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The Crown 5 – Decennium horribile

The Crown 5 è la quinta stagione della serie tv creata da Peter Morgan per Netflix. Un autore che si era già dimostrato piuttosto interessato e capace nel raccontare le vicende della famiglia reale con il suo The Queen (2006).

Una serie che ha raggiunto subito un grande successo, sia per le vicende raccontate, sia per la cura e l’eleganza nella gestione del materiale.

E questa quinta stagione si è portata dietro qualche polemica molto sterile…

Se vi interessa solo The Crown 5, cliccate qui.

Se invece volete non avete mai visto The Crown, continuate a leggere.

3 motivi per guardare The Crown

Ecco tre motivi per cominciare immediatamente questa serie fantastica.

Il casting (quasi) perfetto

Emma Corrin in una scena di The Crown 4, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Un elemento di grande importanza per prodotti di questo tipo è riuscire ad indovinare il casting. E The Crown ci riesce perfettamente, scegliendo non solo attori che riescono a riprendere le fattezze delle persone reali in maniera anche impressionante, ma sopratutto a portare un’interpretazione incredibilmente convincente.

In particolare perfetto il casting di Diana, sia nella sua versione più giovane con Emma Corrin, sia per l’interprete più adulta, Elizabeth Debicki.

La cura

Helena Bonam Carter in una scena di The Crown 4, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

La cura che viene messa nella produzione di The Crown ha pochi eguali nella storia della televisione. Dietro questo prodotto si vede uno studio e una gestione al limite del maniacale per rendere credibile il setting e i personaggi, tanto che, andando a fare il confronto con i filmati storici, il risultato è da far girare la testa:

La trama non scontata

Elizabeth Debicki in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Scegliendo di raccontare personaggi di questo genere, sarebbe stato molto semplice portare episodi del tutto focalizzati sugli elementi più di richiamo. The Crown sicuramente racconta questi momenti, ma preferisce focalizzarsi sulla psicologia dei personaggi e anche su eventi meno conosciuti, ma che ampliano la narrazione.

Di cosa parla The Crown 5?

La quinta stagione copre il periodo fra il 1991 e il 1997, un periodo molto burrascoso per la corona, in particolare per la figura di Diana, e la sua drammatica conclusione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Crown 5?

Elizabeth Debicki e Dominic West in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Assolutamente sì.

The Crown 5 è in linea con l’attimo livello delle precedenti. Quindi, se vi è piaciuta fin qui, vale la pena di recuperare anche la nuova stagione.

Tuttavia, è anche giusto essere pronti al fatto che questo nuovo ciclo di episodi, quasi come punto di principio, si rifiuta di calcare troppo la mano sui momenti più iconici di Diana, la cui storia è comunque centrale.

Anzi, va per sottrazione.

Insomma, non vuole farci vedere più di tanto quello che sappiamo già.

Perché le polemiche su The Crown 4 non hanno senso

Questa stagione è stata anticipata da numerose polemiche, anche per aver avuto la sfortuna di uscire in un momento politico piuttosto delicato, ovvero a seguito della morte di Elisabetta II.

Per questo si è molto criticato l’aver suggerito che Carlo avesse meditato di attentare al trono della madre. Si è arrivati persino a chiedere che venisse messo un disclaimer iniziale per avvertire lo spettatore che gli eventi raccontati non corrispondessero alla realtà.

Io consiglierei ai detrattori anzitutto di guardare The Crown, sopratutto questa quinta stagione.

Perché The Crown basa la sua forza sul scavare profondamente nella psicologia dei personaggi. E per fare questo ovviamente deve inventare o quantomeno ipotizzare cosa succedeva a porte chiuse. Come – e so che potrebbe veramente sorprendervi – fanno la maggior parte dei prodotti di questo tipo.

E approcciarsi a questa serie pensando di trovare un racconto della verità storica è una grande ingenuità.

Oltre a questo, la serie è del tutto positiva nel raccontare Carlo, che voleva portare novità e freschezza alla Corona. Fra l’altro non insinuando, come è stato detto, che avesse ideato un piano per attentare al trono.

C’è un po’ di The Crown in questa Diana

Elizabeth Debicki in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

La storia di Diana e Carlo è assolutamente centrale nella stagione, anche più della scorsa, dove comunque era molto presente.

Si sceglie ancora una volta il taglio più intimistico, in cui si racconta soprattutto quello che succedeva a porte chiuse e le profonde crepe che si erano formate ormai da tempo nel loro matrimonio.

Perfetta la scelta di Elizabeth Debicki come interprete: la sua prova attoriale è stata davvero convincente. Una regia che la premia continuamente, insistendo molto su primi piani stretti, mentre l’attrice tiene spesso gli occhi bassi e guarda verso l’alto, e così appare sempre molto timida e indifesa.

Ma in realtà è meno angelica di quanto sembri…

Fra luci e ombre

Nella scorsa stagione la figura di Diana era messa in scena come l’assoluta vittima della situazione

Al contrario in questi nuovi episodi Diana non è più una figura così positiva e senza ombre. Complice anche il cambio di casting, che la mostra come una donna molto più matura, e non più un’indifesa ragazzina. E per questo appare forse quasi una bambina capricciosa troppo cresciuta, che si sente costantemente vittima degli eventi.

Da questo punto di vista lo scambio con la Regina è rivelatorio non tanto di quanto effettivamente Diana fosse la vittima, ma più che altro di come si sentisse tale. In realtà Diana era sempre stata messa in un posto che le stava stretto, e quindi non aveva fatto altro che cercare di trovare una via di fuga da quell’ambiente per lei opprimente, anche con azioni non del tutto corrette.

Il principe promesso

Olivia Williams e Dominic West in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Come anticipato, il racconto di Carlo è molto meno drastico di quando si potesse pensare.

Si racconta di fatto il rapporto antagonistico fra Carlo e la madre, e con la corte in generale, in cui l’erede al trono cercava di mettersi al centro della scena e rinnovare il ruolo della Corona.

E si insiste molto su questo concetto, e sembra veramente che in qualche misura Carlo agisca alle spalle della madre per scalzarla.Ma in realtà non è così. Semplicemente il futuro re cerca di trovare il suo posto, piuttosto infelice di non poter salire al trono immediatamente, cercando intanto di guidare la madre secondo le sue idee.

Ed è un racconto che ha tutto un altro sapore alla luce dei recenti eventi…

Piccoli problemi di corone

Leslie Manville in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Anche se più marginali, in questa stagione si racconta anche di altre questioni dei membri della famiglia reale.

Per quanto Elisabetta sia molto meno presente in scena, il suo rapporto con Filippo colpisce a fondo, complice anche la presenza di questi due straordinari attori, perfetti nei loro ruoli. Si racconta un matrimonio non del tutto felice, anzi quasi con ferite aperte da tempo e mai rimarginate, che però alla fine sembra trovare una sorta di pacifico compromesso.

Ma è pure un filo della narrazione quasi troncato.

Un piccolo spazio ha anche Margaret, di cui ho assolutamente adorato la scelta dell’attrice, molto più calzante rispetto a Helena Bonam Carter. Il personaggio ha una puntata quasi tutta per lei, che ho trovato molto toccante, ma la sua storia rimane sotterranea, ma presente, per il resto della stagione.

Perché forse fra lei e Diana non c’era così tanta differenza…

Un finale non scontato

Imelda Staunton in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Ammetto che il finale mi ha lasciato un po’ interdetta.

E non penso di essere l’unica.

Come penso tutti, mi aspettavo una conclusione che quantomeno mostrasse un accenno della tragica morte di Diana e le sue conseguenze. Invece si gettano solo le basi della situazione che effettivamente finirà in tragedia.

E la vera conclusione, molto malinconica, è Elisabetta che visita la sua amata nave, che viene mandata in pensione, e po’ anche lei stessa si sente un ricordo del passato, sopratutto dopo le pressioni del figlio.

E non sa che il momento finale di un’era sta davvero per arrivare…

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Boris 4 – Una serie tv a norma

Boris 4 è la quarta stagione della serie omonima, andata in onda su FOX fra il 2007 e il 2010. Un ambizioso rilancio sulla piattaforma di Disney+ dopo più di dieci anni di assenza e dopo il meno considerato film Boris Il film (2011).

Un ritorno che era tanto atteso dai fan della serie originale, che negli anni è diventata un piccolo cult italiano, tanto da essere citata quasi alla stregua delle migliori battute di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Io stessa ho recuperato solo quest’anno la serie completa e attendevo con un certo interesse questa stagione.

E non sono stata delusa.

Di cosa parla Boris 4?

I vecchi personaggi di Boris si riuniscono per girare una nuova fiction italiana, dedicata alla vita di Gesù, ma questa volta con la severa supervisione della piattaforma e dell’Algoritmo che sembra definire ogni produzione cinematografica…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Boris 4?

Francesco Pannofino, Alessandro Giulio Tiberi, Paolo Calabresi e Ninni Bruschetta in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

Per me, assolutamente sì.

Davanti all’arduo compito di dover portare in scena un rilancio che fosse sempre Boris e che fosse ancora attuale sull’andamento delle produzioni nostrane, Boris 4 ci riesce perfettamente.

E questo perché, semplicemente, non perde la sua vera natura: pur con qualche adattamento e inserimento di elementi molto attuali, questo prodotto è in tutto e per tutto una nuova stagione della serie originale.

Insomma, non stiamo parlando di una snaturazione del prodotto, come fu per il rilancio di Camera cafè.

Tuttavia, proprio per questo, è un prodotto che ha una barriera all’ingresso, sia per il nuovissimo pubblico abituato a produzioni diverse, sia per chi non si è mai approcciato alla serie.

Posso vedere Boris 4 senza aver visto Boris?

Purtroppo, no.

E questo lo dico perché, anche se non ho sentito un incredibile chiacchiericcio intorno a questo rilancio, Disney+ comunque l’ha messo in homepage e comunque lo zoccolo duro di fan della serie non ha mancato di dire la propria.

Quindi magari ci saranno dei neofiti che avranno interesse ad approcciare il prodotto proprio con questo rilancio.

Tuttavia Boris 4 va considerato non tanto come un rilancio, ma proprio come un’effettiva quarta stagione della serie. E di conseguenza è assolutamente necessario aver visto le precedenti tre stagioni per comprendere e godersi il prodotto.

Ma la fortuna è che tutte le stagioni sono adesso di proprietà di Disney+ e quindi lì le troverete, nei secoli dei secoli per riscoprirle, vederle e rivederle.

E non ve ne pentirete.

Boris è sempre Boris

Francesco Pannofino e Antonio Catania in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

Come anticipato, il punto di forza di Boris 4 è stato di essere riuscito a mantenere la sua identità e a non snaturarsi. Boris 4 è infatti in tutto e per tutto una quarta stagione di Boris, con lo stesso taglio narrativo e le stesse dinamiche, che in effetti non avrebbe senso cambiare.

Possiamo dire che la tv italiana sia di fatto cambiata in questi anni?

L’unica differenza sostanziale è che il capo della produzione non è più il misterioso Dottor Cane, ma l’altrettanto misterioso Algoritmo.

E così Alison, il punto di riferimento della piattaforma che cerca di mettere in riga tutti e definire i parametri di come rendere la serie più high concept.

…ma a volte è troppo

Francesco Pannofino e Alessandro Giulio Tiberi in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

I maggiori difetti di questa stagione a mio parere sono l’autocitazionismo e la gestione del nuovo panorama delle produzioni.

Il problema dell’autocitazionismo è una questione che si sente soprattutto all’inizio, quando la serie cita fin troppo spesso se stessa con le sue frasi più iconiche.

Non posso arrivare a dire che sia un elemento sguaiato, ma in certi momenti appare davvero un fan service molto spicciolo.

Per fortuna è un elemento che più si va avanti, più si perde.

La gestione dell’elemento delle nuove produzioni l’ho trovato per certi versi ben gestito, per altri un po’ ingenuo. Il racconto di come siano sottomessi a questo nuovo Algoritmo e alle sue disposizioni è a volte veramente troppo assurdo e poco pensato.

I casi peggiori sono, secondo me, la lezione iniziale di inclusione e quando Biascica che viene accusato di razzismo.

Ma parliamo delle parti belle.

Fare una serie nel 2022

L’Algoritmo è a suo modo un elemento molto interessante quando ben gestito.

In particolare ho trovato particolarmente divertente l’idea di includere attori di diverse etnie per interpretare gli apostoli nella maniera più improbabile e così anche il concilio delle donne che parlano del ruolo femminile nella Palestina in epoca precristiana.

Momenti davvero improbabili, ma che sono molto credibili nel contesto di più produzioni cinematografiche di quanto cose siamo disposti ad ammettere.

Ed è ancora più evidente se pensiamo che molto spesso questi racconti di inclusività in non poche major cinematografiche sono all’ordine del giorno, come parte di una check list autoimposta che porta a racconti sempre più assurdi e, paradossalmente, meno credibili.

Non è passato un giorno

Carolina Crescentini e Pietro Sermonti in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

Il punto di forza di Boris sono sempre stati i suoi personaggi, le colonne portanti dell’intero impianto narrativo. E non sono da meno neanche in questa occasione.

Tutti gli attori sono rientrati perfettamente nei loro personaggi, anche i più minori, non perdendo mai un colpo e dimostrando anzi le capacità incredibili di questi interpreti, che fino a questo momento sono rimasti abbastanza ai margini nel panorama filmico.

Infatti ad oggi in Italia le produzioni filmiche di stampo comico sono piuttosto scarse e ripetitive, e l’unico momento in cui hanno avuto un secondo momento di popolarità in questo senso è stata proprio la saga di Smetto quando voglio, che era non a caso scritta dagli stessi sceneggiatori di Boris.

Un omaggio sofferto

Oltre al funerale per la mitica Itala, dopo la sofferta dipartita dell’attrice Roberta Fiorentini, non da meno è stato l’omaggio verso Mattia Torre, uno dei tre veri sceneggiatori di Boris, la cui morte è avvenuta solo pochi anni fa.

E in questa stagione infatti Valerio Aprea, riprendendo anche la fisionomia dell’amico scomparso, appare sotto forma di fantasma, che solo gli altri due sceneggiatori possono vedere, e che consiglia anche Renè per la folle scena di danza dell’ultima puntata.

Così si ricollega anche per le battute finali del film Io giuda, che aprono l’ultimo omaggio nei confronti di una delle grandi menti dietro a questo cult tutto italiano.

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House of the dragon – L’altro lato del fantasy

House of the dragon è una serie tv prequel spin-off di Game of Thrones prodotta da HBO. Un prodotto accolto con tanta (anche giusta) diffidenza, dopo il disastro unanimemente riconosciuto del finale della serie madre.

Ma secondo me molti hanno dovuto ricredersi.

Fra l’altro una serie che è uscita in contemporanea con un’altra grande serie fantasy, Rings of power, rappresentandone la perfetta alternativa.

Di cosa parla House of the dragon?

Circa 200 anni prima di Game of thrones, i Targaryen dominato la scena politica di Westeros, monopolizzando il Trono di Spade e la conseguente discendenza. Il re in carica è Viserys, uomo pacato e pacifico, che si trova a dover gestire la complicata discendenza con la primogenita, Rhaenyra, mentre il trono è insidiato da ogni parte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere House of the dragon?

Emma D'Arcy in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Premetto che sono molto di parte: al di là di tutti i difetti che può avere, è una serie che ho semplicemente adorato.

Ma, parlando più obiettivamente, se vi piace un fantasy più dark, con rimi molto concitati, pochi personaggi protagonisti e una robusta storyline principale, probabilmente vi piacerà. Se al contrario, preferite una serie più corale, con un fantasy più classico e ritmi più compassati, è ora di vedere Rings of Power.

Oppure vedetele entrambe.

Ma sopratutto House of the dragon.

L’ho detto che sono di parte.

Il percorso di Rhaenyra

Emma D'Arcy in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Rhaenyra è l’indiscussa protagonista della scena, e la sua maturazione è di fatto il perno della narrazione. Nella prima parte della stagione è di fatto una principessa ribelle, del tutto allergica al suo ruolo da donna di corte, che a Westeros significa di fatto supportare la discendenza della propria casata sfornando infinita prole.

E il padre tenta in tutto i modi di domare il suo spirito, ma Rhaenyra è indomabile: nonostante indubbiamente col tempo ritorni sui suoi passi, accetti il matrimonio e le gravidanze, comunque continua ad agire praticamente sempre con la sua testa: con la tresca con Ser Criston Cole e poi con Lord Strong, da cui lo scandalo di corte, e poi il matrimonio con Daemon.

Tuttavia indubbiamente Rhaenyra dimostra col tempo una grande maturità, sopratutto sul finale, quando si trova ad un passo dalla guerra, ma decide di agire con prudenza.

E invece Aemond deve rovinare tutto.

Alicent: lasciarsi trasportare dagli eventi?

Olivia Cook in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Alicent è un altro personaggio che mostra un interessante cambiamento nel tempo, con un’evoluzione del tutto organica. Infatti fin dalla prima scena Alicent è subito raccontata come una giovane donna del tutto ligia al dovere, tanto che accetta in maniera abbastanza obbediente l’invito del padre ad intrattenersi con Viserys dopo la morte della moglie.

Tuttavia già da qui si capisce come Alicent sia una donna che non si appiattisce nel ruolo di arpia e arrampicatrice sociale: non ha mai il ruolo di seduttrice, ma, in un altro contesto, si sarebbe intrattenuta abbastanza felicemente con il suo futuro marito senza neanche essere obbligata.

E così accetta a testa bassa anche il matrimonio, facendosi negli anni avvelenare dal padre, Otto, che la mette più volte in guardia sulla minaccia della successione ai suoi figli e la incoraggia più o meno malignamente a prendersi sempre più spazio a corte per ottenere il trono. E tanto peggio quando si affida alle cure di Larys Strong.

Ed è quasi commovente come fino alla fine e nonostante tutto, Alicent cerca una via pacifica con la vecchia amica…

Viserys: la pace a tutti i costi

Paddy Considine in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Sarebbe riduttivo definire Viserys un inetto, ma indubbiamente è un personaggio che si trova al centro di una situazione che è incapace di gestire con il pugno di ferro, o, meglio, come gli altri si aspetterebbero da lui.

E per certi versi Viserys non è tanto dissimile dalla figlia: la maggior parte delle volte segue la sua testa e non quello che gli dicono gli altri. Anche se alla fine accetta di mettere sulle spalle della figlia il peso del trono, non si piega l’agghiacciante possibilità del matrimonio con la giovanissima Laena, per quanto fosse la cosa migliore da fare per mantenere la solidità della discendenza.

E cosi continua a difendere strenuamente la figlia davanti alle accuse di adulterio, unicamente perché vuole mantenere questa pace impossibile e di fatto fittizia che si è creato intorno. E nonostante tutto riesce ad andarsene in pace, guardando negli occhi la moglie perduta…

Daemon: l’eterna invidia

Matt Smith in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Daemon è un personaggio per certi versi più fumoso, anche se sembra complessivamente guidato sempre dallo stesso sentimento: l’invidia.

Invidioso prima del fratello e poi della nipote e moglie per la loro ascesa al trono, che non è mai riuscito ad ottenere. Un personaggio che per fortuna non ha cambiamenti da una puntata all’altra: rimane sempre un uomo violento e iroso, che alza le mani contro gli altri, sopratutto gli innocenti, la maggior parte delle volte solo per sfogare la sua rabbia cieca.

E penso infatti che sarà interessante se approfondiranno meglio la relazione con Rhaenyra, che è molto meno intima e felice di quanto lei stessa potesse pensare. Perché è così evidente come Daemon viva per attaccar briga e mettersi a capo di battaglie non tanto perché ci crede, ma perché deve dimostrare qualcosa a se stesso.

E a questo aggiungiamo la sua possibile impotenza che viene più volte suggerita, sembra il classico caso del personaggio maschile che si sente demascolinizzato e risponde con violenza.

Ma, come tutti i personaggi di questa serie, non è mai appiattito su un solo concetto.

Un finale perfetto

Emma D'Arcy in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Per quanto il finale non sia forse stato l’incredibile, fantastica e scioccante conclusione che alcuni si aspettavano, io l’ho trovato perfetto così.

Nell’ultima puntata Rhaenyra dimostra la sua maturità politica, evitando di correre subito alle armi nonostante ce ne fossero tutti i motivi. In generale la protagonista sembra aver in parte interiorizzare quello che il padre aveva cercato di portate avanti fino alla fine della sua vita.

Ed è altrettanto interessante che l’effettivo casus belli, o la famosa goccia che fra traboccare il vaso, sia di fatto un incidente che però non sarà mai dimostrabile, anzi indubbiamente nessuno crederà mai veramente che Aemond non abbia ucciso volutamente Lucerys.

E questa è effettivamente la scintilla che fa scoppiare la guerra, in maniera anche storicamente credibile e interessantissima.

Il femminile tridimensionale

Emma D'Arcy in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Un elemento che ho decisamente preferito rispetto a Rings of Power è la gestione dei personaggi femminili.

Se infatti in Rings of Power in generale tutti i personaggi sono un po’ appiattiti dagli schemi narrativi in cui sono incasellati, House of the dragon sceglie di rinunciare a a qualsiasi tipo di veridicità storica e mette al centro l’emotività dei personaggi.

E così ne derivano personaggi femminili molto tridimensionali, che prendono però strade diverse: Rhaenyra che è appunto la ragazza ribelle, che però non è banalizzata né all’essere edgy senza motivo né nell’essere una Mary Sue altrettanto senza motivo.

Invece la sua ribellione è ben contestualizzata all’interno di contesto politico complesso ed intricato.

Il momento migliore al riguardo è la scena del suo debutto sessuale con Ser Criston: una sequenza diretta con particolare eleganza, che mette al centro il piacere e il desiderio femminile, senza drammatizzare il momento.

Meglio di cosi difficilmente avrebbero potuto farlo.

Una strada diversa quella di Alicent, che racconta invece un femminile plagiato dal maschile, a cui il personaggio si sottomette più o meno obbedientemente. Il momento cardine è quando Alicent deve concedersi in tarda notte al marito, con un montaggio alternato che mette in luce il grande divario fra lei e Rhaenyra.

Verso il finale della stagione mostra un minimo di ribellione e rivalsa, ma in realtà da questo punto di vista secondo me Alicent ha ancora molto da raccontare.

Il problema dei time skip

Personalmente non ho trovato particolarmente problematici i time skip, che nella serie abbondano. Ho preferito per certi versi che la vicenda politica non avvenisse in un lasso di tempo ristretto, ma che si prolungasse più realisticamente all’interno di periodo più ampio.

Per quanto riguarda i personaggi, è tutto un altro discorso.

Sulle prime i rapporti e caratteri dei personaggi non mi avevano dato particolare fastidio, anche perché banalmente mi emozionavo a vedere i nuovi casting ogni puntata. Tuttavia, alla lunga mi sono resa conto dei problemi. I rapporti fra i personaggi forse non sono così tanto problematici, perché sforzandosi un attimo si possono capire, meno credibile è il fatto che alcuni non invecchino di un giorno in vent’anni di narrazione.

Se per esempio fate un confronto fra il Daemon della prima puntata e quello dell’ultima, non sembra passato neanche un anno. E con tutto che nel finale c’è stato un lavoro oculato sulla fotografia per dare al suo volto delle luci più drammatiche che lo fanno apparire più invecchiato. Tuttavia nel complesso il lavoro da questo punto di vista non è stato particolarmente intelligente.

L’eccesso

Matt Smith in una scena di House of The Dragon, serie tv HBO prequel di Game of Thrones

Per quanto sia stata una delle più strenue difenditrici della serie, è innegabile che ci siano dei momenti in cui la abbiano portato alcuni elementi all’eccesso.

Per quanto mi abbia emozionato la scena, è stato al limite del trash il momento in cui Daemon decapitata Vaemond nell’ottava puntata, complice anche una CGI veramente scarsa. Forse anche peggio l’ormai famosa scena della nona puntata in cui Larys si masturba guardando i piedi di Alicent. Infatti, per quando il concetto fosse anche interessante nel complesso della caratterizzazione di Alicent, la messa in scena è stata veramente di cattivo gusto.

In generale la combo fra CGI scarsa, che purtroppo è un problema abbastanza evidente di tutte le puntate, e il tentativo di sconvolgere lo spettatore è stato in più momenti una combo micidiale.

Tuttavia in generale non sto dalla parte di chi in generale condanna in toto il cosiddetto wow-effect: per me, semplicemente, dipende da come viene fatto.

E raramente ho visto momenti in questa serie che mi hanno davvero dato fastidio.

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Dahmer – Chi ha paura dell’uomo nero?

Dahmer è una serie Netflix creata da Ryan Murphy e basata sulle vicende riguardanti gli omicidi di Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il Mostro di Milwaukee.

Una serie arrivata al momento giusto, quello di massima popolarità del true crime, portando per altro in scena un racconto molto coinvolgente, sopratutto dal punto di vista emotivo.

E per molti questo è stato un problema.

Di cosa parla Dahmer?

Come detto, la serie si concentra sulla storia di Jeffrey Dahmer, coprendo complessivamente tutta la sua vita, dell’infanzia fino alla sua morte nel 1994.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dahmer?

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Sì, ma se avete molto tempo.

Ci ho messo davvero troppo tempo a finire questa serie, che in effetti è troppo lunga, con dieci puntate che durano anche un’ora.

Tuttavia non si può negare che come serie possa diventare anche davvero coinvolgente, considerando che appunto punta molto sul lato emotivo della vicenda. Insomma, se siete appassionati di true crime o se anche solo vi interessano le serie riguardanti i serial killer, è molto probabile che vi piacerà.

Considerando che fra l’altro come serie può avvalersi di due nomi di alto livello: anzitutto Ryan Murphy, che già si era occupato di prodotti simili con American Crime Story. E poi l’ottimo Evan Peters, attore che ultimamente sembra in grande rampa di lancio.

E finalmente, vorrei dire.

C’è vita oltre a Dahmer?

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

La durata della serie è, a mio parere, veramente eccessiva.

Non dico tanto per la durata degli episodi singoli, ma proprio per la durata complessiva: si ha come la sensazione che gli autori volessero raccontare tutto della storia di Dahmer, anche i lati meno scontati come la storia delle famiglie e vittime, del padre del protagonista, e via dicendo.

E, se per certe parti ho anche apprezzato una maggiore tridimensionalità del racconto, per altre avrei invece preferito che si facesse una maggiore selezione del materiale. Per esempio avrei lasciato fuori parte della storia di Glenda, la vicina, e così anche le puntate dedicate al processo e al carcere.

Insomma, per me sarebbe stato meglio raccontare le parti veramente interessanti della storia, senza sentirsi in dovere di raccontare ogni cosa.

La gestione della trama

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Qualche dubbio ho avuto anche sulla gestione della trama: invece di seguire gli eventi in ordine cronologico, si fanno un po’ di salti in avanti e indietro.

E, per quanto abbia apprezzato generalmente la scelta di non portare un racconto eccessivamente lineare, d’altra parte non ho trovato del tutto organico e coerente la scelta di quali scene mostrare e dell’andamento complessivo della narrazione.

Avrei quindi preferito una gestione della trama più pensata da questo punto di vista

L’aggancio emotivo

Andrew Shaver in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Come detto, la serie non si limita a raccontare banalmente la storia di Jeffrey Dahmer, ma utilizza diversi agganci emotivi.

Anzitutto il racconto per cui Jeffrey fu un ragazzo e un bambino abbandonato a se stesso, che ebbe molte difficoltà ad affrontare la sua omosessualità, che poi usò come arma dietro la quale nascondersi anche per sfuggire al controllo della polizia.

Non di meno l’apparente e profondo pentimento e in generale la consapevolezza dei suoi comportamenti distruttivi, che lo portarono a rovinare ogni sua interazione sociale e momento felice che avrebbero potuto salvarlo, per così dire.

Ma l’aggancio emotivo più forte, e con il quale mi sono sentita personalmente emotivamente coinvolta, è la storia del padre. Il padre di Dahmer nella serie è sempre preoccupato per il figlio e per tutta la sua vita cerca di salvarlo, per così dire, e nonostante tutto lo perdona e lo aiuta, fino alla fine.

Davvero particolare che questo ruolo tipicamente materno sia affidato alla figura del padre.

Ma è giusto empatizzare con un serial killer?

È giusto empatizzare con un serial killer?

La questione è molto spinosa e può essere ampliata anche oltre a questo discorso specifico.

Tuttavia, parlando esclusivamente di questa serie, bisogna fare la distinzione fra feticizzazione e umanizzazione del serial killer.

La feticizzazione o romanticizzazione di un criminale è una tendenza che esiste da quando esistono i serial killer, come si vede anche nella serie. E si parla di esaltare e in qualche modo giustificare le azioni criminali di un criminale, arrivando ad idolatrarlo. Ed è una tendenza esistente tutt’oggi, che questa serie ha solo riportato al centro della discussione.

E non credo di dover dire io quanto sia sbagliato.

Al contrario, il tentativo di umanizzare e spiegare le azioni di un serial killer o un criminale in generale non solo è una cosa giusta da fare, ma anche dovuta. Questo perché, proprio per auto-tutelarci come società, non ci guadagnamo niente a bollare stupidamente queste persone come le mele marce della società. È invece molto più utile capire da dove derivino determinati comportamenti, spesso legati a contesti familiari difficili o emarginazione sociale in genere.

Non sbattere quindi il mostro in prima pagina, ma intervenire per tempo prima che effettivamente lo diventi.

La verità dietro alla serie

La serie è per certi versi molto fedele agli effettivi eventi riguardanti la storia di Dahmer, pur con significative differenze.

La prima grande differenza è che Glenda, la vicina di casa, non era in effetti la sua vicina di casa, ma abitava nel palazzo vicino. Tuttavia effettivamente chiamò più volte la polizia e la storia del quattordicenne che tentò di sfuggire a Dahmer è del tutto vera. E comunque i vicini di Dahmer si lamentarono più volte del rumore e della puzza che veniva dal suo appartamento

La scena già iconica in cui Dahmer fa vedere l’Esorcista III alle sue vittime è altresì vera, come confermato nella sua intervista in Inside Edition, ma al contrario Dahmer non bevve il sangue rubato dalla clinica in cui lavorava come si vede nella serie. E il bar dove adescava le sua vittime è un bar veramente esistente, anche se ad oggi ha chiuso.

Il tentativo del padre di salvare il figlio quando fu arrestato per violenza sessuale nel 1990 è effettivamente avvenuto: il padre scrisse una lettera al giudice per chiedere che suo foglio fosse curato. Molte delle scene che riguardano il padre sono prese proprio dal libro citato nella serie, A Father’s Story, per cui Lionel Dahmer venne effettivamente portato in tribunale da due delle famiglie delle vittime (e non tutte come nella serie).

È il momento di Evan Peters

Evan Peters è un attore rimasto purtroppo ancora poco conosciuto nel panorama televisivo e cinematografico.

Se avete seguito la saga degli X-Men dal 2000 in poi, indubbiamente lo ricorderete come Peter Maximoff, AKA Quicksilver. E purtroppo ha fatto poco altro di interessante, a parte una parte incredibilmente memorabile in American Animals (2018).

Si era anche fatto conoscere per un’altra serie di Ryan Murphy, American Horror Story, per poi essere scelto dallo stesso come protagonista di Dahmer, che gli sta assicurando un successo incredibile a livello internazionale.

E forse è anche ora che la sua bravura venga riconosciuta.

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Rings of power – Un piacevole prologo?

Rings of power è una serie tv Prime Video, racconto prequel de Il Signore degli Anelli.

La produzione seriale più costosa mai realizzata finora, con un budget di quasi 60 milioni di dollari a puntata: per fare un confronto, una puntata di House of the dragon costa circa 20 milioni ad episodio.

La narrazione è basata sui libri della trilogia classica ed una serie di appendici, scatenando le ire di molti puristi tolkieniani per la mancata fedeltà massima all’opera. Personalmente, non facendo parte di nessuno schieramento e considerandomi più una casual fan de Il Signore degli Anelli, ho potuto giudicare la serie a mente fredda.

E mi trovo in una posizione di mezzo.

Di cosa parla Rings of power?

La storia segue le vicende di diversi personaggi, generalmente tutte collegate all’avventura dell’elfa Galadriel, impegnata nella sua missione di vita di ritrovare Sauron e sconfiggerlo definitivamente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rings of power?

Un orco in una scena di Rings of Power, serie tv Amazon Prime Video prequel del Signore degli Anelli

Dipende.

In generale se siete dei tolkieniani duri e puri, e volete vedere una riproposizione dell’opera di riferimento, lasciate stare: non hanno i diritti per trasporre il materiale effettivo, è inutile accanirsi.

Se invece, come me, siete più dei casual fan della saga cinematografica, potrebbe essere un prodotto per i vostri gusti. Ma dipende anche da che tipo di serie state cercando: se vi piacciono le serie fantasy classiche (high-fantasy), con racconti corali, tantissimi personaggi e ritmi molto compassati, è assolutamente la serie per voi.

Se invece vi piace un fantasy più dark, con ritmi più incalzanti e che si basa più su intrighi politici che sull’elemento fantastico, avete sbagliato prodotto: è ora di cominciare House of the Dragon.

La gestione della storia

Markella Kavenagh nei panni della
pelopiede Nori in una scena di Rings of Power, serie tv Amazon Prime Video prequel del Signore degli Anelli

Per quanto non abbia personalmente apprezzato la gestione della trama, che ho trovato per i miei gusti troppo dispersiva, nel complesso può essere considerata un buon esempio di un prologo molto prolisso. La parte più attiva della vicenda è di fatto quella di Galadriel, ma in generale anche quella è solo la prima tappa di una storia ben più ampia.

Indubbiamente, la serie è stata un incontro di storie dal sapore molto diverso, così da riuscire a soddisfare i più diversi palati. E per me è stato decisamente rassicurante che, anche nella maniera più aspettata, tutte le storie si sono ritrovate collegate ad una più ampia linea narrativa.

Ad eccezione dei guizzi delle ultime puntate, la gestione della trama presenta ritmi davvero lenti e compassati, per nulla nelle mie corde. Tuttavia, è anche giusto che esista questo tipo di fantasy in linea con le tematiche e i ritmi tolkieniani.

Non possiamo tutti essere fan dei ritmi sfrenati di House of the dragons, insomma.

Galadriel è un personaggio problematico?

Morfydd Clark nei panni della
giovane Galadriel in una scena di Rings of Power, serie tv Amazon Prime Video prequel del Signore degli Anelli

Lasciando da parte le polemiche riguardanti la fedeltà del personaggio all’opera originale, il problema principale di Galadriel è la sua poca amabilità. E questo può essere una cosa positiva e negativa allo stesso tempo.

Negativa perché la sua caratterizzazione sembra scivolare in una tendenza piuttosto diffusa del panorama televisivo e cinematografico di non riuscire a raccontare personaggi femminili forti senza renderli al contempo anche sgradevoli. L’esempio principe è, ovviamente, Captain Marvel, personaggio proprio appiattito su questo concetto.

Tuttavia questo aspetto è anche positivo perché anche se la sua caratterizzazione non è particolarmente ampia, ma del tutto funzionale e organica al suo personaggio. Anzitutto perché è un’elfa, razza che, fuori e dentro le opere di Tolkien, è sempre caratterizzata da una certa alterigia.

In secondo luogo, è una donna testarda e tenace, che risulta in parte sgradevole agli stessi altri personaggi. Tuttavia, se non avesse questo carattere, non avrebbe mai convinto Númenor a salvare in parte le Southlands, non avrebbe scoperto Sauron e soprattutto avrebbe permesso allo stesso di impossessarsi degli Anelli del Potere.

La questione di Sauron

Sauron in una scena di Rings of Power, serie tv Amazon Prime Video prequel del Signore degli Anelli

Per quanto riguarda il personaggio di Sauron, gli autori hanno tentato un bell’azzardo, visto che in parte doveva inventare di sana pianta. Ovviamente consapevoli che sarebbe diventata la pietra dello scandalo, hanno giocato tantissimo su questo personaggio, disseminando indizi e false piste.

E io ho abboccato praticamente a tutto.

E va bene così.

Da un certo punto di vista ero molto convinta della scelta di rivelare che lo Straniero fosse Sauron, ma è anche vero che così si sarebbe entrati in un cortocircuito troppo complicato da gestire. D’altra parte, scegliere un attore con la faccia così pulita e amabile per questo ruolo e con un plot twist così potente, è stato molto azzeccato.

Aspetto i tolkieniani che vengano qui a spiegarmi perché è stata la scelta più sbagliata e inorganica mai presa, perché non ho dubbi che lo sia.

Ma, di nuovo, a me va bene così.

L’identità dello Straniero

Daniel Weyman nei panni dello Straniero una scena di Rings of Power, serie tv Amazon Prime Video prequel del Signore degli Anelli

Un importante mistero della serie era la vera identità dello Straniero. Per quanto la gestione della storyline dei Pelopiedi mi sia piaciuta a tratti, la sua conclusione è stata una delle mie preferite, perché getta le basi per una storyline che mi torna a far sognare il viaggio di Frodo e Sam.

E lasciatemi sognare.

Per il resto, come già detto, ho trovato molto credibile la rivelazione della sua identità. Per quanto ho visto molte persone arrovellarsi su diverse teorie, io credo che sia più scontato e digeribile per il pubblico di riferimento dire che si tratta o di Gandalf o di Saruman, indipendentemente da che questo sia coerente col canone o meno.

E, visto che Gandalf è uno dei personaggi più amati della saga (ed infatti è il mio preferito), ho idea che quella sia la direzione che prenderanno.

L’aspetto estetico

Morfydd Clark nei panni della
giovane Galadriel e Robert Aramayo nei panni di Elrond in una scena di Rings of Power, serie tv Amazon Prime Video prequel del Signore degli Anelli

L’aspetto estetico della serie è stato un po‘ il mio cruccio.

Non sempre, ma troppo spesso di sicuro, mi sono trovata a non credere a quello che vedevo in scena, nel senso che vedevo gli attori che recitavano in scena, e non i loro personaggi. Tanto più che anche quando questi dovrebbero essere più sporchi e naturali, come i Pelopiedi, li ho trovati invece molto finti.

Ma questo è un problema tutto mio, in quanto questa è l’estetica di Tolkien, tanto più pompata con un budget stellare. Perché sarebbe del tutto ingiusto dire che i costumi e gli oggetti di scena non siano stati al limite della perfezione, per quelli che erano gli intenti.

Andrò avanti a vedere Rings of power?

Per quanto abbia avuto un dubbio in certi momenti, soprattutto nella prima parte, questo finale mi ha davvero convinto a proseguire con la serie.

Con tutto che non mi ha entusiasmato, non mi sento ancora di gettare la spugna, perché come mi piace il Signore degli Anelli, spero che più nel lungo periodo anche Rings of power riesca effettivamente a convincermi.

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She-Hulk: Attorney at Law – L’offesa finale

She-Hulk è una serie tv MCU creata da Jessica Gao per Disney+. Una serie che si propone di abbracciare il genere comedy e legal, fallendo clamorosamente su entrambi i fronti. Ancora una volta ci troviamo davanti ad un prodotto Marvel sciatto, poco pensato, in questo caso ancora più aggravato dalla presenza di un male sociale: il sessismo interiorizzato e la sottile misandria socialmente accettabile.

Un prodotto vuoto e offensivo.

Ma di cui c’è moltissimo di cui parlare.

Di cosa parla She-Hulk?

Jennifer Walters è un’avvocata, nonché cugina di Bruce Banner, AKA Hulk. Per una serie di condizioni, una più improbabile dell’altra, anche lei acquisirà i poteri. Fra una perdita di identità e l’altra, cercherà di fare i conti con la sua nuova identità da supereroina.

Vi lascio il trailer, con cui vi farete esattamente un’idea del tipo di serie:

Vale la pena di vedere She-Hulk: Attorney at law?

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

No.

Non sono solita a non consigliare in toto le serie: persino per quella schifezza di Obi-Wan Kenobi ho provato a dare qualche motivazione sui motivi per cui potrebbe piacervi. In questo caso, a meno che i vostri gusti non siano rasoterra, difficilmente vi potrà piacere, non veramente.

Con questo intendo dire che se la tenete come sottofondo mentre rassettate casa, chiudete entrambi gli occhi, vi lasciate strappare una risata con battute da asilo nido, allora forse la potrete sopportare.

Ma, se mai avrete il coraggio di guardarla con convinzione, capirete l’immensità del nulla che questa serie tv rappresenta.

Cominciare male

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk e Mark Ruffalo nei panni di Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

Cominciamo dall’inizio, e cominciamo subito male.

La prima puntata sarebbe l’origin story del personaggio. E l’origin story più rapida della storia, oltre ad essere drammaticamente forzata. Totalmente a favore di camera, per un rapidissimo momento Bruce non ha i suoi poteri. Senza andare ad analizzare tutti i problemi di retcon di questa scelta, questo elemento è evidentemente fatto apposta e unicamente per creare la situazione di contaminazione del suo sangue con quello di Jennifer.

Perché sì, ovviamente se Bruce fosse stato Hulk non avrebbe potuto tagliarsi.

Da qui parte la sua origin story in cui non abbiamo nessun modo per empatizzare col personaggio e con le sue problematiche nell’accettare i suoi poteri, come sarebbe di fatto normale all’introduzione di un nuovo supereroe. Perché Jennifer è già perfetta così, non ha praticamente neanche il bisogno di essere allenata, né di controllare la sua rabbia.

E perché questo?

Perché è una donna!

Tanti villain, nessun villain

Jameela Jamil in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

La serie cerca continuamente (e con grande incapacità) di imbastire una trama e di raccontare dei villain ricorrenti. Il principale è quella meraviglia di Titania, personaggio che riesce a contenere al suo interno tutti i peggiori stereotipi riguardo agli influencer e alle donne in generale, nella bellissima macchietta della sgallettata.

Un villain inutile, noioso, e messo in scena all’occorrenza solo per dare un po’ di colore.

Ancora più imbarazzanti sono gli uomini che fanno parte del gruppo di odio contro She-Hulk: a parte l’idea veramente poco credibile che questi si incontrino come una specie di convention per rivalersi su She-Hulk, portano in scena tutti gli stereotipi degli uomini tossici.

E infatti il vero villain sono gli uomini in generale.

I veri villain: gli uomini

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

L’imbarazzo supremo di questa serie è proprio nel suo sessismo interiorizzato, che sfocia di fatto in una misandria che io bollo, senza praticamente l’ombra di dubbio, fatta con alcuna malizia (di cui dobbiamo parlare).

Di fatto, in She-Hulk abbiamo due tipi di uomini: il traditore e il miserabile.

La maggior parte degli uomini in scena sono indubbiamente dei miserabili: che sia l’Uomo-Rana, che sia il collega molesto, che sia in parte anche il gruppo di ascolto di Abominio, sono tutti un po’ miserabili a loro modo. Chi ha scritto questa serie sembra ingenuamente raccontare una paura, più comune di quanto pensiate, di totale antagonismo del femminile verso il maschile.

Così questo antagonismo è raccontato dalla figura del traditore, rappresentata fondamentalmente dai diversi uomini che vogliono avere una relazione con She-Hulk, ma non con Jennifer, arrivando ogni volta a tradirla e ad abbandonarla.

Con una splendida eccezione.

Che è comunque un problema.

Daredevil: una luce in fondo al tunnel?

Charlie Cox in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

La penultima puntata è anche la puntata dell’introduzione di Daredevil.

E, con la sorpresa generale di tutti, la stessa non è una schifezza. Questo semplicemente perché, contro ogni aspettativa, Daredevil non è stato quasi per niente adattato allo stile della serie, ma, al contrario, ha imposto una certa drammaticità alla scena. E questo è stato l’unico caso in cui un personaggio maschile non è stato appiattito nelle due categorie di cui sopra.

Ma questo per due motivi, nessuno dei due rassicurante.

La serie ha una writers’ room quasi totalmente femminile, tranne per due persone: Zeb Wells e Cody Ziglar. Il primo si è occupato della settima puntata, considerata unanimemente una delle meno peggio, mentre Ziglar ha scritto l’ottava puntata, quella di Daredevil.

Vedete il problema?

Quella che dovrebbe essere una serie femminile e femminista, fallisce in ogni puntata, tranne in quelle scritte da uomini. In particolare è abbastanza preoccupante che per gestire un personaggio importante come Daredevil si è sentita la necessità di chiamare un uomo che non è neanche uno sceneggiatore, che non si è mai occupato di Daredevil, e che è semplicemente un buon fumettista.

Sentirsi geniali, senza esserlo

Il finale è l’elemento che mi ha fatto veramente definitivamente gettare la spugna su questa serie.

A mio parere, ci sono due realtà nella puntata conclusiva: la realtà percepita dagli autori, e la realtà di cosa ne è venuto fuori. Secondo la percezione di chi ha scritto la puntata, questo era un finale geniale, che portava ad un colpo di scena pazzesco che alzava di diverse tacche la qualità della serie.

Poi c’è la realtà della puntata.

Chi ha scritto questa puntata, e tutta la serie in generale, è incapace di farlo, incapace di imbastire una trama, di creare dei personaggi credibili e degli antagonisti sensati. E questa incapacità è solo che confermata dalla fine di questa puntata.

Come gli autori pensavo di aver risolto il finale, in realtà lo stesso – che, ricordiamo, per loro stessa ammissione, è sconclusionatissimo – di fatto non cambia, portando ad una conclusione vuota, dove nessuna storyline viene veramente chiusa in maniera sensata o anche solo minimamente interessante.

Lo sfondamento della quarta parete

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

Lo sfondamento della quarta parete è uno degli elementi che ho personalmente più odiato di questa serie.

Ovviamente questa tecnica non se l’è inventata She-Hulk né la Marvel, ma ha origini antichissime. Nel teatro è quello si chiama il parlare a parte: banalmente, è il momento in cui un personaggio in scena si rivolge direttamente allo spettatore, di solito con l’inconsapevolezza degli altri personaggi. Un elemento che serve per arricchire la scena e la narrazione, oltre a creare una certa complicità con il pubblico.

E ovviamente in She-Hulk questo aspetto è totalmente fallimentare.

E per ben due motivi.

Lo sfondamento della quarta parete in She-Hulk

Anzitutto, per la mediocrità degli effetti speciali (di cui bisogna fare un discorso a parte): in non poche scene She-Hulk è resa talmente male che non guarda direttamente in camera, quindi non rende comprensibile che stia parlando effettivamente allo spettatore.

E non credo di dover spiegare quanto sia grave questa cosa.

Come se questo non bastasse, questa tecnica è utilizzata nelle intenzioni per rendere la serie più simpatica, in realtà è solamente irritante e in ultimo sembra che serva solo per giustificare le scelte idiote degli sceneggiatori.

Nascondere un’attrice (e male)

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

La pochezza degli effetti speciali utilizzati per She-Hulk è devastante.

Ma lo è ancora di più se si pensa a quale sia la materia prima.

Lasciando da parte il fatto che nella sua forma da Hulk il personaggio non c’entra niente con la sua controparte umana, nella maggior parte dei casi She-Hulk sembra semplicemente un elemento poco credibile della scena. Ed è un grande problema quando lo spettatore non riesce a credere a quello che vede sullo schermo.

Oltre a questo, pur non conoscendo Tatiana Maslany oltre a questo prodotto, posso dire sicuramente che non è per nulla un’attrice scarsa, anzi ha una capacità espressività più che buona, oltre a suscitare una naturale simpatia. E mi sarebbe piaciuto vederla.

E invece ho dovuto vedere She-Hulk.

Non far mai ridere

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

Su questa questione mi sento di andarci di più coi piedi di piombo, perché l’umorismo è una cosa molto soggettiva.

Tuttavia, mi sento anche di dire che ho la costante sensazione che, soprattutto nei prodotti più mainstream (non ho sentito questo problema in Eternals, per dire) il livello di comicità dell’MCU sia in un costante declino, forse per accontentare un pubblico sempre più ampio e anche sempre più giovane.

Perché ho davvero difficoltà nell’immaginarmi una persona sopra i tredici anni (ad essere generosi), che possa veramente sganasciarsi davanti all’umorismo di questa serie. E questo facendo la dovuta differenza fra ridere con la serie (ovvero delle battute che propone) e ridere della serie (ovvero del suo cattivo livello).

Ed è un elemento decisamente più importante quando ci troviamo davanti ad un prodotto che si definisce legal comedy, che quindi dovrebbe, per sua stessa natura, far ridere lo spettatore.

Perché She-Hulk non è una serie femminista

I motivi per cui She-Hulk non è la serie tv femminista tanto decantata si sprecato.

Ed è tanto più importante se si pensa che il femminismo odierno non è e non può essere più un femminismo elitario, in cui al centro del discorso ci sono esclusivamente le donne bianche e che si possono permettere di rivendicare i propri diritti.

Se si vuole essere veramente femministi ad oggi, si deve lottare per i diritti di tutti.

Anche degli uomini.

E se pensate che la narrazione sugli uomini di She-Hulk sia fondamentalmente innocua e per ridere, pensate a quanto può essere tossico il racconto di uomini rappresentati come deboli, miserabili e incapaci di portare avanti relazioni, che non hanno maturità emotiva e che pensano solo all’aspetto estetico e sessuale.

Come nasce questo modo di pensare?

Se c’è qualche uomo all’ascolto, mi dica se si sente rappresentato da questa serie.

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

Ma come nasce questo modo di pensare?

She-Hulk è un caso emblematico di sessismo interiorizzato, ovvero un modo di pensare e di agire basato su una serie di concetti discriminatori (in questo caso di genere) che sono stati così profondamente assimilati che non si è riusciti a superarli.

Da qui nascono concetti di diverse gravità: dall’infantilizzazione (gli uomini non si sanno gestire da soli senza una donna, non sanno sopportare il dolore…) fino a quelli di effettiva demonizzazione (gli uomini non sono capaci di avere relazioni emotive appaganti, pensano solo al sesso…). Tutte cose che avete sentito almeno una volta nella vita, soprattutto da donne.

Questo modo di pensare nasce in parte da una certa tendenza, più o meno violenza, di donne che (anche giustamente) sentono il peso di un’oppressione del maschile oggi come ieri, e vogliono (non giustamente) avere una rivalsa. E per questo rispondono screditando, infantilizzando e attaccando anche direttamente il maschile tutto, senza distinzioni.

Il sessismo interiorizzato in She-Hulk

Tatiana Maslany nei panni di She-Hulk in una scena di She-Hulk: Attorney at law, serie tv Disney+ e MCU

E She-Hulk abbraccia del tutto questo modo di pensare.

A dimostrazione fra l’altro di una mancanza di profondità di pensiero, che porta le autrici a fossilizzarsi su queste idee, anche inconsapevolmente. Tuttavia, rivelando anche un altro elemento sotterraneo e anche derivativo di questo modo di pensare:

La paura per il maschile.

La protagonista si sente continuamente osteggiata e aggredita dagli uomini in scena, che però non sono mai raccontati come effettivamente violenti o cattivi, ma più che altro come dei buzzurri e dei miserabili appunto, proprio per depotenziarli.

E come risultato abbiamo la storia di una donna che vive in funzione del maschile, in quanto sembra riuscire a definire sé stessa e il suo valore solamente tramite le relazioni.

Fra l’altro al contempo mettendosi sola al centro della narrazione, e andando a svalutare altre minoranze per cui dovrebbe invece lottare: l’uomo cinese che vende prodotti tarocchi, lo stilista gay che è una prima donna e femminilizzato nella maniera più stereotipata possibile…

Vogliamo davvero vivere nel mondo di She-Hulk?

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Only murders in the building – Ti racconto il mio cruccio

Only murders in the building è una serie tv Disney+ di genere mistery e comico, con protagonisti Selena Gomez, Steve Martin e Martin Short. Un prodotto arrivato ad oggi alla seconda stagione e già confermato per una terza.

Una serie che è un mio cruccio: la guardo con piacere, anche molto coinvolta, ne riconosco i vari e innegabili pregi…ma alla fine non rimango con un buon sapore in bocca.

Tuttavia, è una serie che dovete vedere per buonissimi motivi.

Di cosa parla Only murders in the building?

A seguito di un misterioso omicidio nel loro palazzo, un improbabile terzetto di protagonisti si ritrova non solo ad indagare il caso, ma anche a creare un podcast di successo.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Perché dovreste vedere assolutamente Only murders in the building

Selenza Gomez, Steve Martin e Martin Short in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Only murders in the building è una serie davvero imperdibile per molti motivi: l’ottima regia e messa in scena, una costruzione molto sapiente sia del mistero che dei personaggi in scena, colpi di scena ben calibrati e un intrigo per nulla scontato.

Tanti elementi derivati da una particolare cura per la totale partecipazione degli attori protagonisti nella produzione: sono tutti produttori esecutivi della serie, che significa che hanno ampissima voce in capitolo nella sua realizzazione, e Steve Martin è anche co-creatore.

Vi consiglio solo di non guardare le due stagioni una di fila all’altra: rendono molto meglio se guardate con una minima distanza l’una dall’altra.

Saper gestire un mistero

Selenza Gomez, Steve Martin e Martin Short in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Se avete una discreta conoscenza delle serie di genere mistery sapete che una gestione ottimale del mistero non è per nulla scontata, anzi. Ci sono non pochi casi di serie tv che costruiscono un mistero che sulle prime appare anche molto intrigante, ma che poi, arrivati alle battute finali, appare totalmente sconclusionato.

Non è il caso di Only murders in the building il quale, sopratutto per questa seconda stagione, mi ha ricordato Pretty little liars ai tempi d’oro. Un paragone infelice, ma vale come esempio vincente: alcune dinamiche sono simili, ma, come Pretty little liars è uno inconcludente accumulo di indizi e intrighi, Only murders in the building si dimostra ben più efficace e narrativamente organico.

Infatti sia nella prima che nella seconda stagione vediamo in scena una progressiva e intelligente rivelazione del mistero, con un colpo di scena finale in entrambe le stagioni che è ben costruito fin dall’inizio. In particolare, nella seconda stagione si è scelto di giocare con i falsi colpi di scena per un’intera scena.

Unica pecca di questa scelta: se si è abbastanza esperti di questo genere di prodotti, appare del tutto evidente come gli stessi colpi di scena siano finti anche prima che siano spiegati.

Pochi tocchi di sitcom

Selenza Gomez e Cara Delavigne in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Un elemento davvero peculiare di questa serie è il suo elemento sitcom: come proprio di questo genere, ci sono non pochi momenti nella prima stagione in cui vengono raccontati dei brevi archi narrativi che servono a far conoscere meglio i personaggi.

Degli archi narrativi che di fatto non torneranno più e che non hanno una vera influenza sulla trama generale, ma che di fatto la arricchiscono non poco. Alcuni fra l’altro anche molto toccanti come la relazione fra Howard ed il suo vicino di casa cominciata durante il blackout.

Un prodotto davvero inclusivo

James Caverly. in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Un aspetto non da poco della serie è la sua capacità di portare un tipo di inclusività per nulla scontata e autentica. In non pochi prodotti in ambito seriale e cinematografico prodotti e autori poco capaci banalizzano drammaticamente questo aspetto, tramite tokenism e girl power molto cheap.

Al contrario in Only murders in the building troviamo due figure raramente ben rappresentate.

Anzitutto Theo, interpretato da un attore effettivamente ragazzo sordo, James Caverly. La differenza da altri prodotti non è un semplice token, ma un personaggio estremamente importante che ha una delle puntate più belle dell’intera serie.

Infatti nella prima stagione la puntata The Boy From 6B, riesce a raccontare con ottimi tocchi di regia il punto di vista reale del personaggio. E il tema viene ripreso anche in maniera non poco interessante anche nella seconda stagione.

Only murders in the building

Christine Ko e Jayne Houdyshell in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Un altro tipo di rappresentazione che sta prendendo piede in questo periodo è quello della donna incinta smarcata dall’idea di maternità rassicurante. In questa stagione viene infatti introdotta Nina, che si rivela un personaggio molto tridimensionale: sulle prime appare un’arpia approfittatrice, poi dimostra il suo lato più umano, in particolare nella puntata del blackout.

Allo stesso modo ho particolarmente apprezzato che, quando Nina sta per partorire, la persona che interviene immediatamente non è il personaggio femminile spinto da un improbabile senso materno, ma Charles, con fra l’altro anche una simpatica motivazione alle spalle.

…e allora perché non mi piace cosi tanto Only murders in the building?

Nonostante tutti questi elementi indubbiamente positivi che mi hanno anche intrattenuto, ci sono due elementi che mi hanno impedito di essere davvero appassionata a questa serie.

Il primo e più importante è che, per motivi non del tutto chiari neanche a me, non riesco ad essere coinvolta coi protagonisti, nonostante, almeno per quanto riguarda Charles e Oliver, gli attori già di per sè sono molto affabili.

Ma nulla, non è mai scattata la scintilla.

La cosa peggiora per Mabel, il personaggio di Selena Gomez: nonostante si cerchi indubbiamente di raccontare un personaggio quando più tridimensionale, a pelle non mi è mai piaciuta, anzi l’ho trovata discretamente sgradevole.

Infine, e forse è anche l’aspetto che trovo più difettoso della serie, nonostante il finale sia ben costruito, non mi lascia mai un buon sapore in bocca. Il più delle volte mi dimentico tutto il contesto e non lo trovo alla fine così avvincente e interessante.

E a questo proposito…

L’omicidio alla fine della stagione è ridondante?

Come abbiamo visto recentemente per la saga di Una notte da leoni, non è per nulla facile gestire un brand quando lo stesso è basato su un elemento forte, ma non facilmente replicabile.

Nel caso di Only murders in the building perché alla lunga diventa poco credibile che questi personaggi siano coinvolti in un numero potenzialmente indefinito di omicidi.

Come, con mente più matura, abbiamo rivalutato (si fa per dire), la credibilità della storia della Signora in giallo e la sua scia di omicidi, cosi alla lunga questo elemento della serie potrebbe cominciare a stancare e a non essere così d’impatto.

Già con questo finale di stagione sono rimasta poco convinta.

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Better Call Saul – It’s all good, man.

Si è conclusa l’ultima stagione di Better Call Saul, la serie AMC (in Italia distribuita da Netflix) che racconta la nascita del personaggio di Saul Goodman, l’eccentrico avvocato che appare dalla terza stagione di Breaking Bad.

Si tratta quindi di uno spin-off, del migliore spin-off degli ultimi dieci anni (come minimo) e una delle migliori serie della storia della televisione, oltre che, per certi versi, anche più matura della serie madre. Se non sapete come approcciarvi alla serie, continuate a leggere. Se volete la recensione completa, passate direttamente alla parte spoiler.

Di cosa parla Better Call Saul?

Jimmy McGill è un ottimo avvocato, che però ha cominciato dal niente e deve occuparsi solo dei peggiori casi al tribunale pubblico. Ma lui ambisce molto di più, anche andandosi ad invischiare in giri poco puliti…

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Si può guardare Better Call Saul senza aver visto Breaking Bad?

Bob Odenkirk e Bryan Cranson in una scena di Breaking Bad, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

In linea teorica, essendo un prequel, si potrebbe fare. Tuttavia avrebbe lo stesso senso di vedere la Trilogia Prequel di Star Wars prima della Trilogia Originale: nessuno.

Better Call Saul è una serie concepita proprio per chiudere il cerchio su alcune questioni di Breaking Bad, quindi vive in funzione di essa. Vederla senza avere in mente il punto di arrivo toglie tutto il fascino.

Quindi, anche se è un percorso lungo, cominciate da Breaking Bad e approcciatevi secondo i giusti tempi alla visione di Better Call Saul.

Vi assicuro che non ve ne pentirete.

Vale la pena di vedere Better Call Saul?

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Better Call Saul è una serie imperdibile per diversi motivi: anzitutto, è una narrazione complessivamente organica, pur con qualche deviazione dal percorso principale. Guardando Better Call Saul infatti si vede l’evoluzione perfettamente bilanciata di tutti i personaggi in scena.

Oltre a questo, i personaggi sono incredibili per più ragioni, anzitutto perché sono drammaticamente grigi: non ci sono spiccatamente positivi o spiccatamente negativi, ma figure multiformi, tormentate da drammi e tensioni che si evolvono perfettamente nel tempo.

Infine, come se tutto questo non bastasse, la regia e la scrittura sono ad un livello superbo. Una delle migliori serie mai prodotte, per l’appunto.

Il dramma di Saul in Better Call Saul

La figura di Saul si articola in diverse personalità e alter-ego che raccontano i diversi momenti della sua vita, ma tutte con elementi comuni.

Slipping Jimmy

Bob Odenkirk e Michael McKean in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

La prima forma di Saul è Slippin Jimmy, un ragazzo che, fin da giovanissimo, era attirato verso le truffe e l’inganno del prossimo. In particolare il tutto si traduce in piccole e abbastanza patetiche truffe di strada con il suo amico Marco.

La fine di Slippin Jimmy è segnata da Chuck, che porta il fratello, dopo tanti anni che si era allontanato dalla famiglia, fuori di galera. Il tutto a patto che abbandoni quelle vesti e che metta la testa a posto.

Questo è il primo passo verso la transizione verso Jimmy McGill.

La chiusura definitiva avviene però solo più avanti, quando Jimmy torna per qualche tempo a fare truffe con Marco, fino alla morte dello stesso.

Jimmy McGill

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Il concetto intorno a cui gira un po’ tutta la narrazione è di come Jimmy sia fin dall’inizio portato verso fare le cose in grande. Inizialmente era solo un innocuo impiegato nell’azienda del fratello, che si occupava della posta.

In questa fase conosce Kim, al tempo già considerata come una brillante promessa per la HHM, e che è in parte l’artefice del suo cambiamento. L’inizio di tutto avviene infatti in un giorno qualsiasi, quando Jimmy si sente inadeguato davanti a Kim e Chuck che parlano di un caso.

E così decide di avvicinarsi alla professione di avvocato, tenendolo però nascosto a tutti.

Jimmy McGill

Dopo essere riuscito a raggiungere il suo obiettivo, ma senza essere accolto dentro alla HHM come sperava, comincia da zero presso il tribunale pubblico.

Jimmy incarna in questo senso veramente il sogno americano: un uomo lasciato a sé stesso, che nessuno aiuta e che, se non fosse così caparbio e pronto tutto, non arriverebbe da nessuna parte.

La figura di Jimmy McGill è la parte onesta di Saul: sicuramente non lavora sempre in favore della verità e della giustizia, ma nel complesso è portato verso la via più onesta e giusta.

Tuttavia, alla prova dei fatti, Jimmy non può essere veramente quella persona (almeno fino alla fine).

In questo senso è emblematico, all’inizio della seconda stagione, l’assunzione per Davis & Main: fin da subito Jimmy capisce che quel posto è perfetto, ma non adatto a lui.

E lo capisce per un evento banale, ma piuttosto eloquente, quando non riesce a trovare un posto per il thermos regalatogli da Kim nella nuova macchina aziendale, tanto da arrivare a rompere il vano per farcela stare.

E, lentamente, capisce che questa vita non è quella che più gli si addice.

Saul Goodman

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Saul Goodman è l’alter ego più importante di Jimmy, sempre presente e sotterraneo, pronto ad emergere.

Lo vediamo già quando promuove con degli spot televisivi il suo servizio di legge per gli anziani, nel suo modo di trattare i clienti, e, infine, quando deve scegliersi un nome per vendere gli spazi pubblicitari nella terza stagione.

It’s all good man.

Saul è una figura vincente, potente e infallibile, che non si ferma davanti a nulla.

Passo passo

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Il passaggio verso Saul è definito da più momenti emblematici, cominciando da quando, nella quarta stagione, dopo aver perso la carica di avvocato, passa un anno a lavorare in un negozio di cellulari.

E da subito trova un modo per sfruttare la situazione, creando questa realtà fittizia in cui ci ascoltano e in cui un cellulare usa e getta e non tracciabile, ovvero il suo prodotto, è assolutamente indispensabile.

La situazione è perfettamente definita quando Jimmy recupera la carica di avvocato, e decide di operare sotto un altro nome: Saul Goodman.

E si presenta subito ai clienti peggiori nel migliore dei modi: in una fiera di paese facendo un’offerta sui telefoni e offrendo sconti come un qualunque commerciante da strapazzo.

Ma questo è solo un avvocatucolo che aiuta i disperati, mentre per diventare davvero Saul Goodman e lavorare con i peggiori criminali bisogna aspettare la quinta stagione, quando Lalo gli chiede di intervenire per difendere Krazy8.

Il passo successivo non può essere che diventare avvocato di Lalo, il suo mulo, attraversare il deserto ed essere coinvolto in una sparatoria. Ma alla fine accettando tutto: il caldo, bere la propria urina, il viaggio sfiancante.

Il momento definitivo per Saul Goodman è l’abbandono di Kim: come dopo la morte di Chuck, Jimmy non ha più nessun motivo per essere Jimmy McGill.

Gene

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Saul è un personaggio eccessivo, quasi autodistruttivo.

E infatti, anche se non del tutto per colpa sua, Jimmy è costretto, alla fine di Breaking Bad, ad abbandonare le vesti di Saul. E allora diventa un mediocre commesso ad un negozio di Cinnamon Rolls in un centro commerciale, sotto al nome di Gene Taković.

La regia delle puntate del presente è davvero singolare: scene del tutto sui toni del bianco e nero, con musica malinconica, con cui solitamente si ambienterebbe una scena del passato.

Un forte contrasto con la fotografia generale della serie, che invece ha colori molto pieni. Quindi il presente è la realtà svuotata e senza significato, mentre il passato, nonostante tutte le vicissitudini anche terribili, era quello che valeva la pena vivere.

Il personaggio di Gene ci viene veramente rivelato nell’ultima stagione, quando si trova costretto ad architettare il furto al centro commerciale. Una macchinazione lunga e complessa, degna di Saul, che ha successo solo per la sua grande capacità di immedesimarsi in un personaggio.

E di raccontare, alla fine, la sua storia.

E da lì, ricomincia in parte ad essere di nuovo Saul.

Il rapporto con Chuck in Better Call Saul

Dipendenza

Il personaggio di Jimmy è fin da subito raccontato anche attraverso il suo rapporto con Chuck, il fratello che si crede malato e che Jimmy sa benissimo che non lo è.

Inizialmente, dopo essersi legato con il fratello la promessa di prendere una strada migliore per la sua vita, è incredibilmente timoroso nel deluderlo, nonostante Chuck dimostri più volte di non saper riconoscere le capacità del fratello.

Così, ad esempio, nella prima stagione, quando diventa per caso un eroe locale, lo nasconde consapevolmente a Chuck, per paura che il fratello possa pensare che di nuovo voglia mettersi in affari poco puliti.

E il suo desiderio di farsi riconoscere da Chuck ha radici molto lontane.

Dopo la parentesi disastrosa di Slippin Jimmy, Jimmy si rimette in piedi, lavora sodo e acquisisce il titolo di avvocato. Tuttavia questo non gli viene veramente riconosciuto né da Chuck né dalla HHM.

Si nota molto bene nella scena della prima stagione, quando Jimmy gli annuncia la sua carica di avvocato appena acquisita: Chuck gli rivolge dei sorrisi poco sinceri e stentati, e non lo sostiene davvero come dovrebbe.

Il primo momento di rottura arriva sempre durante il primo ciclo di episodi, quando Chuck ammette chiaramente e candidamente che il fratello non è un vero avvocato, e che la sua formazione non vale nulla.

Conflitto

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Il conflitto si accentua ancora di più con la nuova assunzione di Jimmy per Davis & Main nella seconda stagione.

Tuttavia fin da subito si conferma la bellezza del personaggio di Chuck: non banalmente cattivo, ma incredibilmente tridimensionale, che dal suo punto di vista ha tutte le buone ragioni del modo.

Per tutta la serie Chuck considera Jimmy ancora come Slippin Jimmy, non riesce a superare questa figura. Uno dei momenti più evidenti è l’incontro di Jimmy con Rebecca, la moglie di Chuck.

In quell’occasione il fratello si preoccupa in maniera anche piuttosto antipatica che Jimmy possa essere fastidioso per Rebecca, e, quando invece si rivela una piacevole compagnia, si dimostra infastidito.

Altro momento chiave che racconta le origini del conflitto è il racconto di Chuck a Kim riguardo al padre: un uomo specchiato, che aveva messo tutto sé stesso nel suo piccolo negozio, che si era visto costretto a chiudere per i ripetuti furtarelli di Jimmy.

E, come racconta Chuck, il padre non ci voleva credere, ed era morto poco dopo, con grandissimo dispiacere di Jimmy.

Quindi Jimmy per lui non è una persona cattiva, ma non può evitare di fare cose sbagliate e danneggiare gli altri. E sono sempre gli altri a rimetterci. Oltre a questo, Chuck non può sopportare che Jimmy sia sempre perdonato da tutti.

Questo antagonismo, neanche troppo sotterraneo, sfocia nella vendetta.

Vendetta

Bob Odenkirk e Michael McKean in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

La spirale distruttiva del loro rapporto nasce dalla follia di Jimmy di far credere a Mesa Verde che Chuck sia stato incapace di redigere i giusti documenti, facendo un banalissimo errore di inversione di due cifre dell’indirizzo della sede.

Questo piano fa uscire di testa Chuck, che fa di tutto per dimostrare la sua innocenza, arrivando a registrare la confessione di Jimmy.

E questo, apparentemente per dare una lezione al fratello, in realtà volendo ossessivamente dimostrarne l’inferiorità. Questo porta alla denuncia con cui Jimmy rischia di perdere il ruolo di avvocato e al terribile processo in cui Jimmy umilia e rivela come in realtà Chuck non sia veramente malato, almeno non di quello che racconta.

Da qui Jimmy, pur avendo una rivincita temporanea, non riesce a rimettersi in piedi e per questo si prende la rivincita decisiva: finge di dispiacersi per il fratello davanti all’impiegata attonita dell’assicurazione, svelando la situazione mentale del fratello e i grossi errori che sta facendo, cosa che la HHM aveva cercato di nascondere.

In questo momento Chuck sembra sicuro di sé stesso, ma in realtà è solamente apparenza.

Basta infatti arrivare al punto di chiudere con Howard, danneggiarlo economicamente con l’assicurazione, minacciare di denunciarlo e, infine di non accettare il tentativo di ricongiungimento con Jimmy, anzi sminuire del tutto il loro rapporto.

E, infine, perdere totalmente il controllo e togliersi la vita.

Rinascita?

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Dopo la sua morte, Jimmy resta in quasi completo silenzio per un’intera puntata.

Sa in cuor suo che il motivo per cui Chuck ha perso infine la testa è colpa sua. Ma, appena Howard racconta i suoi sensi di colpa, invece che ammettere quello che ha fatto, si sente immediatamente liberato dalle sue colpe. E torna alla vita.

La freddezza di Jimmy nei confronti del fratello si vede soprattutto quando legge con grande serenità la lettera di addio di Chuck, mentre Kim si commuove.

Ma l’ombra di Chuck lo perseguita: quando dovrebbe riconquistare il ruolo di avvocato, fa un discorso veramente bello e sentito alla commissione. Tuttavia non nomina Chuck e, per questo, viene considerato poco sincero.

Allora Jimmy, pur di riconquistare il suo ruolo, sfrutta la commozione che tante bugie ben piazzare posso creare e rende protagonista Chuck del suo monologo. E infine riesce a tornare avvocato, ma in realtà diventa di più: si registra come Saul Goodman.

Finalmente si è liberato di Chuck.

It’s all good man!

Il rapporto con Kim in Better Call Saul

L’influenza (positiva) di Kim

Bob Odenkirk e Rhea Seehorn in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Il personaggio di Kim è la controparte morale di Jimmy, il punto di riferimento positivo che riporta il personaggio sui suoi passi e verso le migliori decisioni.

La relazione con Kim si forma molto lentamente: si capisce fin da subito che i due hanno una relazione sessuale, ma poco altro. Sicuramente erano grandi amici da tempo, come si vede con i flashback di quando lavoravano insieme alla HHM.

Per tutto il tempo Kim è consapevole del personaggio di Jimmy e, non a caso, all’inizio della seconda stagione, cerca di mettere un paletto alla loro relazione: niente più attività illegali.

Tuttavia fin da subito Jimmy, per tutta la questione di Sandpiper e la class action, si dimostra ben poco trasparente, andando incontro ad azioni che potrebbero costargli il titolo di avvocato. E, continuamente, Kim va in suo soccorso, salvandolo da ogni problema.

Definirsi tramite Kim

Così Jimmy scegliere di rinunciare anche a guadagni facili e sicuri per aiutare Kim: così rinuncia ad aiutare i Kettleman nelle loro azioni legali per fare in modo che Kim ne risulti vincente, dopo che aveva quasi perso la faccia per questo cliente.

Così aiuta Kim nella pazzia che porterà al processo contro Chuck, facendo credere che il fratello abbia fatto un errore banalissimo come sbagliare l’indirizzo della sede, di nuovo per mettere in buona luce Kim.

La trasformazione verso Saul è definita tanto più Jimmy si allontana da Kim e le nasconde le sue azioni. In particolare nella terza stagione quando Jimmy porta avanti la sua attività poco trasparenti vendendo cellulari usa e getta, i due sembrano vivere due vite separate.

Addirittura Kim, per evitare di dover tornare sui suoi passi e lavorare con Jimmy, si rivolge a Schwaikart per coprire Mesa Verde e lo spaccia come se glielo avessero offerto loro.

La parte oscura di Kim

Rhea Seehorn in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Il personaggio di Kim è peggiorato da Jimmy, e lei stessa si lascia trascinare nelle truffe e nei loro inganni.

Queste scappatelle sembrano l’unico momento di eccitazione per Kim, nonostante rappresentino la sua parte più negativa, da cui sembra sempre cercare di distaccarsi. Ma, come ammette lei stessa nell’ultima stagione, era troppo divertente.

Questa situazione inizialmente è anche innocua, limitata a piccole truffe con avventori dei bar, come puro divertimento senza conseguenze. Ma la situazione diventa incontrollabile con il piano per screditare Howard, che è Kim stessa a suggerire alla fine della quinta stagione.

Il piano è folle, arzigogolato, ma progettato e portato avanti con grande intensità da Kim stessa, che addirittura rinuncia ad un importantissimo appuntamento lavorativo per poter portare a termine efficacemente il piano, diventato quasi un’ossessione.

Quando Kim si distacca da questa parte più oscura di sé stessa, si rende conto che tutto è fuori controllo. Così, quando cerca di far quadrare la relazione e sposare Jimmy, con un tentativo disperato di far quadrare la situazione.

Infatti, appena Jimmy comincia a dirle la verità e lei prova ad opporsi, si rende conto di non avere comunque nessun potere su di lui e sulle sue scelte.

Dopo Kim

Bob Odenkirk in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

L’abbandono di Kim è l’ultimo momento del passaggio a Saul Goodman.

Un’ellissi temporale improvvisa, ma forse dovuta, che ci lascia senza parole. E vediamo Saul che è davvero Saul, in una casa incredibilmente cheap, un atteggiamento e una presenza scenica che lo rende quasi una macchietta di un truffatore di terza categoria.

Ed è praticamente quello che abbiamo visto in Breakin Bad.

Solo che ora sappiamo tutto il dramma che c’è dietro. Ed è ancora più devastante per l’atteggiamento davvero meschino che Saul ha nei confronti di Kim: sia nella scena dove firmano le carte del divorzio, sia quando la chiama nel presente e comincia ad attaccarla verbalmente.

Jimmy, senza Kim, è un uomo totalmente perso.

Il personaggio di Kim

Farsi da soli (per bene)

Rhea Seehorn in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Come Jimmy, anche Kim è una donna che si è fatta da sola.

Da anni sotto l’egida della HHM, deve pagare con i soldi e con il tempo la sua possibilità di fare carriera. Non a caso nei flashback la si vede lavorare nel seminterrato e insieme a Jimmy.

Infatti negli Stati Uniti la cosiddetta law school è frequentabile solo dopo l’università, già di per sé molto costosa. E per questo ci si fa aiutare da firme importanti per la parte di studio con l’idea di poter poi fare carriera.

Il primo momento importante avviene alla fine della seconda stagione, quando Kim riesce finalmente a mettersi in proprio con Jimmy, prendendosi sulle spalle tutto il peso del caso di Mesa Verde.

Un peso abbastanza terribile, ancora più appesantito dalle azioni di Jimmy: per quanto il trucco folle dello scambio di numeri nell’indirizzo di Mesa Verde le permetta di ottenere il cliente, proprio per questo Kim diviene ossessionata per la minima virgola.

Kim è apparentemente inarrestabile e raggiunge il suo apice quando sceglie di accettare un altro cliente oltre a Mesa Verde, in realtà solo per dimostrare ad Howard, oltre che a sé stessa, di saper fare tutto.

Da qui si innesca un climax delirante, che raggiunge l’apice con l’improvviso e inaspettato incidente d’auto.

Trovare la propria strada

Rhea Seehorn in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Il momento successivo con cui Kim cerca di essere felice è quando decide di dedicarsi alle cause pro bono.

Col tempo il lavoro per la banca diventa sempre più un obbligo che un piacere, tanto che Kim, pur di salvare l’uomo che Mesa Verde cerca di sfrattare dalla sua casa, va contro il suo cliente e complotta con Jimmy per mettergli i bastoni fra le ruote.

Il momento finale è il distacco definitivo da Mesa Verde, per dedicarsi definitivamente alle cause pro bono. Questa situazione di apparente felicità è totalmente guastata dal suo cercare di stare dietro a Jimmy e alle sue pazzie, con il climax, appunto, rappresentato dal piano ai danni di Howard.

E il punto più basso è proprio al funerale della loro vittima: se guardate il dialogo fra lei e la vedova di Howard, noterete il gesto che fa Kim con la mano prima di inventare la peggiore calunnia che poteva inventarsi: è il gesto tipico di Saul Goodman.

A quel punto Kim capisce di aver davvero dato il peggio di sé, e finalmente parla a cuore aperto.

E scappa.

Reinventarsi

Rhea Seehorn in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

La conclusione della storia di Kim è complessivamente positiva e di fatto analoga al percorso che abbiamo visto nel resto della stagione.

Kim deve distaccarsi dalla sua vecchia vita, è obbligata ad un lavoro ed a delle frequentazioni che in maniera evidente non sono alla sua altezza e non la soddisfano.

Cerca parzialmente di riabilitarsi portando la sua confessione riguardo alla vicenda di Howard alla polizia. Ma in realtà questa stessa si rivela fondamentalmente inutile, perché probabilmente non porterà ad una vera punizione.

E trova infine una realizzazione proprio in pro-bono, ma in forma diversa: un’associazione per aiutare le donne vittime di violenza, una buonissima causa dove può finalmente ritrovare sé stessa, pur dopo aver perso tutto.

Il personaggio di Mike in Better Call Saul

Gli inizi

Johnathan Banks in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Mike inizialmente appare come il tenace e silenzioso operaio del parcheggio, ma noi da Breaking Bad sappiamo di che personaggio si tratta.

Cominciano a vedere la sua storia solamente a metà della prima stagione: in un commissariato totalmente corrotto, il figlio Matt non volevo farsi coinvolgere nel giro di mazzette e viene, per questo, ucciso.

E la storia di Mike inizia proprio con la sua vendetta per il figlio compianto.

La sua vita criminale vera e propria nasce più per bisogno che per volontà: come potrebbe godersi la pensione, Mike decide invece di aiutare economicamente la famiglia che gli è rimasta, anche se questo significa andarsi a cacciare nuovamente in attività al limite della legalità.

Tuttavia una cosa non può sopportare: uccidere qualcuno, arrivare a quel livello. E infatti nella seconda stagione preferisce fare picchiare a sangue da Tuco piuttosto che ucciderlo.

Una morale di ferro

Johnathan Banks e Giancarlo Esposito in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Solo nella terza stagione Mike viene per la prima volta a contatto con Gus, proprio per la questione di Hector, e diventa direttamente suo dipendente. Questo suo nuovo rapporto, ben più pericoloso che fare il bodyguard per scambi commerciali poco puliti, dovrebbe mettere in discussione la sua moralità.

Ma Mike è un uomo di ghiaccio, indurito dalla vita, che non ha paura di niente, neanche di mettersi contro Gus. Il momento decisivo è la quinta stagione, quando Mike si trova a gestire le teste calde degli operai che dovrebbero costruire il futuro laboratorio di Gus.

Mentre il problema sembrano i ragazzi più giovani che Mike tratta col pugno di ferro, in realtà la mina vagante è Wilmer, il caposquadra. Lo stesso scappa per andare a trovare la moglie, sicuro di poterla passare liscia.

Ma, nonostante Mike cerchi di salvarlo in tutti i modi, non può salvarlo dal giudizio di Gus.

E ed è costretto, contro ogni suo principio, a ucciderlo a sangue freddo.

Howard in Better Call Saul

Un villain…

Patrick Fabian in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Howard non è propriamente un villain di Better Call Saul, ma è certamente un antagonista importante per la maggior parte della serie.

Possiamo dire quasi che è un antagonista nella mente di Jimmy, che lo vede come tale e cerca di mettersi in opposizione con lui, prendendo sulle spalle la vendetta insoluta verso il fratello.

Più avanti nella prima stagione scopriamo che l’odio di Jimmy per Howard ha radici più profonde: era stato Howard a dirgli, con assoluta freddezza e mancanza di tatto, che non l’avrebbero assunto per la HHM, nonostante avesse conseguito il titolo di avvocato.

Tuttavia poi veniamo a scoprire che Howard per due volte ha negato il ruolo a Jimmy, ma non per sua volontà, ma su richiesta di Chuck.

E così il personaggio ha una profondità decisamente diversa.

…o la vittima?

Patrick Fabian in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

In generale, Howard rimane un personaggio di difficile lettura.

Come sembra spietato ed eccessivamente severo per come tratta più volte Kim nelle prime stagioni, così è lui stesso le rivela che era più severo con lei perché pensava dovesse spingerla a dare il meglio di sé.

Una sorta di antagonista che non sa di essere un antagonista.

E infatti dimostra tutte le sue buone intenzioni quando, con grande ingenuità, offre a Jimmy di tornare da HHM come avvocato. Invece Jimmy lo disprezza, cerca di metterlo in difficoltà, di punirlo, a parole per aver ucciso il fratello, nella realtà come capro espiatorio per la sua frustrazione verso Chuck e la HHM.

E alla fine lo uccide veramente.

L’ascesa di Gus in Better call saul

L’ossessione per Hector

Mark Margolis in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

Better Call Saul si propone anche di raccontare l’ascesa di Gus come magnate della droga e come lo vediamo in Breaking Bad. In realtà Gus non lo vediamo di fatto molto diverso o con una vera evoluzione: appare da subito come freddo e calcolatore.

Il primo approccio al personaggio è nella seconda stagione, con il personaggio di Mike: Gus lo incoraggia a danneggiare la catena operativa del suo avversario, ma non vuole che lo uccida.

Solo Gus può uccidere Hector (e viceversa).

E infatti Gus è ossessionato da Hector, tanto che, quando questo è in coma, solo lui vuole decidere come intervenire sulla sua sorte. E, quando vede che effettivamente Hector è ancora sé stesso, solo paralizzato, decide che può essere lasciato così, senza provare a migliorare ulteriormente.

Ma di fatto noi sappiamo che Gus sta sottovalutando Hector, che si rivelerà una minaccia ben maggiore successivamente.

La vera malvagità: Nacho

Michael Mando in una scena di Better Call Saul, serie tv AMC in Italia distribuita da Netflix

La vera malvagità del personaggio di Gus si vede nel suo rapporto con Nacho, che comincia inizialmente come personaggio secondarissimo, prima nel ruolo del piccolo pesce che si approfitta della situazione per condurre i suoi affari sottobanco.

Una figura abbastanza imperscrutabile, che si preoccupa profondamente per il padre, arrivando addirittura ad attentare alla vita di Don Hector. Però la cosa gli si rivolta contro, rendendolo di fatto una vittima e una spia per Gus.

E questo non ha alcuna pietà nei suoi confronti, ma lo sfrutta fino all’ultimo, rendendolo il capro espiatorio dietro al quale nascondersi per la questione di Lalo.

Tuttavia Nacho, alla fine, riesce a prendersi la sua rivincita: prima di morire, sputa in faccia ad Hector tutta la verità e si toglie la vita da solo, andandosene secondo le sue regole.

L’ultimo nemico: Lalo Salamanca

L’ultimo nemico che Gus si trova a dover fronteggiare è Lalo, che cerca di riscattare la famiglia Salamanca.

Introdotto improvvisamente alla fine della quarta stagione, diventa da lì fondamentale. Infatti, quando sembrava che i Salamanca, con la dipartita di Hector, fossero diventati insignificanti, arriva Lalo.

Lalo è di fatto un’altra faccia di Gus: apparentemente amichevole e guascone, è in realtà un terribile macchinatore, spietato e vendicativo. Così crea tutto un’astuzia articolata per incastrare e smascherare Gus, portandolo ad un ultimo scontro finale.

Uno scontro che si risolve con la sua morte, ma che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino all’ultimo.

E Lalo se ne va sempre a modo suo: con il sorriso.

Better Call Saul è il giusto finale

Il finale di Better Call Saul racchiude tutta l’essenza del personaggio.

Una carrellata di flashback, con tantissimi riferimenti alle stagioni passate (Jimmy che viene trovato in un cassonetto come nella prima stagione, l’inquadratura sul cartello EXIT mentre parla di Chuck…), che servono a chiudere il cerchio.

In questa puntata Jimmy è semplicemente Jimmy, che si riveste per l’ultima volta del personaggio di Saul: lo ha interpretato per tanti anni ormai, e in ultimo nella sua falsa testimonianza contro Kim.

Ma infine confessa: la prima vera confessione in cui accetta tutto quello che ha fatto, tutti i danni che ha provocato. E si dimostra, per una volta, veramente pentito.

E allora non sceglie più la via facile, non la pena ridotta tramite trucchetti. Al contrario pure tutta la vita in prigione, potendo scontare di meno con la sua buona condotta.

D’altronde, it’s all good man.

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The Sandman – Al limite

The Sandman è una serie Netflix di recente uscita, tratta dalla graphic novel omonima di Neil Gaiman. Un autore che è diventato molto popolare negli ultimi anni: le sue opere sono state il punto di partenza per diversi prodotti seriali, fra Lucifer e American Gods, con risultati altalenanti.

Io sono stata impressionata dalle capacità narrative di Gaiman fin da Coraline (2002), prodotto che è riuscito a traumatizzarmi sia per il lungometraggio animato che per la sua controparte cartacea.

Tuttavia, ero in grande dubbio sulla riuscita di questo prodotto, per la poca soddisfazione che mi aveva dato Lucifer, e pure American Gods a lungo andare. Ma soprattutto ero scettica visto il tipo di produzione che c’era dietro, quella di Netflix, non sempre propriamente associata a prodotti di qualità.

Invece, sono rimasta sorpresa.

Alla fine della recensione troverete anche un interessante approfondimento dedicato al confronto col fumetto, scritto da una mia cara amica appassionata dell’opera di Gaiman.

Di cosa parla The Sandman?

Sandman è un’entità con vari nomi (Sogno, Morfeo…), che presiede il mondo dei sogni e degli incubi. Dovrà scontrarsi con diverso nemici, anche a lui molto vicini, con vicende quasi antologiche che ci accompagneranno nella scoperta del suo personaggio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Sandman?

Tom Sturridge in una scena di The Sandman, serie tv Netflix tratta dall'omonima graphic novel di Neil Gaiman

Decisamente sì, e lo dico da persona che è rimasta sinceramente sorpresa vedendo la serie. Infatti, come anticipato, dopo essere rimasta abbastanza scottata dalla deriva di Lucifer e dalla discreta delusione di American Gods, non ero del tutto sicura che mi sarebbe piaciuta e non avevo un reale interesse.

E invece è un prodotto che è stato capace di gestire nel migliore dei modi la materia originale, sotto l’occhio esperto di Gaiman, con davvero poche sbavature. Aspettatevi quindi una serie che ha alcuni elementi in comune con gli altri prodotti precedentemente citati, ma che è su un livello decisamente più alto.

Vivere al limite

Tom Sturridge in una scena di The Sandman, serie tv Netflix tratta dall'omonima graphic novel di Neil Gaiman

Per la maggior parte della serie io ero abbastanza tesa, perché avevo già visto come la materia di Gaiman, con il suo incontro fra mitologia e modernità, se trattata malamente, potesse sfociare nel trash più becero.

E non aiutava l’estetica, del tutto peculiare, che rimanda ad un immaginario molto tipico della serialità degli Anni Novanta e primi Anni Duemila, dove tutto sembrava finto e posticcio.

E invece la produzione di The Sandman si ferma sempre al punto giusto, raccontando un immaginario interessante e mai eccessivo, con fra l’altro degli ottimi effetti speciali, anche in questo caso con pochissime sbavature.

Una conduzione peculiare

David Thewlis in una scena di The Sandman, serie tv Netflix tratta dall'omonima graphic novel di Neil Gaiman

Allo stesso modo mi ha sorpreso la modalità della narrazione: un’abile gestione di una trama sia orizzontale (ovvero della storia complessiva) che verticale (quasi autoconclusiva per alcuni episodi). La storia è gestita con piccoli archi narrativi che arricchiscono il world building e che portano avanti la storia in maniera complessivamente molto organica.

La serie di fatto racconta la caduta e la rinascita di Morfeo, ma al contempo la arricchisce con una serie di vicende più o meno secondarie, e con una carrellata di personaggi uno più interessante dell’altro. Fra tutte, ho particolarmente apprezzato la puntata 24/4 con David Thewlis, attore che fra l’altro mi piace moltissimo. Ma anche lo scontro fra Sogno e Lucifero in A Hope in Hell, e così anche la puntata The Sound of Her Wings dedicata a Morte.

Purtroppo mi ha un po’ meno convinto l’arco narrativo finale, con protagonista Rose. Infatti, davanti alla grande originalità del prodotto, gli ultimi tre episodi li ho trovati scorrere su binari più prevedibili e consolidati, che non sono riusciti a conquistarmi.

Un protagonista in divenire (e la sua spalla)

Tom Sturridge in una scena di The Sandman, serie tv Netflix tratta dall'omonima graphic novel di Neil Gaiman

La particolarità di The Sandman è che il suo protagonista è sempre in divenire, ma non in maniera forzata e poco organica, come accadrebbe in diversi prodotti di questo tipo. Sogno è per la maggior parte del tempo un personaggio immutabile ed etereo, soprattutto nei primi momenti della serie, in cui parla solo come voce narrante.

Tuttavia il suo confronto sia con gli umani sia con altre entità lo porta a mettersi alla prova, a dimostrarsi più volte fallibile, e, infine, a compiere un interessante arco evolutivo. L’attore, poi, sembra nato per il ruolo.

Molto indovinata anche la sua spalla, Matthew, che vive in funzione dello spettatore, per fare le giuste domande e per permettere ai personaggi di spiegarsi su cose che già sanno, senza che questo risulti forzato o didascalico.

Personaggi iconici

In The Sandman si vedono personaggi che fin dalla prima apparizione sono perfettamente identificabili e iconici. Anzitutto Lucifero, che ovviamente non può essere identificato con un genere, e che quindi si è scelto di far interpretare da un’attrice dai tratti androgini.

Una figura che si discosta dall’estetica del fumetto (ispirata a David Bowie), avvicinandola più che altro all’estetica del putto barocco, con un contrasto assolutamente vincente fra la sua eleganza angelica e la minaccia delle sue imponenti ali nere.

Ma la punta di diamante è stato sicuramente Desiderio: appena è apparso in scena, non ho avuto dubbi di chi si trattasse, tanto era convincente la sua estetica. Fra l’altro la produzione ha avuto l’ottima pensata di castare un interprete non-binary e che già di suo abbraccia l’estetica del suo personaggio.

Un andamento positivo, che vede uno spiraglio per questi interpreti anche nelle produzioni statunitensi, come già visto in Euphoria con Hunter Schafer, per cui è stata fatta un’operazione molto simile.

Il significato del sogno in The Sandman

Una delle colonne portanti della serie è il concetto di sogno, ben più ampio di quello che ci si potrebbe immaginare.

Il sogno non è solo quello in cui ci si immerge quando si dorme, ma un elemento fondamentale per l’umanità, da viva e da morta.

Infatti gli umani da vivi, se non avessero un sogno, quindi una speranza da inseguire, non avrebbero più volontà di vivere. E così i serial killer nella penultima puntata, privati del loro sogno di essere le vittime, si rendono conto della loro condizione bestiale ed egoistica, e si tolgono la vita o si costituiscono.

Ancora più interessante come viene raccontato nella puntata A Hope in Hell, quando Dream ricorda a Lucifero che i suoi dannati, se non sognassero il paradiso, non soffrirebbero più la loro condizione.

Un concetto potente e interessante.

Due parole sulla puntata bonus di The Sandman

La puntata bonus di The Sandman è stata un piccolo e gradito regalo per tutti gli spettatori che si sono appassionati alla serie. E fra l’altro un segnale molto positivo della produzione verso una a questo punto molto probabile seconda stagione.

Delle due storie ho sinceramente preferito la prima, anche se più stringata e veramente tanto surreale: un modo per raccontare i sogni dei gatti e delle possibilità della della malvagità umana. Il sogno per una sorta di paradiso dei gatti, più selvaggio ma anche più giusto, per certi versi.

Meno interessante a mio parere la seconda storia, Calliope: per certi versi mi è sembrato un more of the same della prima puntata, che non va particolarmente ad approfondire una tematica, ma ripropone questioni già ampiamente trattate nelle altre puntate.

Il confronto con il fumetto

The Sandman: quanto è fedele al fumetto?

Fin dall’uscita dei primi trailer della serie Netflix, si è parlato molto di affinità e differenze con il capolavoro a fumetti di Neil Gaiman, ma quanto è davvero fedele la serie all’opera originale e a cosa sono state dovute certe scelte?

Andando con ordine, ecco un’analisi di come sono stati rappresentati l’ambientazione, i personaggi e gli eventi in questa prima, riuscita stagione.

L’ambientazione

Le scelte estetiche dell’adattamento si rifanno molto ai telefilm di genere degli Anni Novanta, aspetto che chi leggeva il fumetto proprio in quegli anni non potrà non apprezzare. Nella storia originale, infatti, la fuga di Sogno raccontata nelle prime due puntate della serie avveniva in un tempo più o meno contemporaneo all’uscita del primo volume, tra l’88 e l’89.

Essendo però la serie di Netflix uscita il 5 agosto di quest’anno, a più di trent’anni di distanza, la scelta è stata quella di mantenere l’aspetto della contemporaneità  attualizzando gli eventi, dunque fondamentalmente spostando la fuga di Sogno di una trentina d’anni. Dal punto di vista narrativo questo ha permesso di aprire una piccola storyline [linea narrativa] sul personaggio di Alex Burgess, figlio del negromante Roderick Burgess, che perpetuerà la prigionia di Sogno dopo la morte del padre, coprendo quell’intervallo di trent’anni di differenza con la saga a fumetti.

Alex Burges

Il risultato è stato un buon compromesso tra l’esigenza di mantenere l’atmosfera originale – resa appunto tramite i richiami alla serialità di genere degli Anni Novanta – e l’esigenza invece di rendere l’opera il più possibile fruibile dagli spettatori odierni. Unica grande pecca: i fastidiosi effetti bagliore presenti dalla prima all’ultimissima scena della stagione: questi sono ripresi – bisogna concederlo – dalle copertine e dai numerosi artwork presenti nei fumetti originali, che univano fotografia e disegno con giochi di pattern e sovrapposizioni molto peculiari.

La resa su schermo però è tutt’altro che gradevole e restituisce impressioni ben diverse da quelle oniriche e astrattiste del fumetto, anzi, finisce per dare un’aria cheap [dozzinale] al prodotto, come se la produzione non avesse avuto abbastanza budget per i fondali. Questo a riprova del fatto che trasporre un’opera da un media all’altro dovrebbe richiedere più di un becero copia e incolla, ma di tradurne i linguaggi.

Lo stesso espediente o la stessa scelta estetica possono avere una resa del tutto diversa a seconda del media attraverso il quale sono veicolati, quindi alcune variazioni si rendono necessarie nelle trasposizioni per garantire certi standard di fruibilità, qualità e coerenza.

Questa stagione è ispirata ai primi due volumi (dal n.1 al n.16) del fumetto, che caso vuole siano anche quelli dalle ambientazioni più  concrete e terrene, ma se la serie continuerà – come spero – a seguire la trama dell’originale, dovrebbero esserci ambientazioni sempre più astratte e concettuali.

Vedremo come se la caveranno in quel caso.

I personaggi

Sogno nel fumetto The Sandman di Neil Gaiman

Tom Sturridge, il bravissimo interprete di Sogno, ha affermato che inizialmente avevano provato a dargli un look più fedele a quello del fumetto: capelli blu notte folti e sparati in ogni direzione, un cerone bianchissimo sul viso e le stelle negli occhi.

Sorpresone, il risultato era piuttosto ridicolo e poco organico. Tra l’altro, si tratta di un personaggio che viene introdotto al pubblico bloccato in una palla vetro, nudo, senza potersi muovere o parlare. La possibilità dell’attore di esprimersi attraverso espressioni facciali e piccoli movimenti del corpo – che diventa dunque estremamente importante – avrebbe rischiato di essere compromessa da un trucco pesante.

Hanno quindi continuato a provare trucchi e parrucchi diversi, senza trovarne uno convincente finché, a detta di Sturridge, non si sono resi conto che lui è già insanamente pallido, ha già i capelli molto scuri e, se lo guardi nel profondo degli occhi, puoi vedere il cosmo.

Non c’è bisogno di fare modifiche per farlo sembrare un essere eterno.

Gli altri

Sogno e Morte nel fumetto The Sandman di Neil Gaiman

Se su Sturridge non posso certo dissentire, sul personaggio di Morte ho invece qualche riserva in più. Se l’attrice Kirby Howell-Baptiste rende bene il carattere sicuro, dolce e affabile del suo personaggio, il costume non le rende giustizia, abbandonando i tratti mistici e punk del suo aspetto a favore di un’estetica che ricorda tanto un prodotto di scarsa qualità come l’adattamento di Shadowhunters.

Il maggiordomo di Sogno nel fumetto The Sandman di Neil Gaiman

Ci sono poi alcuni personaggi del cui casting si è parlato in termini di gender swap [scelta di cambiare genere a un personaggio] o presunto tale. Lucienne, aiutante di Sogno che si occupa della biblioteca nel palazzo dell’eterno, nel fumetto è un uomo bianco dall’aspetto vagamente elfico, mentre nella serie è interpretato dall’attrice nera Vivienne Acheampong, che riesce, a dispetto del phisique du role decisamente diverso, a rendere il personaggio in maniera fedelissima alla saga fumettistica, soprattutto nel suo rapporto con Sogno.

John Costantine nel fumetto The Sandman di Neil Gaiman

John Constantine nella serie diventa Johanna, questo a detta di Gaiman per rendere il personaggio più accessibile al pubblico di oggi, che potrebbe non avere con il personaggio originale, all’epoca del fumetto già molto popolare e titolare di una saga sua, la stessa familiarità che aveva il pubblico degli Anni Novanta.

Lucifer nel fumetto The Sandman di Neil Gaiman

Ultimo ma non ultimo il personaggio di Lucifero, che non avrebbe avuto senso far interpretare a Tom Ellis (interprete di Lucifer) per il mood [l’atmosfera] totalmente diversa della serie. È stata scelta invece la grandiosa Gwendoline Christie, già popolare per Game of Thrones. In questo caso, come ribadito dallo stesso Gaiman, non si può parlare di gender swap, perchè il Diavolo non ha genere. Per chi non conoscesse il fumetto, Lucifero è disegnato con le fattezze di David Bowie: prendere il testimone da un’icona del genere non dev’essere facile, ma per noi l’attrice ha raggiunto l’obiettivo.

Gli eventi

La serie è incredibilmente fedele alla trama dei fumetti, la differenza maggiore è la proroga di 30 anni della prigionia di Sogno, che apre una piccola digressione sul figlio del suo carceriere, Alex Burgess.

C’è poi un evento che non è stato gestito benissimo, ma costituisce uno spoiler che non raccomanderei a chi non abbia visto la serie, quindi andate avanti a leggere a vostro rischio e pericolo.

Si tratta della questione della gravidanza di Unity Kinkaid, che da come viene descritta nella serie sembrerebbe essere originata da un concepimento avvenuto in sogno, come nel caso di Lytha Hall, l’amica di Rose. Nel fumetto è invece chiaro come questo sia stato purtroppo originato da uno stupro.

In ultimo chiudiamo con un interessantussimo video in cui Neil Gaiman commenta il trailer della serie e racconta dei retroscena della produzione:

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Ms Marvel – Un arco distruttivo

Ms Marvel è l’ultima serie dell’MCU uscita su Disney+ questestate. Un prodotto che sembrava portare un po’ di aria fresca, sperimentando con il genere teen drama e facendo (a parole) espliciti paragoni con lo Spiderman di Tom Holland.

In realtà, ad eccezione delle prime due puntate, sostanzialmente è sempre la stessa minestra: una serie Marvel che segue i soliti schemi, con una produzione molto pasticciata e di grande mediocrità.

Di cosa parla Ms Marvel?

Kamala Khan è una ragazzina che abita nel Queens, parte della vivace comunità musulmana e grandissima fan di Captain Marvel. A sorpresa, grazie ad un amuleto della sua famiglia, acquisirà degli incredibili poteri che cambieranno completamente la sua vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ms Marvel?

Iman Vellani in una scena di Ms Marvel, serie tv Disney+ parte dell'MCU

Dipende.

A mio parere questa serie vale la pena di essere vista unicamente per due motivi: se non volete (come me) perdervi nessun prodotto dell’MCU e se vi piacciono in generale le serie Marvel uscite finora.

Se avete paura di trovarvi davanti ad un prodotto teen, vi posso rassicurare: questo elemento è presente unicamente nelle prime due puntate, poi si perde con grande facilità.

In generale una serie molto discordante al suo interno, che sembra essere scritta da persone che non sono state in grado di comunicare, piena di contraddizioni e incapace di portare una produzione davvero organica.

Ma, di nuovo, se vi piacciono questo tipo di prodotti, guardatela senza problemi.

Cominciare in un modo, finire…

Iman Vellani in una scena di Ms Marvel, serie tv Disney+ parte dell'MCU

Come anticipato, questa serie manca, ancora più di altre serie di questa produzione, di una coerenza produttiva.

La serie infatti si apre con due puntate con una forte e anche piacevole impronta registica, che gioca sulla creatività della protagonista con toni fortemente teen. Due puntate che mi avevano abbastanza coinvolto. Poi sono andata avanti.

Infatti già dalla terza puntata si sono cominciati a vedere i problemi: una regia che, anche nell’ultimo capitolo, è diventata molto più spenta e anonima, oltre che poco chiara e convincente nelle scene action, dove la chiarezza scenica è fondamentale.

Per quanto riguarda la sceneggiatura, un vero pianto.

L’arco distruttivo

Iman Vellani in una scena di Ms Marvel, serie tv Disney+ parte dell'MCU

Se la regia può essere anche tutto sommato essere perdonata, la sceneggiatura è davvero improbabile. La serie comincia in un modo, raccontandoci i piccoli problemi della protagonista, poi decide totalmente di dimenticarsene, dirigendosi totalmente verso un’altra direzione.

Così ci troviamo una sconclusionatissima parentesi in Pakistan, che presenta i due principali problemi delle serie Marvel: buchi di trama e flashback di poco interesse. Le questioni irrisolte in questo frangente si sprecano: come ha fatto Kamala a convincere la madre ad andare dalla nonna?

I cugini non si sono chiesti niente della cugina che non tornava da loro? Come fanno i Jinn ad arrivare così velocemente in Pakistan e come facevano a sapere che Kamala era lì? E si potrebbe andare avanti.

Non si migliora neanche con l’ultima puntata, che sembra trarre dal genere home invasion e specificatamente da Mamma ho perso l’aereo (1990), ma che appare del tutto anti-climatica e poco coerente con l’insieme della narrazione.

Come detto, un grande pasticcio.

Quando i villain sono di troppo

Nimra Bucha e Iman Vellani in una scena di Ms Marvel, serie tv Disney+ parte dell'MCU

Ms Marvel, se fosse stata coerente con sé stessa, non avrebbe avuto bisogno di villain, sicuramente non di villain così apparentemente importanti e minacciosi. Se si volesse essere coerenti, appunto, avremmo avuto delle piccole minacce di quartiere che permettevano a Kamala di avere un semplice ma efficace arco evolutivo.

Invece si è scelto di raccontare una minaccia per la sopravvivenza dell’universo, con una costruzione fra l’altro del tutto mancante: nel giro di una puntata Najma, il capo dei Jinn, cerca di portare Kamala dalla sua parte, per poi inalberarsi in un attimo quando la stessa non le da subito quello che vuole.

Così in un attimo diventa cattivissima e dice addirittura che Kamala l’ha tradita.

Personaggi che fanno un sacco di giri su sé stessi, con poteri poco chiari (Immortalità? Super forza? Creazione di armi?) e che sono resi ancora più ridicoli dalla società segreta che dovrebbe combatterli, ovvero i Pugnali Rossi: per come è messo in scena, sembra che sia composta da sole due persone.

Probabilmente la serie intendeva raccontare che i ragazzi che Kareem fa conoscere a Kamala al falò sulla spiaggia fanno parte del gruppo, ma non è per nulla chiaro.

Una protagonista interessante, tutto sommato

Iman Vellani in una scena di Ms Marvel, serie tv Disney+ parte dell'MCU

Una delle poche cose buone di questa serie è la protagonista, Kamala. Anzitutto, per la scelta dell’attrice: Iman Vellani non solo è una grande fan di Captain Marvel, ma è anche di per sé molto espressiva, riuscendo ad essere convincente anche alla sua prima apparizione televisiva.

Oltre a questo, Ms Marvel si inserisce nella fruttuosa serie di prodotti ideati da immigrati statunitensi di seconda generazione, pur con prodotti di dubbio gusto come Shang-chi (2021) e Red (2022).

In questo caso la rappresentazione della comunità musulmana è molto interessante: molto legata al proprio credo, ma anche aperta al cambiamento e complessivamente ben integrata nella realtà statunitense.

A guastare la credibilità del personaggio è in primo luogo la scrittura di cui sopra, ma anche la penosa CGI per i suoi poteri (e non solo). Mi ha ricordato molto quella meraviglia (si fa per dire) di Spy Kids, popolare saga di avventura per ragazzi dei primi Anni Duemila.

Cosa succede nel finale di Ms Marvel?

Il finale sembra aver confuso non pochi spettatori, quindi vale la pena di spenderci due parole. A differenza di come hanno pensato alcuni, la stessa showrunner ha confermato che Kamala non è diventata Captain Marvel, ma si è scambiata di posto con lei.

E questo sarà probabilmente uno dei momenti iniziali di The Marvels (2023), che rappresenta il sequel di più ampio respiro di Captain Marvel (2019) e che includerà indubbiamente anche Ms Marvel.

Oltre a questo, Kamala è una mutante: gli sviluppi di questa rivelazione sono ancora tutti da vedere, ma si inseriscono nelle bricioline che Kevin Feige, il capo dell’MCU, sta cercando di spargere per reintrodurre la sua versione degli X-Men.

Riscrivere un personaggio

Captain Marvel è stata introdotta nel film origin-story del 2019 omonimo, che è stato indubbiamente un grande successo commerciale, ma che non ha avuto la risonanza che ci si sarebbe forse aspettati per il film con la prima supereroina dell’MCU in un prodotto tutto suo.

E questo è dovuto probabilmente dal fatto che, molto ingenuamente, l’MCU ha preso come punto di riferimento una tendenza ben rappresentata da quella mediocrata di Wonder Woman (2017): raccontare personaggi femminili forti, testardi e fondamentalmente antipatici.

Come Gal Gadot può suscitare comunque un minimo di simpatia nel pubblico, Brie Larson ha la sfortuna di avere una faccia veramente antipatica. E la caratterizzazione che si è voluto dare nel suo film non l’ha aiutata.

Tuttavia, se andate a guardare le diverse apparizioni in altri film che si sono viste in questi anni, noterete un importante cambio di direzione: dopo Endgame (2019), in tutte le apparizioni Carol Danvers è presentata come decisamente più simpatica e generalmente più sorridente.

Un caso? Io non credo.