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Psycho – Il potere dello sguardo

Psycho (1960) è il capolavoro della filmografia di Hitchcock, un film talmente iconico che influenzò inevitabilmente il genere di riferimento – l’horror – in maniera inaspettata…

Eppure al tempo, soprattutto dopo l’accoglienza tiepida di Vertigo (1958), la Universal era ben poco propensa ad investire in un altro film troppo serio, tanto che la pellicola venne finanziata dallo stesso Hitchcock, con un budget abbastanza limitato: appena 806 mila dollari – circa 8 milioni oggi.

E, inaspettatamente, fu il più grande successo commerciale del regista: ben 50 milioni di dollari di incasso – circa 500 milioni oggi – permettendo ad Hitchcock di diventare il terzo azionista della Universal.

Di cosa parla Psycho?

Marion Crane è una modesta impiegata, invischiata in una relazione che non sembra darle vere soddisfazioni. Tutto cambia quando si trova fra le mani una cospicua somma di denaro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Psycho?

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Ovviamente, sì.

Anche se devo ammettere che non è il mio titolo preferito di Hitchcock – prediligo comunque La finestra sul cortile (1954) – è la dimostrazione di come anche il film più povero possa regalare un’esperienza indimenticabile se nelle mani del giusto regista.

Non a caso Psycho è indubbiamente il picco artistico più consistente della filmografia del regista britannico, dove sperimenta in maniera davvero audace, al limite dello scioccante, evitando molte delle autocensure che aveva evidentemente applicato nei precedenti film…

Insomma, una pellicola imprescindibile.

Uno sguardo penetrante

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Dopo gli avvincenti titoli di testa, che già ci immergono nelle atmosfere disturbanti della pellicola, lo sguardo dello spettatore penetra immediatamente la scena.

Ed è già voyeuristico.

Veniamo infatti introdotti ad una sequenza davvero scioccante per i canoni dell’epoca: una coppia che dialoga in uno squallido motel dopo un evidente incontro sessuale, entrambi più nudi di quanto fossero mai stati prima di questo momento i personaggi di Hitchcock.

Tuttavia, la scena ha un sapore fortemente malinconico.

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La coppia è evidentemente insoddisfatta, non potendo altro che vivere questi momenti rubati, senza poter raggiungere la tanto agognata – soprattutto da Marion – accettazione sociale: il matrimonio.

Infatti, nonostante l’evidente erotismo della scena, la protagonista si riveste molto più in fretta rispetto al suo compagno, e cerca insistentemente di ricondurre la loro relazione ad una maggiore rispettabilità sociale: il pranzo con la sorella.

Ma è solo un breve sollievo:

Il matrimonio, almeno per ora, non s’ha da fare.

Un crimine di passione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Perché Marion ruba i soldi?

Nonostante la scena iniziale, nonostante il suo sguardo penetrante, Marion viene subito ricondotta ad un modello di donna rispettabile. Rispettabile quanto infelice, come ci racconta il dolore psicosomatico – l’emicrania – causata proprio dallo stress della sua situazione, la sua trappola.

Quindi, una donna da cui non ci si aspetterebbe un’azione simile.

E infatti la scelta di compiere il furto sembra immediata, senza una vera e propria logica: grazie ad una finezza di montaggio, Marion sembra uscire dall’ufficio ed entrare immediatamente nella stanza dove sta preparando la sua fuga.

E, nonostante qualche sguardo che indugia sulla busta dei soldi, il piano viene comunque messo in atto.

Quindi la motivazione è del tutto impulsiva, una scelta improvvisa per trovare il modo di sfuggire dalla sua trappola, che si può sbloccare appunto solo tramite i soldi, visti i numerosi debiti accumulati da Sam.

Tuttavia, da quel momento in poi le azioni di Marion diventano sempre più imprevedibili, sempre più puramente dettate dalla fretta, dall’irrazionalità, da questo slancio per sfuggire – e più in fretta possibile.

E non si può tornare indietro…

L’accompagnamento al patibolo

La figura del poliziotto è più interessante di quanto si possa pensare.

Soprattutto nella sua apparente illogicità.

L’agente è ancora una volta una figura estremamente voyeuristica – nel suo spiare dentro la macchina di Marion e guardarla dormire, violando uno spazio in un certo senso analogo a quello della scena d’apertura.

Ma è anche un personaggio particolarmente minaccioso.

Da notare in particolare l’anomalia nella rappresentazione del loro dialogo: Hitchcock evade il classico campo-controcampo, con solo Marion che guarda effettivamente fuori campo, mentre il poliziotto è rappresentato da una soggettiva anche piuttosto aggressiva di Marion, in particolare con un primissimo piano.

Janet Leigh e il poliziotto in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Così lo sguardo della protagonista cerca di fuggire, mentre il poliziotto la costringe ad essere punita.

Infatti, se il consiglio dell’uomo di dormire in un motel – come poi accadrà – potrebbe sembrare ironico a posteriori, in realtà è proprio indicativo del ruolo di questo personaggio: controllare che Marion non torni indietro, ma che vada dritta verso il patibolo.

Non a caso, il poliziotto resta immobile fino all’ultimo dall’altro lato della strada, osservando la donna che cambia maldestramente l’auto, agendo come spinta propulsiva alla sua fuga, ma senza cercare ulteriormente di parlarle.

E così Marion viene inghiottita dall’oscurità, mentre all’orizzonte i pali della luce sembrano delle croci…

Passaggio di consegne

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Fino a questo momento, lo sguardo era una prerogativa di Marion.

Invece, all’arrivo all’hotel, Marion comincia impacciatamente a firmare il registro, con una soggettiva che sembra unicamente sua. Invece, quando la macchina da presa stacca, notiamo che anche Norman stava osservando il registro mentre la donna firmava.

Al contempo, Marion non si rende conto del pericolo, non si rende conto dell’indecisione dell’uomo nello scegliere la chiave della camera, andando infine a optare per la stanza N.1, proprio dopo aver notato la sua incertezza…

La più classica omosessualità

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

L’atteggiamento di Norman è comunque impacciato, molto timido, facendolo sembrare apparentemente innocuo.

La voce della Madre, invece, è rivelatoria della sua violenza.

La maternità mostrata è una maternità castrante, che rappresenta la visione molto ingenua e semplicistica che sia aveva ancora negli Anni Sessanta dell’omosessualità, derivata anche dalla visione freudiana.

L’omosessualità, secondo la vulgata, era derivata dall’incapacità di superare il rapporto con la madre, una sorta di Complesso di Edipo mancante del confronto con la figura paterna, che porta infine il bambino cresciuto a voler diventare la madre stessa.

Il tutto si concretizza nella frustrazione sessuale e nella misoginia.

Norman spia Marion mentre si cambia – fra l’altro spostando un quadro rappresentante una vicenda biblica estremamente erotica, Susanna e i Vecchioni.

Ma evidentemente questa visione non suscita nell’uomo quelle sensazioni che la madre, la società e lui stesso si aspettano da lui.

Infatti, se consideriamo la Madre come una voce della coscienza per Norman, le sue parole di disprezzo nei confronti di Marion rappresentano in realtà quello che la genitrice – e quindi Norman – vorrebbe che succedesse, ovvero che l’uomo avesse piacere ad intrattenersi con lei.

E da qui nasce la volontà omicida.

La doppia punizione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La morte di Marion è scioccante per più motivi.

Anzitutto, va contro tutte le regole dello star system dell’epoca, ovvero quella di mantenere in scena la diva fino alle battute finali del film. Ma, anche più importante, non scaturisce dalle azioni della protagonista, ma dai complessi dell’antagonista.

Infatti, l’iconica scena della doccia mima quell’incontro sessuale che non si può consumare e, al contempo elimina, distrugge quel corpo che fa scaturire la vergogna sociale di Norman.

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Su un altro livello, è la prima parte della punizione di Marion.

Nonostante la protagonista si sia evidentemente pentita delle sue azioni e abbia tutta l’intenzione di rimediare, ormai è troppo tardi: è diventata un personaggio troppo problematico, una donna troppo fuori dagli schemi per non essere punita.

E tanto più il suo corpo viene raccontato come sporco, un rifiuto: sia per l’audace parallelismo fra il vortice dello scarico della doccia che si dissolve sul suo occhio, sia per la posizione ingombrante del suo cadavere, sia, soprattutto, per la scena successiva.

Una lunga sequenza che racconta la considerazione del personaggio di Marion – per la società e per Norman – ovvero come qualcosa da eliminare, qualcosa che ha lasciato macchie, sporcizia: va tutto pulito.

Un ossessivo Mac Guffin

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

I soldi sono l’ossessione di Psycho.

Il loro arrivo viene raccontato fin dalla prima scena, e, dalla loro apparizione nella sequenza successiva, sono sempre presenti, anche se scompaiono materialmente. E la macchina da presa indugia a più riprese su questo elemento, anche facendosi beffe dello spettatore.

Perché, alla fine, è solo un Mac Guffin.

I soldi fanno solamente partire la vicenda, ma non sono di fatto importanti come lo spettatore pensa e come i personaggi stessi credono: non sono il motivo effettivo per cui Marion muore, né appunto oggetto del desiderio di Norman.

E, infatti, nonostante la macchina da presa inquadri in maniera molto eloquente il giornale mentre Norman sta pulendo, lo stesso viene afferrato solo all’ultimo e gettato come un rifiuto qualunque nel bagagliaio della macchina…

Lo scioglimento del mistero

Vera Miles in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Lo sguardo è ancora protagonista nella seconda parte.

Nonostante infatti i protagonisti della vicenda siano molto più castigati – in particolare Lila, il totale opposto della sorella – il motore della vicenda è il desiderio di guardare, di penetrare la casa di Norman.

E, soprattutto, di vedere il volto di Norma Bates.

Questa ossessione è insistita per tutto il terzo atto, arrivando fino al climax finale, quando ancora una volta lo sguardo del volto ci è negato: la signora Bates è di spalle. E allora sta a Lila mostrare la verità, diventando una screaming queen ante-litteram…

E, ovviamente il film si chiude con l’inquietante sguardo di Norman direttamente in camera, direttamente nei nostri occhi…

Psycho slasher

Dal successo di Psycho nacquero moltissimi emuli, sia con le opere direttamente collegate – come i tre sequel e il remake shot-by-shot omonimo di Brian De Palma nel 1999 – sia con quelle più indirettamente derivative – come il cult American Psycho (2000).

Ma, soprattutto, Psycho è considerato il progenitore del genere slasher.

Questo sottogenere horror ha inizio canonicamente con Halloween (1979), e con gli altri classici degli Anni Settanta – Ottanta, come Non aprite quella porta (1974) e Venerdì 13 (1980), per poi essere parodiato da Scream (1996) negli Anni Novanta.

E la derivazione da Psycho si riscontra in particolare in tre elementi: il killer, l’ambientazione e la Final Girl.

L’antagonista dell’horror non è più il mostro, ma una persona – solitamente un uomo – che ha una storia familiare e personale complessa alle spalle, proprio come Norman.

Tuttavia, dal mostro di Hitchcock non eredita né l’apparente docilità di Anthony Perkins né la componente sessuale, avvicinandosi anzi più alla figura del mostro classico: un personaggio deformato o col volto nascosto, un reietto sociale, una persona che non si può salvare…

La sua arma è solitamente un’arma bianca – un coltello, la motosega, le cesoie – che non raramente si ricollegano anche allo status sociale o ad un particolare trauma infantile dell’antagonista.

L’ambientazione dello slasher è solitamente un luogo non protetto, privo della componente adulta che controlla, e dove i protagonisti – solitamente belli, bianchi e ricchi – possono fare sostanzialmente quello che vogliono.

Tuttavia, proprio l’ambientazione isolata, da cui non si può fuggire, dà un sapore di maggiore inquietudine e orrore alla storia…

Proprio come il Bates Motel.

Psycho final girl

E, soprattutto, la Final Girl.

La final girl è solitamente il personaggio femminile più esplorato, che si distingue dal resto del gruppo anche per una maggiore maturità e intelligenza, che le permette di rimanere viva fino alla fine.

Quindi un personaggio che eredita l’avvenenza di Marion, la risolutezza di Lila, e lo spirito investigativo di Sam.

In ultimo, la final girl ha l’obbiettivo di sconfiggere, ma soprattutto di smascherare il mostro, a volte aiutata da degli aiutanti maschili che prendono le parti del Sam del finale di Psycho, appunto.

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Io ti salverò – In una mente offuscata

Io ti salverò (1945), traduzione piuttosto impropria di Spellbound (Incantato) è uno dei film considerati minori della produzione di Alfred Hitchcock. Ma, nondimeno, una pellicola piuttosto interessante.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,5 milioni di dollari, circa 25 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 6,4 milioni di dollari, circa 106 milioni oggi.

Di cosa parla Io ti salverò?

Costance Petersen lavora in una clinica psichiatrica, proprio quando sembra esserci un cambio di dirigenza piuttosto misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Io ti salverò?

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

In generale, sì.

Anche se Io ti salverò è uno dei titoli minori di Hitchcock, riesce comunque a distinguersi grazie ad un mistero davvero ben costruito e a guizzi registici non indifferenti. Tuttavia, per quanto appassionante, presenta un difetto fondamentale: la storia d’amore.

Per quanto possa sembrare un elemento secondario, per certi versi il film e la sua efficacia sono proprio strozzati dall’ingombrante presenza di questo elemento, che poteva per molti versi essere eliminato e il film avrebbe funzionato comunque.

Vedere per credere.

Un mistero incredibile…

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

La costruzione del mistero è magistrale.

Viene introdotto a piccoli passi, prima lasciando spazio all’introduzione del primo ambiente, poi introducendo il personaggio-fulcro dell’intera narrazione, seminando fin dalla prima scena indizi sulla sua identità.

Una narrazione articolata in picchi, corrispondenti agli scoppi di violenza di John, ogni volta che viene assalito da un frammento di ricordo, che gli fa cambiare bruscamente comportamento.

E lo spettatore si può facilmente identificare nella frustrazione di Costance, la cui testardaggine è di fatto il motore della vicenda, oltre ad essere il personaggio risolutivo della storia.

…strozzato dall’amore

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Forse per rendere più digeribile una vicenda comunque piuttosto angosciante, è stata inserita a forza la storia amorosa.

E il contrasto è quasi opprimente.

Il rapporto romantico fra i due protagonisti, soprattutto più si prosegue con la narrazione, sembra sempre più superfluo, di troppo. Di fatto la storia avrebbe potuto serenamente proseguire anche senza che i due avessero una relazione romantica – e forse in un prodotto uscito oggi questo elemento sarebbe stato gestito del tutto diversamente.

O, ancora meglio, omesso.

Incredibilmente attuale

Ingrid Bergman in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Un aspetto che mi ha veramente sorpreso è la rappresentazione della figura femminile.

Per certi versi, incredibilmente attuale.

Non solo nell’ambiente di lavoro Costance viene continuamente spinta verso il matrimonio, anche a discapito del suo lavoro, ma soprattutto la sequenza delle avance nella hall dell’hotel è incredibilmente esplicita.

La protagonista si trova costantemente assillata da una schiera di uomini che sembrano non poter fare a meno di infastidirla, al punto che la stessa riesce anche a rigirare la situazione a suo favore.

Non saprei dire quali fossero le intenzioni dietro a questa scena – non vorrei cadere nell’errore di leggerla con gli occhi di oggi. Potrebbe essere il primo indizio di personaggi femminili piuttosto atipici per il tempo – come poi in Psycho (1960) – oppure un semplice siparietto comico.

La sequenza onirica

Il punto più alto della pellicola è indubbiamente la sequenza onirica.

Un sogno che dovrebbe essere del tutto rivelatorio sul mistero, ma in realtà è solo un altro enigma da sciogliere, anche più complesso e frustrante: è come se la soluzione fosse sempre davanti agli occhi dei personaggi, ma gli stessi non fossero in grado di coglierla.

Sulle prime pensavo che Hitchcock si fosse ispirato al capolavoro di Dalì, La persistenza della memoria (1932) – quella con gli orologi molli, per intenderci. Invece con mia grande sorpresa ho scoperto che quella scena fu proprio creata sotto la direzione del maestro del mistico.

Un elemento piuttosto interessante della pellicola è l’uso della soggettiva, che sarà poi fondamentale in Psycho.

Tre sequenze uniche nel loro genere, in cui lo spettatore si immerge letteralmente nell’occhio del personaggio.

Quando Constance e John si avvicinano per baciarsi:

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Quando John beve il latte offerto dal professore:

E infine quando Murchison si spara:

Ed è anche più incredibile che questa spettacolare sequenza non sia la chiusura della pellicola, che invece scade ancora nella insostenibile trama romantica….

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Mare of Easttown – Un caso umano?

Mare of Easttown (2021) è una miniserie mistery di produzione HBO con protagonista Kate Winslet, che divenne molto popolare nella stagione dei premi di quell’anno, vincendo quattro Emmy e un Golden Globe.

In Italia è nota col titolo di Omicidio a Easttown ed è disponibile su NOW.

Di cosa parla Mare of Easttown?

Dopo un anno, un misterioso caso di scomparsa di una ragazza nella piccola città di Easttown è ancora irrisolto. E cominciano ad accumularsi altri casi riguardanti altre giovani della comunità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mare of Easttown?

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Sì e no.

Personalmente, da una serie di cui si era parlato così tanto mi aspettavo qualcosa di più: è un prodotto complessivamente buono, con un’ottima Kate Winslet e una costruzione narrativa che riesce a tenere col fiato sospeso fino all’ultimo minuto.

Tuttavia, è anche una serie che si può definire mistery fino ad un certo punto, dal momento che per certi versi il caso diventa un elemento accessorio di una storia, che risulta invece molto più focalizzata sui personaggi.

E certe volte sembra voler prioritizzare l’elemento scioccante rispetto alla coerenza narrativa…

Poco amabile, ma necessaria

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

La protagonista ci viene subito presentata come una donna dura e scorbutica.

Ha un rapporto fortemente antagonistico sia con la madre che con l’ex-marito, proprio quando questo si sta per risposare, oltre ad essere incline alla scorrettezza e alle scorciatoie pur di togliersi da situazioni scomode.

Tuttavia, fin dalla prima puntata cominciamo a conoscerla anche come una detective che regge sulle sue spalle un enorme peso, soprattutto emotivo, fra casi impossibili e situazioni familiari complesse.

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

E col tempo scopriamo anche i traumi del suo passato.

La difficile vita familiare, che avuto il suo picco drammatico con il suicidio del figlio, l’ha fortemente indurita, portandola a gettarsi su casi apparentemente insolvibili, portandola ad un tormento interiore ancora più profondo.

Non mi ha del tutto entusiasmato la gestione del suo personaggio: si punta moltissimo dal punto di vista emotivo sui suoi traumi, ma poi questi vengono risolti fin troppo sbrigativamente, in particolare la morte di Colin.

Inoltre, la sua temporanea sospensione dalla polizia, che poteva portare ad una maggiore riflessione sul personaggio e ad una gestione della trama più interessante, in realtà si rivela fondamentalmente inutile, e anche troppo facilmente risolta.

E non è l’unico caso…

L’effetto Barnaby

Enid Graham in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

In moltissime serie analoghe, i misteri si svolgono in piccole comunità che fino a quel momento non erano mai state toccate da tragedie, anzi dove era improbabile che accadessero.

Tuttavia, la loro forza sta proprio nell’unicità del caso, che porta i detective ad investigare personaggi che appaiono del tutto innocui e insospettabili.

Quest’ultima dinamica non manca all’interno della serie, ma diventa davvero poco credibile quando i membri della comunità non solo hanno comportamenti sospetti, ma commettono pure svariati crimini.

Ruby Cruz in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Di fatto, all’interno di una comunità abbastanza piccola, sembra che ci sia la maggiore concentrazione di criminali che all’interno del resto degli Stati Uniti – e neanche tutti vengono denunciati o puniti.

Insomma, si scade nell’effetto Barnaby: all’interno di una cittadina minuscola accadono tantissimi e improbabili casi di omicidio, e chiunque può essere potenzialmente un criminale.

Tanti casi, nessun caso

Pur di tenere alta la tensione, la serie si perde in tante, troppe storyline.

Già l’idea di mettere due casi in un’unica serie è stato un azzardo, ma lo è tanto più se fondamentalmente i casi vengono risolti e messi nel cassetto, senza che si approfondisca più di tanto il caso stesso o le motivazioni che vi erano dietro.

E scegliere come uno dei colpevoli un personaggio sconosciuto è stato un incredibile autogol che ha vanificato del tutto il mio interesse al riguardo.

Julianne Nicholson in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Anche peggio scegliere di trascinare così lungamente invece l’omicidio di Erin, utilizzando una messinscena che puzzava fin da subito di fake: la scelta di non mostrare la notte dell’omicidio mentre John Ross la raccontava è un indizio fin troppo palese della falsità della sua confessione.

Al contempo ho poco apprezzato la scelta di Ryan come colpevole: un ragazzino di appena tredici anni che fondamentalmente lo spettatore non conosce e che serve solo per costruire l’inaspettato colpo di scena finale, che però appare veramente poco credibile…

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Apple TV+ Avventura Drammatico Mistero Serie tv Thriller

Black Bird – Al lupo, al lupo

Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+ di genere thriller. Come sempre, un ottimo prodotto seriale, che Apple non sembra voler far conoscere al mondo…

Di cosa parla Black Bird?

Jimmy è uno spacciatore arrogante e spocchioso, che viene condannato a 10 anni di galera. E il suo biglietto d’uscita è particolarmente salato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Bird?

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Assolutamente sì.

Black Bird è un thriller piuttosto atipico, che affronta diversi temi, fra cui un problema molto attuale negli Stati Uniti (e non solo): l’incubo delle carceri, che si sente in tutta la sua drammaticità.

E la prigione che diventa lo sfondo claustrofobico di un gioco fra le parti, retto da due attori di grandissimo talento, per una storia che riesce a tenerti col fiato sospeso fino all’ultimo…

Insomma, da recuperare.

La maschera

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Inizialmente Jimmy è un insopportabile arrogante, che pensa di avere sempre una via d’uscita e di poter fregare chiunque con la sua nota furbizia.

E infatti nel carcere, dopo appena sette mesi, lo troviamo perfettamente ambientato, a capo di un discreto, ma funzionante commercio interno.

E questa stessa arroganza la userà anche per smascherare Larry, cercando di prendere il posto del fratello.

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Il protagonista diventa infatti quasi un alter ego di Gary: superiore al fratello per fascino e sfrontatezza, ma comunque profondamente disturbato dal comportamento quasi bestiale che l’uomo rivela col tempo.

E, come alla fine il fratello maggiore di Hall ammette di non avere la forza di controllare Larry per tutta la vita, Jimmy perde del tutto il controllo davanti alla vera natura del suo fratello acquisito.

Non lo faccio per voi

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Se inizialmente lo smascheramento del killer era solo il biglietto di sola andata per uscire di prigione, non ci vuole molto perché i segreti di Larry diventino insostenibili.

Sulle prime Jimmy gioca a fare il gradasso, il cool guy che la sa più lunga di tutti e che sminuisce persino il ragazzo strambo, ma tutto sommato innocuo, accondiscendendo le sue parole per farlo confessare.

Ma quando Larry comincia veramente a rivelare quanto sia visceralmente malvagia e disturbata la sua mente, è il momento in cui Jimmy comincia davvero a crollare.

Taron Egerton e Paul Walter Hauser in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Una faccia di bronzo alla luce del sole, un uomo terrorizzato nel segreto della sua cella.

E allora passa alla mossa finale, la più difficile che permette veramente di far del tutto svelare la natura di Larry: mettere in dubbio la veridicità della sua storia. Un’accusa insostenibile per un individuo che ha inseguito tutta la vita il desiderio di riconoscimento sociale.

E anche se Jimmy prova a portare Larry, in un ultimo, disperato tentativo, sulla giusta via, capisce infine che è impossibile. E allora perde il controllo.

Ma la bestia vera si deve ancora rivelare…

La bestia sopita

Paul Walter Hauser in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Larry è il lupo travestito da agnello.

Apparentemente è un uomo solo, con le sue stramberie e i suoi peculiari comportamenti con le donne – e non solo – ma fondamentalmente innocuo.

In realtà i confini della sua follia non sono neanche concepibili: che la sua violenza per le donne derivi da una personalità multipla, da una concezione dell’altro sesso coltivata negli ambienti sbagliati o dai traumi infantili, non è dato a sapere.

Sappiamo solo che la sua apparente mansuetudine è del tutto ingannevole: Larry è una bestia incontrollabile, solo apparentemente sopita, che non ha il minimo rimorso per la sua condotta, anzi arriva proprio a giustificarla…

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Avventura Avventura Azione Azione Cinecomic Commedia nera Cult rivisti oggi DCU Drammatico Drammatico Fantascienza Fantascienza Film HBO Max Mistero Satira sociale Serie tv Thriller Watchmen

Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

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His Dark Materials – Un bilancio complessivo

His Dark Materials (2019 – 2022) è una serie tv di genere fantasy e avventura tratta dall’omonimo ciclo di romanzi di Philip Pullman, uno dei più importanti autori della letteratura fantastica. La seconda trasposizione, dopo la dimenticabilissima trilogia mancata, iniziata con il film del 2007, La bussola d’oro.

Un esperimento riuscito?

Di cosa parla His Dark Materials?

Ambientato (inizialmente) in un mondo immaginario – che a grandi linee corrisponde ad una Londra di fine Ottocento in stile cyberpunk – la serie segue le avventure della giovane Lyra, una bambina con capacità fuori dal comune…

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Vale pena vedere His Dark Materials?

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

In generale, sì.

Per quanto il mio interesse per la serie sia leggermente calato col passare delle stagioni, rimane comunque un prodotto veramente di alta qualità, a livello di scrittura, effetti speciali e ambientazione. Ma era difficile fare qualcosa di pessimo avendo alla base un’opera così immensa come quella di Pullman, che fra l’altro è produttore esecutivo della serie.

E la sua presenza è stata fondamentale.

In generale se vi piacciono le storie fantasy che si intersecano profondamente con l’elemento fantascientifico, con mondi immensi da scoprire e con poche sbavature, non ve la potete perdere.

Perché il film di His dark Materials era un disastro

Questa sezione è doverosa, perché non vorrei che alcuni spettatori che non hanno conoscenza dell’opera di Pullman, si lascino frenare dalla cattiva qualità di questa pellicola.

I problemi del film erano di fatto due: la mancanza di aderenza all’estetica dell’opera e la scelta della trattazione del materiale.

Anzitutto, l’estetica del film era incredibilmente e inutilmente patinata, in primo luogo facendo sembrare la protagonista, Lyra, che era una ragazzina ribelle e di origini abbastanza umili, una piccola principessa. Senza contare che hanno cercato di puntare su attori di grido come Nicole Kidman e Daniel Craig, una scelta, in ultima analisi, davvero poco indovinata.

Inoltre – e questo quasi per forza di cose – si è tagliato molto dall’opera originale, confezionando un prodotto di meno di due ore, che arriva a spezzare la trama del primo volume.

Per fortuna si sono fermati – e per forza di cose, dato lo scarso successo.

Da qui in poi farò spoiler stagione per stagione.

La prima stagione di His Dark Materials

La prima stagione copre il primo libro, La bussola d’oro (1995).

Una protagonista diversa

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Un elemento che potrebbe un po’ allontanare il pubblico è la poca simpatia di Lyra.

Lyra è in effetti un personaggio complesso, che corrisponde perfettamente alla sua controparte cartacea, e che però è del tutto funzionale alla trama e che la differenzia molto da altre protagoniste femminili di prodotti analoghi.

Non un’insopportabile Mary Sue, ma una protagonista molto determinata, irriverente e coraggiosa, e il cui carattere impetuoso è anche motore delle vicende. E, al contempo, è avventata e per questo spesso fallibile – nella maniera migliore possibile.

Prendersi i propri tempi

Proprio secondo questo stesso ragionamento, Lyra non impara subito ad usare l’Aletiometro (la bussola d’oro), ma ci mette quasi metà della stagione.

Ed è parte di una tendenza complessiva della serie: davanti ad un materiale di base piuttosto corposo, si prende i propri tempi e dedica intere puntate anche ad un unico argomento. È il caso della storia di Iorek e del ritrovamento di Roger, quest’ultimo un primo assaggio che ci porta alla pazzesca penultima puntata, dedicata a Bolvangar.

L’unico momento in cui la serie corre moltissimo è fra la prima e la seconda puntata: nel giro di poco tempo, Lyra salva Lord Asriel e conosce Mrs. Coulter. Non una scelta che mi abbia dato fastidio, anzi piuttosto funzionale a far immergere immediatamente lo spettatore nella storia.

L’indiscutibile superiorità di Mrs. Coulter

Ruth Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Il mio personaggio preferito della stagione è stata indubbiamente Mrs. Coulter, la cui interprete, Ruth Wilson, supera ad ampie falcate l’interpretazione di Nicole Kidman nel film.

Ruth Wilson è proprio il caso di un’attrice che oltre ad essere bravissima, ha proprio il physique du role: appare sempre come una donna infida e macchinatrice, ma anche piuttosto fascinosa.

E infatti è ben rappresentata dal suo daimon: molto bello e affascinante da vedere, ma imprevedibilmente violento e feroce.

E raggiunge il suo apice quando Tony Costa si introduce nella sua casa e lei, con incredibile eleganza e capacità, si comporta esattamente come il suo daimon, a dimostrazione di quanto siano profondamente complementari.

Ampliare il mondo

Il villain principale della stagione – e della storia in generale – è rappresentato dal Magisterium, ben poco esplorato nel film dedicato.

Grave errore, ottimamente superato in questo caso.

Non solo questa diabolica istituzione è raccontata attraverso diversi personaggi, tutti ugualmente iconici e interessanti, ma è anche rappresentato nella sua imponenza e rigidezza attraverso i suoi edifici e interni dalle linee dritte e taglienti, immerse in un bianco e nero molto netto.

Al contempo un altro ampliamento interessante è stato quello di Bulvangar, che va a spiegare un elemento che non era chiarito neanche nel libro: cosa succede ai bambini tagliati?

Il problema di Will

Amir Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

L’unico errore che mi sento di segnalare di questa stagione è la gestione di Will.

Per come sia stato giusto introdurlo più ampiamente già nella prima stagione – nel libro aveva solo un capitolo all’inizio del secondo volume – purtroppo è l’elemento più debole della narrazione.

Durante la visione, come ero incredibilmente coinvolta nella narrazione di una storia dai toni fantastici e avventurosi di Lyra, di contrasto mi interessava davvero poco la vicenda più terrena di Will.

E secondo me non avrebbero neanche dovuto dedicargli tutto quello spazio…

La seconda stagione di His Dark Materials

La seconda stagione copre il secondo libro, La lama sottile (1997).

La materia di partenza

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Il materiale di partenza era piuttosto limitato – un libro di meno di 300 pagine, contro le 350 del primo volume e le 450 del terzo.

Tuttavia, questa stagione è ben riuscita ad ampliare la trama in due direzioni: Lord Boreal e Mary Malone

Per quanto mi sia complessivamente piaciuta, è indubbio che la storyline di Boreal serve principalmente per aggiungere materiale alla trama, anche se comunque offre diversi spunti per ampliare i personaggi, sopratutto Mrs. Coulter.

Altro discorso è Mary Malone.

Simone Kirby in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Mary Malone è uno dei miei personaggi preferiti della serie.

Una bellissima introduzione, che poi prende strade altrettanto interessanti nella stagione successiva e serve a rendere meglio il lato più scientifico della storia, andando a contestualizzare ottimamente il discorso della Polvere nel più vicino concetto della Materia Oscura.

E serve anche per dare maggiore tridimensionalità a Mrs. Coulter.

Ampliare il personaggio

Ruth Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

In questa stagione il personaggio di Marisa Coulter viene ampiamente approfondito, e vengono anche chiariti alcuni dubbi che erano sorti nella prima stagione.

Si capisce definitivamente che questa donna incredibilmente intelligente ha per tutta la vita inseguito il sogno di essere riconosciuta per quello che era, sempre limitata dal suo essere donna in un mondo dominato dal maschile.

E questo ben si capisce con il confronto con Mary Malone, che rappresenta quello che lei non ha mai potuto essere.

Inoltre, si capisce perché riesce a stare così lontana dal suo daimon: una sfida che si è autoimposta per riuscire a mantenere un controllo su se stessa, diventando così invincibile, riuscendo anche a controllare poi gli Spettri.

Troppo?

Dafne Keen in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Come abbiamo detto per la prima stagione, il personaggio di Lyra può risultare facilmente antipatico.

Ho fatto un po’ fatica ad apprezzarla in questo ciclo di episodi, perché, sopratutto nel rapporto con Will, risulta a tratti veramente sgradevole. Tuttavia, si è riuscito anche a bilanciare questo elemento. Infatti, il personaggio viene costantemente punito per la avventatezza.

Al contempo, nonostante volessero imbastire una trama del tipo enemy to lovers con Will, questo aspetto l’ha un po’ guastata.

Delusione?

Amire Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Fin dalla prima stagione, per me era chiarissimo che il padre di Will non era morto e che sarebbe stato importante per la serie.

Infatti gran parte di questa stagione è dedicata al suo personaggio, andando a costruire la suspense per il ricongiungimento con il figlio. Tuttavia, lo stesso è veramente troppo veloce, troppo improvviso e si conclude in un attimo, senza che sia stato minimamente esplorato.

Un elemento che ho sofferto veramente tanto, uno dei pochi momenti in cui la serie corre tantissimo, quando avrei voluto almeno una puntata dedicata…

La terza stagione di His Dark Materials

La terza stagione copre il terzo libro, Il cannocchiale d’ambra (2000).

Il primo impatto

James Mackavoy in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Nonostante la qualità sia rimasta sostanzialmente invariata, la terza stagione è stata quella che ho meno apprezzato.

E in parte è dovuto anche al primo impatto che ho avuto.

Ho visto la prima puntata appena uscita, e mi sono sentita molto delusa perché le ambientazioni e le tecnologie utilizzate mi sembravano davvero fuori luogo rispetto a quello che avevo visto finora.

In realtà, guardando nel complesso gli episodi a posteriori, riconosco che si mantenga un equilibrio e una coerenza per tutto il tempo. Quindi forse, alla lunga, mi ha meno coinvolto anche per lo sviluppo delle vicende – davvero lento – che mi hanno catturato di meno rispetto ai precedenti episodi.

La questione degli angeli

Dopo due stagioni in cui avevo adorato ogni elemento dell’estetica e degli effetti speciali di His Dark Materials, gli angeli non mi hanno del tutto convinto.

Niente da dire per le loro versioni immateriali – davvero suggestive – ma non mi hanno convinto nella loro forma umana, per il modo in cui sono truccati e sopratutto per gli occhi estremamente azzurri, che dovrebbero apparire molto strani, ma che a me sono sembrati solo posticci.

Ancora meno mi ha convinto Metatron: per quanto sia interessante la scelta dell’attore – lo splendido Alex Hassell, visto recentemente in Macbeth (2021) – la cui fisicità piuttosto arcigna crea un interessante contrasto con il suo personaggio, nel complesso anche la sua estetica mi è sembrata molto dozzinale.

Peccato.

La bellezza di Mary

La storyline di Mary Malone, sopratutto sul finale, è stata la mia isola felice.

Il suo personaggio e la sua storia li ho trovati davvero soddisfacenti, anche con il piccolo racconto del suo passato che ha reso molto tridimensionale un personaggio già piacevolissimo.

Oltre a questo, assolutamente adorabile il suo rapporto con i Mulefa, di cui impara passo passo la lingua e che riesce infine a salvare, capendo finalmente la questione che l’aveva assillata per tutta la sua vita.

Unica pecca: avrei voluto che fosse raccontato meglio il cannocchiale d’ambra – che non viene mai chiamato così nella serie, anche perché non assume mai quella forma.

Caos

Ruth Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

La vicenda di Marisa e Asriel mi è piaciuta a tratti.

Secondo me per certi versi si spinge troppo sull’imprevedibilità e le macchinazioni di Marisa, che cambia continuamente fazione e che, alla fine, pensa solamente a se stessa, pur con un colpo di scena finale piuttosto indovinato.

Al contempo, per quanto mi sia piaciuta tutta la storia di Asriel – il grande assente della scorsa stagione – meno mi ha convinto il suo modo di relazionarsi sia con Lyra che con Marisa: per la prima la costruzione del rapporto è davvero monca, per la seconda i suoi continui perdoni sono troppo poco credibili.

E ad Asriel si lega anche il problema di Will.

Il problema di Will (ancora)

Amir Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Come per la prima stagione, Will si è rivelato un personaggio molto difettoso, e per più motivi.

Anzitutto, purtroppo, più si andava avanti con la storia e, sopratutto quando si confrontava con Lyra, si vedeva l’abisso di capacità recitative fra i due attori: come Dafne Keen si dimostra molto capace nonostante la giovane età, Amir Wilson non riesce andare oltre a poche espressioni accigliate.

Ed è un grande problema quando è il coprotagonista, se non il protagonista della scena.

In secondo luogo, si dimostra sostanzialmente inutile al piano di Asriel: fino all’ultimo mi aspettavo che uccidesse l’Autorità e che fosse utile al progetto di distruzione del Regno dei Cieli.

Al contrario, la vittoria contro Metatron è per mano di Asriel e Marisa, senza che Will neanche abbia mai parlato con Asriel.

L’amore non costruito

Dafne Keen e Amir Wilson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Un altro problema che riguarda Will è la costruzione del rapporto con Lyra.

Da certi punti di vista è un problema a metà: il rapporto fra Lyra e Will non è tanto un amore romantico, ma un amore che verte sopratutto sulla maturazione sessuale dei due personaggi, particolarmente quello di Lyra.

Tuttavia, sul finale si spinge molto l’acceleratore sul dramma puramente romantico, volendo creare una conclusione molto lacrimevole. Purtroppo, complice la costruzione poco vincente e le scarse capacità recitative di Amir Wilson, mi ha coinvolto veramente poco.

Per capirci, mi sono commossa molto di più vedendo Mary che scopriva il suo daimon…

Il finale

Dafne Keen e Amir WIlson in una scena di His Dark Materials (2019 - 2022) è una serie tv HBO

Il finale era il mio grande dubbio.

Non ero sicura che volessero ricalcare l’esatto finale del libro – che era davvero tremendo e tristissimo. E invece l’hanno fatto eccome.

Per fortuna hanno avuto quantomeno il buon gusto di ammorbidirlo un minimo, facendo capire che comunque Lyra e Will sono riusciti a vivere delle vite piacevoli e soddisfacenti.

E, sopratutto, hanno tolto la parte più dolorosa del finale: nella serie si dice che comunque Lyra, nel tempo, ha di nuovo imparato a leggere l’Aletiometro. Nel libro lei doveva allenarsi ogni giorno per il resto della sua vita, riuscendo a leggerlo solamente nel giorno della sua morte.

In effetti, veramente troppo.

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Wednesday – La viralità casuale?

Wednesday (2022 – …) è una serie tv di produzione Netflix, creata da Alfred Gough e Miles Millar, le cui prime tre puntate sono state dirette da Tim Burton. Un prodotto che ha avuto un successo incredibile, sopratutto per il balletto di Jenna Ortega, diventato virale su TikTok.

Ma non è solo questo il motivo della sua popolarità.

Di cosa parla Wednesday?

Wednesday Addams, dopo aver tentato di punire i suoi compagni di scuola quasi uccidendoli, viene espulsa dalla scuola e mandata in un collegio per ragazzi speciali – frequentato, fra gli altri, da sirene, lupi mannari e altre creature magiche. Ma un mistero incombe sulla scuola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wednesday?

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Dipende.

Wednesday non è sicuramente la serie che mi aspettavo: credevo che mi sarei trovata davanti ad un Le terrificanti – e lo sono davvero! – avventure di Sabrina 2.0, quindi un prodotto molto focalizzato sulle dinamiche teen e con l’elemento trash strabordante.

Invece la serie si concentra principalmente sulla parte mistery e per questo è complessivamente godibile, andando ad ingranare sopratutto nella seconda parte.

Non manca di alti e bassi, comprese le dinamiche teen – che comunque ci sono – a tratti veramente noiose – e ve lo dice un’appassionata del genere teen drama. Il problema più grande riguarda ovviamente Wednesday: se siete appassionati del personaggio e sopratutto dei film degli Anni Novanta, vi sconsiglio di guardare questa serie.

Potreste arrabbiarvi moltissimo.

Un’ottima interprete…

Jenna Ortega, Luis Guzmán e Catherine Zeta-Jones in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Avevo già ampiamente tessuto le lodi di Jenna Ortega per Scream 5 (2022)

E anche qui non mi ha deluso.

Non era per nulla facile mantenere un certo tipo di espressività e apparente impassibilità per l’intera serie, pur riuscendo al contempo a trasmettere le diverse emozioni per il suo personaggio, sopratutto nei momenti in cui si trova più in difficoltà.

Ma Jenna Ortega non solo ne è perfettamente in grado, ma è anche riuscita a diventare assolutamente iconica nel suo personaggio. Sicuramente essere in abile mani – anche se temporaneamente – come quelle di Tim Burton ha contribuito.

Ma io spero che questa serie sia solo il primo passo di una promettente carriera.

…un personaggio eccessivo

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Il problema principale di Wednesday è proprio la protagonista.

O, meglio, la sua assurda caratterizzazione.

Wednesday è un personaggio eccessivo, e da ogni punto di vista: è capace di fare ogni cosa, di risolvere ogni mistero, possiede delle conoscenze inimmaginabili, che vanno ben oltre all’ambito più grottesco e orrorifico che la caratterizzava originariamente.

Ne deriva un personaggio veramente insostenibile – a meno che non ce ne si innamori, ovviamente – una insopportabile so-tutto-io che guarda tutti dall’alto al basso. E, anche più grave, che compie azioni effettivamente criminali e violente, dai cui gli altri personaggi persino si dissociano.

E qui sta il principale problema.

L’importanza della contestualizzazione in Wednesday

Prima di scrivere questa recensione, mi sono guardata il film del 1991, La famiglia Addams, per riuscire meglio a comprendere i problemi del personaggio della serie – che erano in realtà già lampanti anche senza aver visto il film.

Nella pellicola Wednesday è un personaggio secondario della storia, che fa cose strane e grottesche all’interno di una famiglia che già di suo è strana e inquietante.

E funziona per due motivi.

Anzitutto, non esce praticamente mai dal contesto familiare, in cui le sue azioni sono ben integrate e per questo funzionano, anche dal punto di vista comico. Al contempo, non va mai fino in fondo nei suoi progetti violenti – e anche lì sta parte del fascino e dell’ironia del personaggio.

Christina Ricci in una scena di La famiglia addams 2 (1993)

Invece la Wednesday della serie tv, per quanto Netflix ci voglia convincere del contrario, viene messa all’interno di un contesto fondamentalmente normale – nel senso che, se si tolgono i poteri ai personaggi, sono dei normalissimi adolescenti con dinamiche molto classiche.

Al contempo, questo personaggio va fino in fondo nelle sue azioni, in scene davvero al limite del disturbante, che vanificano l’elegante equilibrio che invece caratterizzava il personaggio originale.

Allo stesso modo i suoi genitori non hanno un briciolo dell’iconicità degli attori dei film.

E a questo punto una domanda sorge spontanea…

Perché Wednesday ha avuto così tanto successo?

La risposta più ovvia potrebbe essere perché il balletto è andato virale su TikTok.

In realtà io credo che quello sia solamente la punta dell’iceberg.

Per quanto a me – e magari anche a voi che mi state leggendo – possa dare fastidio la caratterizzazione del personaggio, è proprio ad esso che probabilmente la serie deve il suo successo.

Dopo anni di protagoniste di prodotti teen timide e che devono farsi strada in un mondo nuovo, con questa serie i creatori hanno voluto portare in scena un personaggio incredibilmente potente, senza freni, e nella maniera più estrema possibile.

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Per certi versi mi ha ricordato The Mask (1994).

E infatti allo stesso modo mi viene da pensare che, analogamente al film di Jim Carrey, parte del successo di Wednesday sia dovuto a questo sogno di potenza che rappresenta – e che molto spesso caratterizza l’adolescenza.

Sopratutto se si è stati dei ragazzini emarginati, è facile aver avuto dei sogni di rivincita e di invincibilità verso gli altri, anche a volte andando a spaziare – nella formidabile fantasia adolescenziale – nell’elemento magico e surreale.

E Wednesday può essere, nonostante tutto, un sogno a cui rifarsi.

Da qui, la grande attrattiva del personaggio.

La (non) prevedibilità del mistero

Gwendoline Christie in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Uno dei motivi per cui Wednesday non è scaduta nelle trame più banali e scontate, è proprio la costruzione di un mistero che, tutto sommato, risulta efficace.

L’elemento teen è infatti molto secondario – e vista la qualità, per fortuna! – mentre al centro della storia troviamo proprio i misteriosi omicidi e tutte le vicende connesse, che si intrecciano anche con l’evoluzione della protagonista.

Da un certo punto di vista il mistero può risultare molto prevedibile: la villain, interpretata da Christina Ricci, lascia un indizio molto evidente fin da quanto appare per la prima volta in scena con i suoi stivali coperti di fango – che saranno poi l’elemento risolutivo del mistero.

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Tuttavia, nonostante tutto, qualche elemento non è del tutto prevedibile – quasi fino all’ultimo ho avuto il dubbio su chi fosse l’Hyde, se Tyler o Xavier. E questo anche perchè la serie utilizza una serie di piccoli trucchi per sviare lo spettatore dalla risoluzione.

Dalla passione artistica di Xavier – tratto tipico del mostro secondo il bestiario – fino ai capelli biondi della Dottoressa Kinbott, che ricordano quelli della bambina scomparsa, Laurel Gates, la serie dissemina diverse false piste.

Uno spettatore più esperto potrebbe non lasciarsi così facilmente ingannare

Ma la serie è rivolta ad un pubblico di giovanissimi, quindi va bene così.

La strada più difficile

Jenna Ortega e Emma Myers in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Una scelta che davvero non ho compreso della serie – anche se forse è dovuto al mio non essere adolescente da un po’ – è questa volontà di andarsi ad incastrare in una rete di relazioni romantiche una più fastidiosa dell’altra.

Oltre alla relazione di Enid, veramente poco interessante, Wednesday è costantemente assillata da due personaggi maschili che le ronzano intorno in maniera anche leggermente viscida, finendo per portarla persino fuori dal suo personaggio.

La cosa più semplice – e forse anche più sensata – sarebbe stata quella di instaurare una relazione fra Wednesday e Enid, anche in maniera non necessariamente troppo sguaiata. Oppure – anche meglio – ma forse è troppo avanguardistico per Netflix – proporre una protagonista asessuale o anche semplicemente non interessata o pronta alle relazioni.

Jenna Ortega e Moosa Mostafa in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Ma sopratutto problematico appare il personaggio di Eugene.

Come ce lo vorrebbero presentare come il classico ragazzino sfigato che non riesce a farsi notare dalla ragazza di turno, in realtà è un rappresentante di una cultura molto tossica e diffusa anche oggi.

Infatti Eugene sbaglia in primo luogo a non arrendersi davanti al fatto che Enid non sia semplicemente interessata a lui, e continuando ad insistere in maniera veramente problematica. Il picco è in particolare è quando videochiama la ragazzina mentre questa è con Ajax e le chiede, con fare quasi accusatorio, cosa ci faccia lui lì.

Il male che ci hanno fatto certi teen drama è ancora incalcolabile…

Ballo Wednesday

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Tornando invece al balletto diventato virale su TikTok, lo stesso ha una storia un po’ particolare, sopratutto per chi non è pratico della piattaforma.

Anzitutto, è piuttosto interessante constatare che la scena nella serie tv ha molta meno importanza di quanto si potrebbe pensare: è un momento simpatico, di passaggio, all’interno di una puntata che parla di tutt’altro.

E sopratutto, contrariamente a quanto pensavo, non è un momento di realizzazione o di rivincita della protagonista, come tipico di questi prodotti.

Jenna Ortega in una scena di Wednesday (2022), serie tv Netflix diretta da Tim Burton

Ancora più interessante se si pensa che la canzone che è diventata virale del video non è la canzone effettiva della scena: nella serie Jenna Ortega balla sulle note di Goo Goo Muck dei Cramps, mentre nel video diventato virale su TikTok la canzone è Bloody Mary di Lady Gaga.

Ma se guardate la scena, in effetti non potrebbe calzare più a pennello: 

https://www.tiktok.com/@beats_op_2099/video/7174077827715779867?q=wednesday%20dance&t=1674662777968
https://www.tiktok.com/@beats_op_2099/video/7174077827715779867?q=wednesday%20dance&t=1674662777968
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1899 – Un bagaglio troppo ingombrante

1899 è una serie tv Netflix creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, gli stessi autori della serie di successo Dark. E, non a caso, vanno ad impelagarsi negli stessi problemi della terza stagione del prodotto che li ha resi famosi…

Al momento è una delle serie di punta della piattaforma, nella Top 10 dei prodotti più visti nella settimana a seguito della sua uscita. E non c’è da stupirsi, per quanto è stata pubblicizzata.

Di cosa parla 1899?

1899, Maura Franklin, neurologia, si trova a bordo del Kerberos, un transatlantico che viaggia in direzione degli Stati Uniti. Ma il viaggio si interrompe improvvisamente per il contatto con il Prometheus, nave che era andata dispersa per quattro mesi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare 1899?

Emily Beecham in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

È una domanda molto difficile a cui rispondere senza fare spoiler.

Diciamo che in generale non è una serie che mi sento di sconsigliare, ma neanche così imperdibile. Ha una struttura narrativa interessante per due terzi della sua durata, poi si perde abbastanza inesorabilmente sul finale, ovvero il punto più delicato…

Se vi piacciono serie mistery molto dark e dal sapore gotico, potrebbe essere la serie per voi. In alternativa potrebbe farvi incredibilmente arrabbiare…

Un lento mistero

Isabella Wei in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Partiamo dai punti più o meno positivi.

La struttura narrativa è interessante e per la maggior parte del tempo ben bilanciata: avendo fra le mani moltissimi personaggi da gestire, gli autori sono stati capaci di creare un piccolo background per tutti loro, rivelandolo poco a poco e in maniera sicuramente interessante.

E ho apprezzato che la rivelazione sia appunto molto naturale, che venga raccontata da frasi ben posizionate dei personaggi nei loro dialoghi.

Ma proprio su questo punto si crea il problema.

Il disinteresse

Emily Beecham, Aneurin Barnard eAndreas Pietschmann in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Come riuscivo ad interessarmi e in parte anche ad appassionarmi per certi versi alla storia di questi personaggi, appena ho scoperto che la storia era ambientata in una simulazione, mi è sceso tutto l’interesse.

Se è tutto finto, perché mi dovrebbe interessare di questi personaggi?

Con ogni probabilità il loro background è tutto inventato a uso e consumo della simulazione stessa. E probabilmente, visto la carrellata finale sui protagonisti collegati alla simulazione, è probabile che la maggior parte dei personaggi terziari, come la madre di Ling Yi, siano in realtà una sorta di NPC, ovvero esistono solo all’interno della simulazione stessa.

Motivo in più per cui alla fine ero totalmente disinteressata.

Un mistero sprecato

Fflyn Edwards in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Allo stesso modo tutto il mistero, con le sua peculiarità e gli elementi di fascino, è del tutto buttato via verso la fine della stagione.

Infatti proprio verso la fine sempre la rivelazione che è tutto finto, rende di fatto del tutto inutile il mistero del Prometheus. Perché lo stesso non era altro che una costruzione, un modo quasi per tenere impegnati i personaggi. E, allo stesso modo, un elemento costruito ad uso e consumo dello spettatore, ma, in fin dei conti, totalmente inutile.

E se lo spettatore sente di aver perso il proprio tempo…

Un bagaglio troppo ingombrante

Andreas Pietschmann in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

In ultima analisi, gli autori si sono incartati da soli.

Se vengono messi troppi strati ad una narrazione e, sopratutto, ad un mistero, diventa alla lunga troppo difficile districarsi. E infatti sul finale sembra che tutto sia sfuggito di mano.

Il villain principale è per la maggior parte del tempo il padre, poi si rivela che il realtà era Maura stessa con un colpo di scena che poteva anche funzionare. Se non fosse che si aggiunge un altro strato.

Ed è lì che il bagaglio diventa troppo ingombrante.

E un’eventuale seconda stagione dovrebbe non solo spiegare in maniera convincente tutta la sovrastruttura, ma raccontare praticamente da capo tutta la storia di personaggi secondari.

A meno di non volersene dimenticare…

Netflix all’attacco!

Ho purtroppo idea che il motivo di questa inutile complicatezza sia dovuta a necessità produttive.

Magari gli autori avevano questa idea nel cassetto, l’hanno proposta a Netflix e la piattaforma gli ha chiesto di fare un paio di stagioni. E per questo hanno dovuto sovraccaricare la narrazione di ulteriori elementi che rendessero possibile una continuazione.

Ma di fatto sono andati a snaturare gli elementi chiave della loro stessa creazione…

Cosa succede nel finale di 1899?

Nel finale ci sono di fatto due rivelazioni.

La prima è che il Creatore è in realtà Maura stessa, che aveva creato un mondo virtuale dove poter vivere col figlio morente. Tuttavia, scopriamo anche che il mondo è in realtà controllato da Ciaran, il fratello sempre nominato dalla protagonista.

E alla fine Maura si trova su una astronave nello spazio, nell’anno 2099, e il fratello stesso le dà benvenuto nella realtà reale.

Quindi il fratello era il vero villain tutto il tempo?

Non so se ho interesse a scoprirlo, a questo punto…

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Yellowjackets – Un mistero insolvibile

Yellowjackets è una serie tv di genere mistery – fantastico, distribuita inizialmente sul canale statunitense Showtime e poi in Italia su Sky. Un prodotto che non ha avuto particolare eco nel nostro mercato, tanto che io l’ho scoperta davvero per caso, tramite passaparola.

E alla fine mi sono decisa a vederla.

E non sono rimasta delusa.

Di cosa parla Yellowjackets?

Le Yellowjackets sono una giovane squadra di calcio femminile, che parte per un viaggio in aereo per giocare nel campionato. Ma l’aereo precipita e le ragazze si trovano sperdute in una foresta misteriosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Yellowjackets?

Sophie Thatcher in una scena di Yellowjackets, serie tv Showtime, in Italia distribuita da Sky

Sì, ma solo se siete pronti.

Yellowjackets è una di quelle serie basate sullo svelamento di un mistero, con un’alternanza fra presente e passato. Ma è anche un tipo particolare di serie che presenta degli elementi in qualche modo fantastici e orrorifici, ma che sono ben contestualizzati nel contesto realistico della storia.

Se avete visto The Leftovers, capirete di cosa sto parlando.

Se siete patiti per le serie mistery e vi piacciono i misteri con anche elementi apparentemente soprannaturali e inspiegabili, è la serie che fa per voi. Ma siate pronti all’idea che lo svelamento del mistero è ben più lento di quanto ci si potrebbe aspettare, e la serie si concentra maggiormente sulla costruzione dei personaggi.

Partire dal picco…

Olivia Hewson in una scena di Yellowjackets, serie tv Showtime, in Italia distribuita da Sky

La genialità di questa serie è il gancio che utilizza per coinvolgere lo spettatore.

Si comincia con un flashforward spalmato all’interno della prima puntata in cui una delle ragazze rimane vittima di una trappola mortale. Nell’inquietante seguito un gruppo di persone mascherate in maniera tribale si nutrono della sua carne durante una sorta di rito cannibale.

Solo sul finale vediamo lo svelamento di una degli individui mascherati. E scopriamo che è Misty, il personaggio che, più andiamo avanti, più è credibile in quelle vesti. Ma il gruppo è composto anche dalle altre ragazze…

E chi si nasconde sotto la maschera?

…proseguire per una storia normale?

Ella Purnell in una scena di Yellowjackets, serie tv Showtime, in Italia distribuita da Sky

Il resto della stagione mantiene una costante tensione, alimentata sia dalla fantastica colonna sonora, sia dal comportamento delle protagoniste da adulte, che mostrano le profonde ferite della loro traumatica esperienza.

E si usa un meccanismo simile da Severance, in cui l’unica fonte di svelamento del mistero non è per qualche motivo disposta a svelarlo. Ed è infatti il caso delle protagoniste, che da una parte non avrebbero motivo di raccontarsi fra loro quello che hanno vissuto, e al contempo (e per ovvi motivi) non hanno desiderio di raccontarlo agli altri.

Altrettanto bene funziona la falsa sicurezza che proviamo durante la stagione su chi sia effettivamente morto, cullandoci nella sciocca certezza che gli unici sopravvissuti siano quelli che vediamo in scena.

Un meccanismo ben oliato, che però scricchiola sul finale.

Un finale non del tutto convincente

Christina Ricci in una scena di Yellowjackets, serie tv Showtime, in Italia distribuita da Sky

Sono rimasta vagamente delusa dalla gestione del finale: non tanto perché il mistero non sia stato totalmente svelato, ma perché le dinamiche del cambiamento delle protagoniste non mi sono sembrate così credibili.

Il punto di svolta sembra di fatto il Dooming, ovvero il ballo della scuola, in cui tutte impazziscono per aver inconsapevolmente ingerito funghetti allucinogeni. Da lì questa esperienza sembra averle cambiate nel profondo, ma sinceramente le loro reazioni non mi sono sembrate credibili, appunto.

Sembra veramente che da un momento all’altro abbiano deciso di diventare aggressive, forse volendosi smarcare a vicenda delle reciproche colpe.

Anche se c’è ancora spazio per essere convincenti.

Cosa succede nel finale di Yellowjackets?

Le rivelazioni del finale in realtà sono molteplici. La più incredibile è proprio il fatto che Lottie sia ancora viva e a capo di una misteriosa organizzazione che continua il culto cominciato nelle foreste tanti anni prima.

È molto probabile che il seguito dei flashback si concentrerà su come Lottie (?) abbia definitivamente plagiato le menti delle sue compagne, portandole dentro al suo culto cannibale.

Così neanche al massimo della forma è Taissa, che si scopre, come era forse abbastanza prevedibile, essere la lady in the tree, e che abbia fatto cose indicibili sia al figlio sia al loro cane.

La nuova stagione dovrebbe arrivare all’inizio del 2023.

E non vedo l’ora.

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Dahmer – Chi ha paura dell’uomo nero?

Dahmer è una serie Netflix creata da Ryan Murphy e basata sulle vicende riguardanti gli omicidi di Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il Mostro di Milwaukee.

Una serie arrivata al momento giusto, quello di massima popolarità del true crime, portando per altro in scena un racconto molto coinvolgente, sopratutto dal punto di vista emotivo.

E per molti questo è stato un problema.

Di cosa parla Dahmer?

Come detto, la serie si concentra sulla storia di Jeffrey Dahmer, coprendo complessivamente tutta la sua vita, dell’infanzia fino alla sua morte nel 1994.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dahmer?

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Sì, ma se avete molto tempo.

Ci ho messo davvero troppo tempo a finire questa serie, che in effetti è troppo lunga, con dieci puntate che durano anche un’ora.

Tuttavia non si può negare che come serie possa diventare anche davvero coinvolgente, considerando che appunto punta molto sul lato emotivo della vicenda. Insomma, se siete appassionati di true crime o se anche solo vi interessano le serie riguardanti i serial killer, è molto probabile che vi piacerà.

Considerando che fra l’altro come serie può avvalersi di due nomi di alto livello: anzitutto Ryan Murphy, che già si era occupato di prodotti simili con American Crime Story. E poi l’ottimo Evan Peters, attore che ultimamente sembra in grande rampa di lancio.

E finalmente, vorrei dire.

C’è vita oltre a Dahmer?

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

La durata della serie è, a mio parere, veramente eccessiva.

Non dico tanto per la durata degli episodi singoli, ma proprio per la durata complessiva: si ha come la sensazione che gli autori volessero raccontare tutto della storia di Dahmer, anche i lati meno scontati come la storia delle famiglie e vittime, del padre del protagonista, e via dicendo.

E, se per certe parti ho anche apprezzato una maggiore tridimensionalità del racconto, per altre avrei invece preferito che si facesse una maggiore selezione del materiale. Per esempio avrei lasciato fuori parte della storia di Glenda, la vicina, e così anche le puntate dedicate al processo e al carcere.

Insomma, per me sarebbe stato meglio raccontare le parti veramente interessanti della storia, senza sentirsi in dovere di raccontare ogni cosa.

La gestione della trama

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Qualche dubbio ho avuto anche sulla gestione della trama: invece di seguire gli eventi in ordine cronologico, si fanno un po’ di salti in avanti e indietro.

E, per quanto abbia apprezzato generalmente la scelta di non portare un racconto eccessivamente lineare, d’altra parte non ho trovato del tutto organico e coerente la scelta di quali scene mostrare e dell’andamento complessivo della narrazione.

Avrei quindi preferito una gestione della trama più pensata da questo punto di vista

L’aggancio emotivo

Andrew Shaver in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Come detto, la serie non si limita a raccontare banalmente la storia di Jeffrey Dahmer, ma utilizza diversi agganci emotivi.

Anzitutto il racconto per cui Jeffrey fu un ragazzo e un bambino abbandonato a se stesso, che ebbe molte difficoltà ad affrontare la sua omosessualità, che poi usò come arma dietro la quale nascondersi anche per sfuggire al controllo della polizia.

Non di meno l’apparente e profondo pentimento e in generale la consapevolezza dei suoi comportamenti distruttivi, che lo portarono a rovinare ogni sua interazione sociale e momento felice che avrebbero potuto salvarlo, per così dire.

Ma l’aggancio emotivo più forte, e con il quale mi sono sentita personalmente emotivamente coinvolta, è la storia del padre. Il padre di Dahmer nella serie è sempre preoccupato per il figlio e per tutta la sua vita cerca di salvarlo, per così dire, e nonostante tutto lo perdona e lo aiuta, fino alla fine.

Davvero particolare che questo ruolo tipicamente materno sia affidato alla figura del padre.

Ma è giusto empatizzare con un serial killer?

È giusto empatizzare con un serial killer?

La questione è molto spinosa e può essere ampliata anche oltre a questo discorso specifico.

Tuttavia, parlando esclusivamente di questa serie, bisogna fare la distinzione fra feticizzazione e umanizzazione del serial killer.

La feticizzazione o romanticizzazione di un criminale è una tendenza che esiste da quando esistono i serial killer, come si vede anche nella serie. E si parla di esaltare e in qualche modo giustificare le azioni criminali di un criminale, arrivando ad idolatrarlo. Ed è una tendenza esistente tutt’oggi, che questa serie ha solo riportato al centro della discussione.

E non credo di dover dire io quanto sia sbagliato.

Al contrario, il tentativo di umanizzare e spiegare le azioni di un serial killer o un criminale in generale non solo è una cosa giusta da fare, ma anche dovuta. Questo perché, proprio per auto-tutelarci come società, non ci guadagnamo niente a bollare stupidamente queste persone come le mele marce della società. È invece molto più utile capire da dove derivino determinati comportamenti, spesso legati a contesti familiari difficili o emarginazione sociale in genere.

Non sbattere quindi il mostro in prima pagina, ma intervenire per tempo prima che effettivamente lo diventi.

La verità dietro alla serie

La serie è per certi versi molto fedele agli effettivi eventi riguardanti la storia di Dahmer, pur con significative differenze.

La prima grande differenza è che Glenda, la vicina di casa, non era in effetti la sua vicina di casa, ma abitava nel palazzo vicino. Tuttavia effettivamente chiamò più volte la polizia e la storia del quattordicenne che tentò di sfuggire a Dahmer è del tutto vera. E comunque i vicini di Dahmer si lamentarono più volte del rumore e della puzza che veniva dal suo appartamento

La scena già iconica in cui Dahmer fa vedere l’Esorcista III alle sue vittime è altresì vera, come confermato nella sua intervista in Inside Edition, ma al contrario Dahmer non bevve il sangue rubato dalla clinica in cui lavorava come si vede nella serie. E il bar dove adescava le sua vittime è un bar veramente esistente, anche se ad oggi ha chiuso.

Il tentativo del padre di salvare il figlio quando fu arrestato per violenza sessuale nel 1990 è effettivamente avvenuto: il padre scrisse una lettera al giudice per chiedere che suo foglio fosse curato. Molte delle scene che riguardano il padre sono prese proprio dal libro citato nella serie, A Father’s Story, per cui Lionel Dahmer venne effettivamente portato in tribunale da due delle famiglie delle vittime (e non tutte come nella serie).

È il momento di Evan Peters

Evan Peters è un attore rimasto purtroppo ancora poco conosciuto nel panorama televisivo e cinematografico.

Se avete seguito la saga degli X-Men dal 2000 in poi, indubbiamente lo ricorderete come Peter Maximoff, AKA Quicksilver. E purtroppo ha fatto poco altro di interessante, a parte una parte incredibilmente memorabile in American Animals (2018).

Si era anche fatto conoscere per un’altra serie di Ryan Murphy, American Horror Story, per poi essere scelto dallo stesso come protagonista di Dahmer, che gli sta assicurando un successo incredibile a livello internazionale.

E forse è anche ora che la sua bravura venga riconosciuta.