima recitazione di Jensen Ackles, che mi ha fatto totalmente innamorare del suo personaggio. Divertente, convincente, poliedrico: un’ottima nuova introduzione che hanno deciso stupidamente di buttare via.
Probabilmente la scelta peggiore di tutta la serie, che ha gettato alle ortiche un personaggio nuovo e da scoprire, che avrebbe potuto davvero portare linfa nuova e nuove trame a The Boys. Invece si è deciso di liberarsene con scelte pigre ed raffazzonate.
Come sempre, niente di nuovo
Una brutta tendenza che ha preso The Boys fin dalla seconda stagione è la sua incapacità di rinnovarsi, continuando a girare in tondo su se stessa, riducendo i villain alle minacce della settimana, senza che portassero effettivamente ad una progressione della trama.
Di fatto, alla fine della stagione ci hanno buttato in faccia tante cose nuove e sconvolgenti, che però non sono state per nulla costruite, ma sono state appunto buttate lì, come sempre, per stupire lo spettatore. E nient’altro.
Perché Ryan ha questo cambio di idee su Homelander? Perché gli altri personaggi sembrano dimenticarsi che l’obbiettivo della stagione era proprio quello di uccidere Homelander? Perché ce ne dovrebbe fregare qualcosa della Neuman, personaggio sostanzialmente inutile per l’intera stagione?
Ma parliamo della Newman.
L’inaspettata inutilità della Neuman
La Neuman doveva essere la grande minaccia della stagione, anche perché ne rappresentava la rivelazione e il cliff-hanger finale dello scorso ciclo di episodi. Invece, tranne per pochi momenti all’inizio e alla fine, è un personaggio fondamentalmente inutile.
Il suo segreto viene rivelato quasi immediatamente, e, lentamente, sparisce di scena. Non sembra più importante, finché non la riportano prepotentemente in scena per la grande sorpresa finale della stagione. E, a questo punto, non ho nessuna aspettativa per il suo personaggio, visto che potrebbero di nuovo dimenticarsene dopo poche puntate.
Il secondario riempitivo
Un altro grande problema della stagione è quello di tenere in caldo una serie di personaggi secondari che non aggiungono niente alla trama, ma che servono solo per raggiungere un certo minutaggio.
Cominciamo ovviamente da Kimiko e Frenchie, che hanno tutta una loro trama a parte che gira in tondo per tornare al punto di partenza. Poi Abisso, che sembrava importante all’inizio della stagione, totalmente inutile. Per non parlare di A-Train, con una trama inutilissima e un’ottima conclusione servita su un piatto d’argento, ma del tutto sprecata.
Insomma, una serie che si conferma per nulla coraggiosa e del tutto incapace di rinnovarsi.