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Black Mirror 6 – Lo chiamavano Black Mirror…

Black Mirror 6 (2023) è la sesta stagione di una delle serie più iconiche della piattaforma, arrivata a ben quattro anni di distanza dalla precedente, con cinque nuovi episodi.

Ecco il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 6?

Possibilmente no.

In attesa di Black Mirror 6, per motivi che non so neanche spiegare, ero sicura che gli autori avessero imparato dagli errori e dalle critiche che avevano ricevuto per la scorsa stagione. Anche perché altrimenti sarebbero risultati ridicoli.

E invece non potevo immaginare quanto grande fosse il loro coraggio.

Questo nuovo ciclo di episodi, molto banalmente, non c’entra niente con Black Mirror: per buona parte sono puntate di scarsissimo valore, riuscendo a salvarsi solamente per il terzo episodio – che sembra quasi Black Mirror – e l’ultimo, che è abbastanza piacevole.

Ma, se amate Black Mirror, passate oltre.

Joan is Awful

Annie Murphy in una scena della puntata Joan is Awful (Black Mirror 6)

Questo episodio è terribile.

Joan is awful è esattamente quello che non volevo vedere da Black Mirror: praticamente una parodia, con un cattivo gusto di rara bruttezza che neanche nei peggiori b-movie dei primi Anni Duemila.

Inoltre, un episodio basato su concetti di una tale ingenuità che solo un bambino o un complottista in pieno delirio potrebbe pensare: non vi devo spiegare io quanto il motivo per cui Joan viene derubata della sua vita sia irrealistico e pretestuoso, vero?

Annie Murphy in una scena della puntata Joan is Awful (Black Mirror 6)

Ma diventa ancora più assurdo se si pensa alla questione di Salma Hayek – o chi per lei: Netflix dovrebbe essere la prima a sapere che produzioni e attori sono vincolati da contratti blindati e compilati pedissequamente dopo intense contrattazioni.

Avrebbe potuto funzionare diversamente?

Se Black Mirror fosse stato sé stesso avremmo potuto avere una puntata alla White Bear o alla 15 milions merits: sarebbe bastato fare un effettivo world building e ambientare la storia in un futuro possibile, come si era sempre fatto…

Loch Henry

Samuel Blenkin in una scena della puntata Loch Henry (Black Mirror 6)

A questo punto ho cominciato a chiedermi se stessi ancora guardando Black Mirror.

Di per sé Loch Henry non è una brutta puntata: mi ha convinto molto il montaggio e la regia in certi tratti dal taglio quasi documentaristico, che poi si riallaccia al finale, e che riesce in generale a far immergere piuttosto bene nella storia raccontata.

Tuttavia, non è Black Mirror.

Sembra più che altro una puntata di una serie fra il true crime e il mistery, però neanche particolarmente brillante a livello di scrittura: io non sono mai stata una persona particolarmente intuitiva nello scoprire i colpi di scena dei film, anzi.

Invece in questo caso praticamente dal primo minuto avevo intuito quale sarebbe stato il plot twist finale, e per due motivi: è incredibilmente banale, ed era anche l’unico modo per dare un senso alla puntata, che aveva un disperato bisogno di questo shock finale.

E, se la critica voleva essere la cannibalizzazione delle tragedie, diventata piuttosto di moda negli ultimi tempi, è veramente debole…

Beyond the sea

Aroon Paul in una scena della puntata Beyond the sea (Black Mirror 6)

Finalmente una puntata di Black Mirror.

Anche se…

Solitamente preferisco quando gli episodi sono ambientati in un prossimo futuro – come era tipico della serie nella maggior parte dei casi – ma questi Anni Sessanta alternativi tutto sommato non mi sono dispiaciuti.

Finalmente, un racconto con al centro una tecnologia che, più che soluzioni, si porta dietro le paure stesse del suo creatore.

E devo dire che, anche se il risvolto romantico fra David e Lana era abbastanza prevedibile, comunque è stato costruito in maniera intelligente e funzionale, lasciandoti addosso una sottile angoscia che permea tutto l’episodio…

Il problema è il finale.

Purtroppo, ho avuto la spiacevolissima sensazione che volessero chiudere l’episodio con un colpo di scena sconvolgente, ma che si siano dimenticati di costruirlo a dovere, raccontando in maniera convincente la crescente pazzia di David.

Sarebbe stato molto più interessante sempre un finale aperto, ma con David che uccideva Cliff, magari lasciandolo per sempre a vagare nello spazio, e magari in maniera anche più inquietante viveva la sua vita, all’insaputa di Lana…

Mazey Day

È possibile fare una puntata pure peggiore della prima?

Assolutamente sì, se sei Mazey Day.

Arrivati a questo punto io voglio immaginare – e sperare – che abbiano sbagliato writers room e che questa fosse in realtà la puntata pilota di una serie di terza categoria di Netflix, una brutta copia di Teen Wolf, e che abbiano fatto confusione.

Perché non so veramente con quale coraggio abbiano prodotto questo episodio sotto l’etichetta Black Mirror.

In prima battuta sembra una critica scialbissima e fuori tempo massimo al mondo dei paparazzi, uno dei simboli dei primi Anni Duemila. Poi, sempre con l’idea di lasciare a bocca aperta lo spettatore, diventa un fantasy.

Senza che di fatto questa puntata ci abbia raccontato niente di rilevante, senza che sembri neanche che lo volesse neanche fare. Almeno in Joan is Awful hanno cercato di inserire – pur malamente – un elemento fantascientifico.

Qui neanche quello…

Demon 79

Anjana Vasan in una scena di Demon 79 (Black Mirror 6)

Demon 79 è una puntata effettivamente molto carina.

Mi ha ricordato come toni Shaun of the Dead (2004) e Dirk Gently (2016-2017): una sorta di horror comedy apocalittica, con un umorismo ben dosato e dei personaggi che effettivamente funzionano a dovere.

In particolare, nonostante avrebbe funzionato meglio come un effettivo film, a differenza di Beyond the sea il finale è ben costruito, e il cambiamento – o maturazione diabolica – della protagonista è altrettanto ottimamente raccontato.

Paapa Essiedu in una scena di Demon 79 (Black Mirror 6)

E allora qual è il problema?

Ancora una volta, non è Black Mirror.

Nonostante io non sia una fan sfegatata di questa serie, né una purista della prima ora, mi rendo conto di quanto, nonostante in questo caso la qualità sia buona, uno spettatore appassionato si possa sentir preso in giro, e per l’ennesima volta.

E ne avrebbe tutte le ragioni…

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Questo mondo non mi renderà cattivo – La svolta amara

Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) è una serie animata di produzione Netflix, scritta e diretta dal fumettista Zerocalcare – la seconda produzione a suo nome dopo Strappare lungo i bordi (2021).

Di cosa parla Questo mondo non mi renderà cattivo?

Un vecchio amico di Zerocalcare torna a Roma dopo una lunga assenza, ma sembra incapace di reinserirsi nel difficile microcosmo del quartiere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Questo mondo non mi renderà cattivo?

Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Sì, ma…

Questo mondo non mi renderà cattivo rappresenta un punto di svolta abbastanza importante per la pur breve produzione seriale di Zerocalcare.

Se infatti Strappare lungo i bordi (2021) riprendeva – per toni e soggetto – la sua opera prima, La profezia dell’Armadillo (2012) con questa nuova serie si passa a tematiche ben più mature della sua produzione più recente.

Per questo il prodotto ha un inaspettato tono ben più politico e attuale, andando a trattare con grande franchezza, nonché con una verosimiglianza quasi dolorosa, tematiche molto forti della nostra contemporaneità.

Insomma, arrivateci preparati.

La cornice narrativa

Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

La struttura narrativa di Questo mondo non mi renderà cattivo è abbastanza simile a quella della serie precedente.

Si racconta infatti ancora una volta un progressivo avvicinamento ad un evento determinante della storia, che però rimane oscuro allo spettatore praticamente fino alla fine degli episodi.

Tuttavia, la cornice narrativa in questo caso è ben più solida: l’arresto e l’interrogatorio giustificano effettivamente il perché l’elemento fondamentale della trama rimanga nascosto per la maggior parte del tempo.

E, anche se l’idea che il racconto alla fine sia solo una confessione con l’Armadillo l’ho trovata un po’ debole, il risvolto della scena, dal sapore comico-grottesco, mi ha tutto sommato convinto.

Ricucire i rapporti

Cesare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Il mondo di Zerocalcare è incredibilmente verosimile.

Quante volte durante la nostra vita ci siamo lasciati alle spalle moltissimi rapporti che si sono improvvisamente spezzati, senza un vero motivo, senza che nessuno sapere quasi il perché, se non che la vita che va avanti

Da qui il pesante imbarazzo nel tentativo di riconciliazione con Cesare, che ha il suo picco drammatico nella scoperta che il vecchio amico sia in realtà dell’altra sponda, quella da lui combattuta e disprezzata ogni giorno…

Ma il perché è anche peggio…

L’esasperato isolamento

Cesare, Secco e Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Raccontando il dramma di Cesare, Zerocalcare in realtà ci mostra un problema ben più ampio.

In Italia è presente purtroppo una tristissima realtà per cui determinate categorie sociali – nello specifico i tossicodipendenti e i carcerati – diventano irrimediabilmente degli emarginati.

Anche se intraprendono un percorso, che, in teoria, dovrebbe portare ad un loro reinserimento…

E questo si traduce proprio nella storia di Cesare: andare a rifugiarsi nelle frange politiche più estreme e radicali pur di trovare qualcuno con cui fare gruppo, qualcuno che veramente ci accetti senza giudizi…

Oltre la propaganda

Sara in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Il dramma di Sara è anche più disturbante.

L’amica, da sempre considerata come baluardo della giustizia e della correttezza, prende una strada del tutto inaspettata, associandosi alle posizioni di quel gruppo sociale che, almeno all’apparenza, è contrastato da tutti.

E le sue motivazioni sono davvero strazianti.

Rimasta per anni reclusa in una sorta di limbo dell’impossibilità di realizzazione personale e lavorativa – estremamente tipico nel mondo del lavoro italiano odierno – si presenta finalmente per lei la prospettiva di realizzare il suo sogno.

Sara, Secco, Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Ma subito lo stesso le è strappato via, e per pure questioni ideologiche, che è tanto facile accettare se non vanno a colpirti sul personale, ma che sono ben più difficili da digerire quando mettono un ostacolo a quella piccola vittoria personale tanto agognata…

Tuttavia, Sara si dimostra ancora una volta la più intelligente del gruppo, andando a scoperchiare quella propaganda tossica che allontana l’attenzione dagli effettivi problemi più sotterranei e strutturali.

E, soprattutto, mai risolti.

Questo mondo non mi renderà cattivo finale

A primo impatto, il finale di Questo mondo non mi renderà cattivo potrebbe risultare molto sbrigativo, e non effettivamente conclusivo.

Tuttavia, ripensandoci a posteriori, riesco a capire le motivazioni di questa scelta abbastanza anomala per una narrazione seriale, in particolare mancante di una quasi ovvia riconciliazione fra Zero e Cesare.

Da una parte, penso che Zerocalcare abbia voluto raccontare una storia quanto più vera, tratta dalla propria esperienza personale – che quindi non ha avuto, come comprensibile, un effettivo lieto fine.

Inoltre, questo finale è apprezzabile per la sua onestà: nonostante il gruppo di Zero non sia veramente dalla parte di Cesare per tutta una serie di motivi, sceglie comunque di difenderlo, di fare la cosa giusta.

Questo mondo non mi renderà cattivo fumetto

Se avete apprezzato la serie e volete scoprire l’opera cartacea di Zerocalcare, ecco qualche consiglio.

Se non avete mai letto nulla di suo, vi consiglio in linea generale di andare in ordine cronologico, nello specifico di cominciare proprio dall’opera prima, La profezia dell’armadillo (2012).

Tuttavia, se dopo questo volete esplorare i riferimenti interni alla serie, vi consiglio di leggere – nel seguente ordine – Un polpo alla gola (2012), Macerie Prime (2017) e Scheletri (2020).

Buona lettura!

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Andor – L’ignorato

Andor (2022 – …) è una serie tv spin-off di Star Wars, prequel di Rogue One (2016) e pubblicata su Disney+ fra le diverse offerte dell’Universo Espanso della saga, ma con risultati piuttosto magri…

Di cosa parla Andor?

Andor è alla ricerca della sorella scomparsa, innescando una serie di eventi imprevisti che lo porteranno a ripensare alla propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Andor?

Diego Luna in una scena di Andor (2022 - ...) serie tv spin-off di Star Wars e prequel di Rogue One

Assolutamente sì.

Ma…

Andor è una di quelle serie che possono dare molte soddisfazioni, ma devono anche essere approcciate con grande pazienza. In particolare, questa serie non gode purtroppo del più robusto degli inizi – anzi.

Ma, dopo aver superato lo scoglio delle prime due puntate, la terza porta ad una svolta consistente che comincia veramente a risvegliare l’interesse, in maniera assolutamente inaspettata.

Da lì, diversi archi narrativi incredibilmente avvincenti.

Ma bisogna anzitutto arrivarci…

Dove si colloca Rogue One?

Andor si colloca cinque anni prima sia di Rogue One (2016), sia di Una nuova speranza (1977).

Un debole inizio

Diego Luna in una scena di Andor (2022 - ...) serie tv spin-off di Star Wars e prequel di Rogue One

La parte più debole di Andor è l’inizio.

Ci ho messo un tempo veramente considerevole per riuscire effettivamente ad iniziare la serie perché purtroppo i primi due episodi sembravano non raccontare niente di davvero interessante, ma essere un’introduzione piuttosto lunga che non si capiva dove portasse.

Ed infatti la svolta che avviene alla fine del terzo episodio è assolutamente inaspettata, ma che mette finalmente in moto le vicende, soprattutto introducendo il personaggio più interessante della serie: il misterioso Luthen Lael.

Per questo credo che rilasciare questa serie settimana per settimana sia stato un azzardo: molti spettatori probabilmente non sono stati catturati dal primo episodio e non hanno proseguito.

Ammetto che anche io avrei fatto lo stesso…

L’heist movie

Diego Luna e Faye Marsay in una scena di Andor (2022 - ...) serie tv spin-off di Star Wars e prequel di Rogue One

Il primo arco narrativo è l’heist movie.

E mi ha particolarmente sorpreso: quando Andor parla con gli altri membri del gruppo riguardo ai pochi giorni necessari per attuare il piano, mi aspettavo che la storia si sarebbe prolungata per diverse puntate e che questo fosse il focus della serie.

E invece mi sbagliavo.

Questa trama occupa non più di un paio di puntate, seguendo quindi una scansione temporale piuttosto coerente, senza allungarsi più del dovuto. La costruzione narrativa è avvincente e la tensione, sopratutto nell’episodio decisivo, è palpabile.

E non sono rimasta del tutto sorpresa dall’inevitabile carneficina alla Rogue One…

La fuga

Diego Luna in una scena di Andor (2022 - ...) serie tv spin-off di Star Wars e prequel di Rogue One

La mia trama preferita rimane comunque quella della fuga dalla prigione.

Anche se i motivi per cui Andor viene incarcerato sono per certi versi pretestuosi, è una linea narrativa fondamentale per la formazione del protagonista. Infatti in questo contesto Andor smette di essere il lupo solitario e impara a lavorare in gruppo.

Ma, sopratutto, comprende l’importanza della lotta con l’Impero, che fino a quel momento non aveva sentito come propria.

Infatti la situazione in cui si trova è un’evidente esasperazione della situazione che opprime la galassia tutta, e che necessità di una ribellione.

E si comincia proprio da qui.

Inoltre ho particolarmente apprezzato il personaggio di Kino Loy, interpretato da un Andy Serkis che sono finalmente riuscita ad apprezzare per le sue doti recitative.

Probabilmente perché finalmente assume un ruolo che gli calza a pennello, non tanto diverso da quello di Cesare in Rise of the Planet of the Apes

È solo l’inizio

Diego Luna in una scena di Andor (2022 - ...) serie tv spin-off di Star Wars e prequel di Rogue One

La chiusura di Andor è davvero ottima.

Arrivati alle battute finali si capisce finalmente di cosa tratta la serie, anche se si è cominciato a comprenderlo solo passo dopo passo in un mare magnum di storie e personaggi: come nasce la Ribellione all’Impero, da quali sentimenti e da quali emozioni.

Infatti Andor supera quel semplicismo – pur apprezzabile e funzionante – che caratterizzava Una nuova speranza (1977) su questo argomento, che riduceva il tutto ad una lotta fra bene e male dal taglio quasi favolistico.

Al contrario in questa serie la Ribellione si arricchisce di nuovi significati, con una messinscena e delle tematiche che riescono a far sentirci sentire vicini i personaggi e le loro importantissime motivazioni.

Andor

L’altro nato negativo di Andor sono alcuni dei personaggi di contorno.

Benché si tratti di un gusto veramente personale, ci tengo a sottolineare come non tutte le figure che si muovono nella serie le ho trovate veramente interessanti, anzi a volte mi sentivo veramente disinteressata dalle loro sorti.

Dal lato degli antagonisti, ho apprezzato lo sforzo di dare un nuovo volto all’Impero con il personaggio di Dreda Meero, ma la stessa l’ho trovata in ultima analisi un villain abbastanza macchiettistico ed esplorato meno del dovuto.

Per i personaggi positivi, ho trovato veramente eccessivo lo spazio regalato a Bix, l’interesse amoroso di Andor, nonostante sia coinvolta in un racconto di prigionia e tortura piuttosto interessante e innovativo.

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Psycho – Il potere dello sguardo

Psycho (1960) è il capolavoro della filmografia di Hitchcock, un film talmente iconico che influenzò inevitabilmente il genere di riferimento – l’horror – in maniera inaspettata…

Eppure al tempo, soprattutto dopo l’accoglienza tiepida di Vertigo (1958), la Universal era ben poco propensa ad investire in un altro film troppo serio, tanto che la pellicola venne finanziata dallo stesso Hitchcock, con un budget abbastanza limitato: appena 806 mila dollari – circa 8 milioni oggi.

E, inaspettatamente, fu il più grande successo commerciale del regista: ben 50 milioni di dollari di incasso – circa 500 milioni oggi – permettendo ad Hitchcock di diventare il terzo azionista della Universal.

Di cosa parla Psycho?

Marion Crane è una modesta impiegata, invischiata in una relazione che non sembra darle vere soddisfazioni. Tutto cambia quando si trova fra le mani una cospicua somma di denaro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Psycho?

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Ovviamente, sì.

Anche se devo ammettere che non è il mio titolo preferito di Hitchcock – prediligo comunque La finestra sul cortile (1954) – è la dimostrazione di come anche il film più povero possa regalare un’esperienza indimenticabile se nelle mani del giusto regista.

Non a caso Psycho è indubbiamente il picco artistico più consistente della filmografia del regista britannico, dove sperimenta in maniera davvero audace, al limite dello scioccante, evitando molte delle autocensure che aveva evidentemente applicato nei precedenti film…

Insomma, una pellicola imprescindibile.

Uno sguardo penetrante

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Dopo gli avvincenti titoli di testa, che già ci immergono nelle atmosfere disturbanti della pellicola, lo sguardo dello spettatore penetra immediatamente la scena.

Ed è già voyeuristico.

Veniamo infatti introdotti ad una sequenza davvero scioccante per i canoni dell’epoca: una coppia che dialoga in uno squallido motel dopo un evidente incontro sessuale, entrambi più nudi di quanto fossero mai stati prima di questo momento i personaggi di Hitchcock.

Tuttavia, la scena ha un sapore fortemente malinconico.

Janet Leigh e John Gavin in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La coppia è evidentemente insoddisfatta, non potendo altro che vivere questi momenti rubati, senza poter raggiungere la tanto agognata – soprattutto da Marion – accettazione sociale: il matrimonio.

Infatti, nonostante l’evidente erotismo della scena, la protagonista si riveste molto più in fretta rispetto al suo compagno, e cerca insistentemente di ricondurre la loro relazione ad una maggiore rispettabilità sociale: il pranzo con la sorella.

Ma è solo un breve sollievo:

Il matrimonio, almeno per ora, non s’ha da fare.

Un crimine di passione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Perché Marion ruba i soldi?

Nonostante la scena iniziale, nonostante il suo sguardo penetrante, Marion viene subito ricondotta ad un modello di donna rispettabile. Rispettabile quanto infelice, come ci racconta il dolore psicosomatico – l’emicrania – causata proprio dallo stress della sua situazione, la sua trappola.

Quindi, una donna da cui non ci si aspetterebbe un’azione simile.

E infatti la scelta di compiere il furto sembra immediata, senza una vera e propria logica: grazie ad una finezza di montaggio, Marion sembra uscire dall’ufficio ed entrare immediatamente nella stanza dove sta preparando la sua fuga.

E, nonostante qualche sguardo che indugia sulla busta dei soldi, il piano viene comunque messo in atto.

Quindi la motivazione è del tutto impulsiva, una scelta improvvisa per trovare il modo di sfuggire dalla sua trappola, che si può sbloccare appunto solo tramite i soldi, visti i numerosi debiti accumulati da Sam.

Tuttavia, da quel momento in poi le azioni di Marion diventano sempre più imprevedibili, sempre più puramente dettate dalla fretta, dall’irrazionalità, da questo slancio per sfuggire – e più in fretta possibile.

E non si può tornare indietro…

L’accompagnamento al patibolo

La figura del poliziotto è più interessante di quanto si possa pensare.

Soprattutto nella sua apparente illogicità.

L’agente è ancora una volta una figura estremamente voyeuristica – nel suo spiare dentro la macchina di Marion e guardarla dormire, violando uno spazio in un certo senso analogo a quello della scena d’apertura.

Ma è anche un personaggio particolarmente minaccioso.

Da notare in particolare l’anomalia nella rappresentazione del loro dialogo: Hitchcock evade il classico campo-controcampo, con solo Marion che guarda effettivamente fuori campo, mentre il poliziotto è rappresentato da una soggettiva anche piuttosto aggressiva di Marion, in particolare con un primissimo piano.

Janet Leigh e il poliziotto in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Così lo sguardo della protagonista cerca di fuggire, mentre il poliziotto la costringe ad essere punita.

Infatti, se il consiglio dell’uomo di dormire in un motel – come poi accadrà – potrebbe sembrare ironico a posteriori, in realtà è proprio indicativo del ruolo di questo personaggio: controllare che Marion non torni indietro, ma che vada dritta verso il patibolo.

Non a caso, il poliziotto resta immobile fino all’ultimo dall’altro lato della strada, osservando la donna che cambia maldestramente l’auto, agendo come spinta propulsiva alla sua fuga, ma senza cercare ulteriormente di parlarle.

E così Marion viene inghiottita dall’oscurità, mentre all’orizzonte i pali della luce sembrano delle croci…

Passaggio di consegne

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Fino a questo momento, lo sguardo era una prerogativa di Marion.

Invece, all’arrivo all’hotel, Marion comincia impacciatamente a firmare il registro, con una soggettiva che sembra unicamente sua. Invece, quando la macchina da presa stacca, notiamo che anche Norman stava osservando il registro mentre la donna firmava.

Al contempo, Marion non si rende conto del pericolo, non si rende conto dell’indecisione dell’uomo nello scegliere la chiave della camera, andando infine a optare per la stanza N.1, proprio dopo aver notato la sua incertezza…

La più classica omosessualità

Janet Leigh e Anthony Perkins in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

L’atteggiamento di Norman è comunque impacciato, molto timido, facendolo sembrare apparentemente innocuo.

La voce della Madre, invece, è rivelatoria della sua violenza.

La maternità mostrata è una maternità castrante, che rappresenta la visione molto ingenua e semplicistica che sia aveva ancora negli Anni Sessanta dell’omosessualità, derivata anche dalla visione freudiana.

L’omosessualità, secondo la vulgata, era derivata dall’incapacità di superare il rapporto con la madre, una sorta di Complesso di Edipo mancante del confronto con la figura paterna, che porta infine il bambino cresciuto a voler diventare la madre stessa.

Il tutto si concretizza nella frustrazione sessuale e nella misoginia.

Norman spia Marion mentre si cambia – fra l’altro spostando un quadro rappresentante una vicenda biblica estremamente erotica, Susanna e i Vecchioni.

Ma evidentemente questa visione non suscita nell’uomo quelle sensazioni che la madre, la società e lui stesso si aspettano da lui.

Infatti, se consideriamo la Madre come una voce della coscienza per Norman, le sue parole di disprezzo nei confronti di Marion rappresentano in realtà quello che la genitrice – e quindi Norman – vorrebbe che succedesse, ovvero che l’uomo avesse piacere ad intrattenersi con lei.

E da qui nasce la volontà omicida.

La doppia punizione

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

La morte di Marion è scioccante per più motivi.

Anzitutto, va contro tutte le regole dello star system dell’epoca, ovvero quella di mantenere in scena la diva fino alle battute finali del film. Ma, anche più importante, non scaturisce dalle azioni della protagonista, ma dai complessi dell’antagonista.

Infatti, l’iconica scena della doccia mima quell’incontro sessuale che non si può consumare e, al contempo elimina, distrugge quel corpo che fa scaturire la vergogna sociale di Norman.

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Su un altro livello, è la prima parte della punizione di Marion.

Nonostante la protagonista si sia evidentemente pentita delle sue azioni e abbia tutta l’intenzione di rimediare, ormai è troppo tardi: è diventata un personaggio troppo problematico, una donna troppo fuori dagli schemi per non essere punita.

E tanto più il suo corpo viene raccontato come sporco, un rifiuto: sia per l’audace parallelismo fra il vortice dello scarico della doccia che si dissolve sul suo occhio, sia per la posizione ingombrante del suo cadavere, sia, soprattutto, per la scena successiva.

Una lunga sequenza che racconta la considerazione del personaggio di Marion – per la società e per Norman – ovvero come qualcosa da eliminare, qualcosa che ha lasciato macchie, sporcizia: va tutto pulito.

Un ossessivo Mac Guffin

Janet Leigh in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

I soldi sono l’ossessione di Psycho.

Il loro arrivo viene raccontato fin dalla prima scena, e, dalla loro apparizione nella sequenza successiva, sono sempre presenti, anche se scompaiono materialmente. E la macchina da presa indugia a più riprese su questo elemento, anche facendosi beffe dello spettatore.

Perché, alla fine, è solo un Mac Guffin.

I soldi fanno solamente partire la vicenda, ma non sono di fatto importanti come lo spettatore pensa e come i personaggi stessi credono: non sono il motivo effettivo per cui Marion muore, né appunto oggetto del desiderio di Norman.

E, infatti, nonostante la macchina da presa inquadri in maniera molto eloquente il giornale mentre Norman sta pulendo, lo stesso viene afferrato solo all’ultimo e gettato come un rifiuto qualunque nel bagagliaio della macchina…

Lo scioglimento del mistero

Vera Miles in una scena di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Lo sguardo è ancora protagonista nella seconda parte.

Nonostante infatti i protagonisti della vicenda siano molto più castigati – in particolare Lila, il totale opposto della sorella – il motore della vicenda è il desiderio di guardare, di penetrare la casa di Norman.

E, soprattutto, di vedere il volto di Norma Bates.

Questa ossessione è insistita per tutto il terzo atto, arrivando fino al climax finale, quando ancora una volta lo sguardo del volto ci è negato: la signora Bates è di spalle. E allora sta a Lila mostrare la verità, diventando una screaming queen ante-litteram…

E, ovviamente il film si chiude con l’inquietante sguardo di Norman direttamente in camera, direttamente nei nostri occhi…

Psycho slasher

Dal successo di Psycho nacquero moltissimi emuli, sia con le opere direttamente collegate – come i tre sequel e il remake shot-by-shot omonimo di Brian De Palma nel 1999 – sia con quelle più indirettamente derivative – come il cult American Psycho (2000).

Ma, soprattutto, Psycho è considerato il progenitore del genere slasher.

Questo sottogenere horror ha inizio canonicamente con Halloween (1979), e con gli altri classici degli Anni Settanta – Ottanta, come Non aprite quella porta (1974) e Venerdì 13 (1980), per poi essere parodiato da Scream (1996) negli Anni Novanta.

E la derivazione da Psycho si riscontra in particolare in tre elementi: il killer, l’ambientazione e la Final Girl.

L’antagonista dell’horror non è più il mostro, ma una persona – solitamente un uomo – che ha una storia familiare e personale complessa alle spalle, proprio come Norman.

Tuttavia, dal mostro di Hitchcock non eredita né l’apparente docilità di Anthony Perkins né la componente sessuale, avvicinandosi anzi più alla figura del mostro classico: un personaggio deformato o col volto nascosto, un reietto sociale, una persona che non si può salvare…

La sua arma è solitamente un’arma bianca – un coltello, la motosega, le cesoie – che non raramente si ricollegano anche allo status sociale o ad un particolare trauma infantile dell’antagonista.

L’ambientazione dello slasher è solitamente un luogo non protetto, privo della componente adulta che controlla, e dove i protagonisti – solitamente belli, bianchi e ricchi – possono fare sostanzialmente quello che vogliono.

Tuttavia, proprio l’ambientazione isolata, da cui non si può fuggire, dà un sapore di maggiore inquietudine e orrore alla storia…

Proprio come il Bates Motel.

Psycho final girl

E, soprattutto, la Final Girl.

La final girl è solitamente il personaggio femminile più esplorato, che si distingue dal resto del gruppo anche per una maggiore maturità e intelligenza, che le permette di rimanere viva fino alla fine.

Quindi un personaggio che eredita l’avvenenza di Marion, la risolutezza di Lila, e lo spirito investigativo di Sam.

In ultimo, la final girl ha l’obbiettivo di sconfiggere, ma soprattutto di smascherare il mostro, a volte aiutata da degli aiutanti maschili che prendono le parti del Sam del finale di Psycho, appunto.

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Ted Lasso – Come si cambia…

Ted Lasso (2020 – 2023) è una delle migliori serie comedy degli ultimi anni, nonché uno dei titoli di punta di AppleTV+

Di cosa parla Ted Lasso?

Ted Lasso, mediocre coach di football americano, viene inaspettatamente assunto da un club di calcio britannico come allenatore…

Vi lascio il trailer per la prima stagione per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ted Lasso?

Jason Sudeikis, Brett Goldstein e Brendan Hunt in Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Assolutamente sì.

Nonostante Ted Lasso si presenti come una comedy a tema sportivo, in realtà è molto, ma molto più di questo.

Più che parlare delle vittorie e sconfitte dell’AFC Richmond, questa meravigliosa serie segue l’evoluzione dei caratteri e delle vite dei suoi protagonisti.

E lo fa con una classe inarrivabile, scegliendo di evitare il più possibile il drama – anche quando ci sarebbero stati tutti i motivi per farlo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Non solo calcio

Proprio perché Ted Lasso non è propriamente una serie di calcio, parla di molti altri temi fondamentali.

Infatti, durante le tre stagioni si affrontano diverse tematiche al di fuori dell’ambito sportivo: l’importanza di curare la propria salute mentale, il revenge porn, la difficoltà del coming-out (soprattutto nel contesto calcistico) …

E, ovviamente, le affronta in maniera perfetta.

Il pagliaccio triste

Jason Sudeikis n Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Ted Lasso inizialmente si presenta con la sua energia inarrestabile, che Rebecca cerca inutilmente di castigare e, in parte, di comprendere. Ma la maschera che il protagonista si è costruito è ben difficile da penetrare…

Infatti, Ted vive costantemente con un complesso interiore, le cui radici vengono da lontano.

Come ci racconta l’incontro-scontro con la madre, il protagonista aveva tenuto profondamente nascosto dentro di sé il trauma della morte del padre, mascherandolo proprio come vedeva fare alla madre. E senza che nessuno dei due sembrasse in grado di affrontarlo.

Jason Sudeikis n Ted Lasso, serie tv Apple TV+

E il trauma si è prolungato con l’inevitabile conclusione del suo matrimonio, nonostante l’affetto che lega Ted alla sua famiglia.

Ed è anche in questo che si ritrova con Rebecca.

La donna, inizialmente antagonista, diventa invece un’alleata del protagonista, ed entrambi riescono a trovare nell’altro una spalla su cui reggersi per affrontare i propri demoni.

Ma il vero momento di svolta è quando Ted accetta finalmente non solo di aiutare gli altri, ma anche sé stesso, affidandosi alle impegnative quanto necessarie cure della Dottoressa Sharon.

E così riesce a tornare finalmente e felicemente a casa.

La bellezza di Ted Lasso sta proprio nella complessità del suo personaggio: da una parte fortemente comico, ma nel profondo anche profondamente emotivo e fragile – caratteristica non comune negli eroi maschili.

L’ex-moglie trofeo

Hannah Waddingham in Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Il percorso di Rebecca è forse quello più interessante.

Inizia come un’ex-moglie trofeo, che è stata scartata perché ormai troppo vecchia, sbeffeggiata da ogni tabloid, rimanendo inevitabilmente nell’ombra di Rupert.

Ma anche grazie a Ted riesce a capire di essere molto più di questo, di poter ricercare, anzi pretendere dei partner migliori di quelli avuti finora, riscoprendosi come una donna interessante, intrigante e che ha ancora molto da dire.

Hannah Waddingham e Toheeb Jimoh in Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Ma la sua più grande vittoria non è tanto quella di riuscire a vivere molto più felicemente la sua vita sentimentale e sessuale, ma di superare il suo odio per Rupert.

Infatti, in una delle ultime puntate, quando l’ex marito cerca di riavvicinarla, lei lo scaccia immediatamente, senza neanche pensarci: la sua considerazione per Rupert è ormai l’indifferenza.

E la sua realizzazione finale è proprio che non ha più motivo di provare a distruggere l’ex-marito, perché lo stesso è capace di farlo tranquillamente da solo.

E, anche per questo, smette infine di usare Richmond come mezzo di vendetta, preferendo invece di trarne il meglio per tutti.

Il wonderkid

Nick Mohammed in una scena di Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Nathan è il personaggio con la storia più turbolenta.

Prende le mosse da una situazione sociale molto bassa: umile tuttofare, e pure bullizzato.

E, anche se riesce, grazie alle sue capacità, a risalire la scala sociale, non riesce a lasciarsi alle spalle il rancore covato per anni. Infatti, Nate solo all’apparenza è innocuo e timido, nella realtà nasconde dentro di sé non poca cattiveria, anche fortemente gratuita, che sfoga soprattutto verso Will.

L’apice di questa situazione è lo strappo – in tutti i sensi – della relazione con Richmond e Ted, per entrare al servizio di Rupert. La nuova posizione sembra potergli garantire tutto quello che aveva sempre desiderato: successo, ricchezza, donne bellissime.

Nick Mohammed in una scena di Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Ovvero, diventare Rupert.

Infatti, l’ex marito di Rebecca riesce a catturare Nathan proprio nel momento suo momento più basso, quando, dopo la sua prima vittoria, è diventato sempre più ossessionato dall’idea del successo, e sempre più arrogante e incattivito.

Ma proprio quando Nathan sta per diventare definitivamente un gradasso e un serpente al pari di Rupert, arrivando quasi a tradire la sua nuova fidanzata, decide di abbandonare tutto e tornare su suoi passi.

E finalmente ha la possibilità di redimersi, proprio grazie alle importanti quanto strazianti parole di Coach Beard.

Per tornare ad essere come era all’inizio, ma in situazione totalmente diversa.

Il triangolo

Juno Temple in una scena di Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Ted Lasso ci regala un triangolo amoroso particolarmente bislacco.

Parte tutto da Keeley, inizialmente una ragazza molto superficiale e con una bassa considerazione di sé – proprio come Rebecca: si accontenta di un uomo piccolo e pieno di sé stesso come Jamie – o, almeno, il Jamie dell’inizio.

Per questo, da quando si lasciano, i due cominciano a prendere due strade di crescita diverse.

Keeley riesce a darsi maggiore importanza, intraprendendo una piccola, ma significativa carriera nell’ambito PR, pur con qualche inciampo e passo indietro, arrivando comunque ad una bellissima conclusione insieme a Rebecca.

Phil Dunster e Brett Goldstein in una scena di Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Parallelamente Jamie compie un’importante evoluzione caratteriale, che si definisce nell’antagonismo con Roy. Inizialmente Jamie è infatti un ragazzo estremamente immaturo e troppo sicuro di sé stesso. E, soprattutto, è incapace di giocare in squadra, di essere un team player.

La sua evoluzione si articola non del tutto nel mettere da parte il suo essere un gradasso sul campo, ma nel saper bilanciare questo aspetto nella vita privata, tirandolo fuori solo al momento giusto per far vincere la sua squadra.

E soprattutto riesce a superare il suo antagonismo con Roy, anzitutto desiderando, anzi pretendendo di farsi allenare proprio dal tanto odiato idolo dell’infanzia.

Roy Ted Lasso

Brett Goldstein in una scena di Ted Lasso, serie tv Apple TV+

Al contempo Roy arriva alla fine della serie non sentendosi tanto diverso.

E invece ha compiuto un’evoluzione fondamentale.

È stato capace anzitutto di lasciarsi alle spalle quello che sembrava definirlo come persona: una star del calcio. E invece torna in panchina, sceglie di mettere in pratica le sue conoscenze per aiutare la nuova generazione.

E, in particolare per aiutare Jamie, a portare a termine la sua evoluzione.

Al contempo aiuta anche sé stesso, migliorando la sua importante relazione con la nipote, accettando tutte quelle caratteristiche che lo rendono meno virile e costruendo un’importante relazione con Keeley – pur non riuscendo (per ora) a ricostruirla.

Ted Lasso finale

Il finale di Ted Lasso è illuminante.

La serie dialoga con lo spettatore, che è rimasto col fiato sospeso fino all’ultimo momento, che ha tifato per quella che è diventata alla fine la sua squadra.

Eppure, alla fine scopriamo che il tanto agognato titolo non è stato vinto da Richmond.

Ma alla fine è veramente importante?

Jason Sudeikis in una scena di Ted Lasso, serie tv Apple TV+

È più importante che ogni storia abbia la sua prevedibile e auspicata conclusione, che ogni personaggio abbia raggiunto il massimo del successo, o che i protagonisti siano arrivati alla fine del loro percorso in maniera soddisfacente?

Un po’ questo quello che ci vuole dire Ted Lasso, guardandoci direttamente negli occhi.

È solo l’inizio.

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Neon Genesis Evangelion – Uno, nessuno, l’umanità tutta

Neon Genesis Evangelion (1995 – 1996) di Hideaki Anno è una delle serie tv anime più di culto della storia della serialità giapponese (e non solo). Un prodotto con una gestazione molto complessa, con diversi prodotti successivi e derivativi.

In Italia ebbe diverse versioni di doppiaggio, la prima nel 1997.

Articolo scritto con il prezioso contributo – diretto e indiretto – di Carmelo.

Di cosa parla Neon Genesis Evangelion?

2015, Giappone. Il quattordicenne Shinji Ikari, dopo aver perso i contatti col padre per anni, viene scelto come pilota dell’EVA-01, uno dei mecha dall’origine misteriosa, col solo obbiettivo di combattere gli Angeli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Neon Genesis Evangelion?

EVA-01 in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati.

Non è un caso che Evangelion sia diventata una serie così tanto di culto: rappresenta un incontro veramente peculiare fra una trama fantascientifica e con diversi momenti d’azione, con una riflessione profonda sulla natura umana.

Infatti, si alternano momenti intensamente riflessivi, non poche volte assai sibillini, a sequenze puramente comiche e di passaggio, che riescono però a rendere la narrazione meno pesante e complessivamente molto godibile.

Cos’è per me Evangelion

A cura di Carmelo

È un esperimento televisivo, una lezione di filosofia e psicologia fatta ad animazione, che a detta del suo creatore tende a trasformare lo spettatore medio passivo, che guarda un determinato programma accettando quello che vede e sente passivamente seguendo l’arco narrativo fatto di causa ed effetto, azione e reazione.

In Evangelion lo spettatore diventa attivo cerca delle sue spiegazioni ed interpretazioni a quello che vede, creando un proprio mondo all’interno dell’anime stesso, oltre a riflettere sulle tematiche profonde che vengono proposte.

Evangelion è una sorta di puzzle.

Qualsiasi persona può vederlo e darne una propria interpretazione. In altre parole, stiamo offrendo agli spettatori [la possibilità] di pensare da soli, in modo che ogni persona possa immaginare il proprio mondo.

Hideaki Anno

Se avrete – come prevedibile – dubbi alla fine della visione, potrete tornare qui.

Troverete tutte le risposte.

Ma ce ne sono un paio a cui posso già rispondere…

Come guardare Evangelion

La visione di Neon Genesis Evangelion non può che – ovviamente – partire dalla serie tv originale, che trovate completa su Netflix (se avete dubbi sul doppiaggio, da qui potete passare alla parte dedicata).

Si compone di 26 episodi della durata di circa 20 minuti, i cui due finali sono stati riscritti in parte dal primo dei film successivi, The End of Evangelion (1997).

The End of Evangelion (1997)

EVA-01 in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Dal momento che gli ultimi due episodi della serie tv originale vennero prodotti a seguito di un importante taglio di budget, si nota subito l’evidente differenza rispetto al resto della serie.

Si tratta infatti di una coppia di episodi più che altro verbale, con una struttura narrativa per così dire nulla, che racconta principalmente a parole il concetto conclusivo che Anno, il creatore, voleva comunicare.

Quindi è meglio vedere The End of Evangelion?

Una scena di The End of Evangelion di Hideaki Anno

In generale, sì.

Ma solamente perché è interessante vedere la conclusione vera – o, almeno, come era stata concepita originariamente dal suo creatore. Tuttavia, io personalmente preferisco la chiusura della serie: più immediata e francamente anche più chiara.

Al contrario, questo film (che in realtà sono due episodi più lunghi e uniti in un lungometraggio) è quasi saturo di elementi, volendo mostrare con immagini quello che di fatto il finale di serie racconta a parole, ma con anche diverse aggiunte.

E gli altri film successivi?

A dieci anni di distanza (2007-2021), uscì un quartetto di film chiamato Rebuild of Evangelion.

Gli stessi propongono una narrazione alternativa della storia (per i primi tre) e una conclusione diversa sia dalla serie che da End of Evangelion. Non avendoli visti non so cosa consigliarvi, anche perché le opinioni in merito sono molto miste.

Tuttavia, se questo tipo di progetto vi ispira e volete ancora altro di Evangelion, provate a dargli una chance.

Il doppiaggio di Evangelion

La questione del doppiaggio di Evangelion è tutt’oggi un tema molto caldo.

Quindi cerchiamo di fare il punto.

Il primo doppiaggio (1997)

EVA-01 in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Il primo doppiaggio italiano di Evangelion venne fatto sotto la doppia direzione di Fabrizio Mazzotta e Paolo Cortese nel 1997, con anche il coinvolgimento di Cannarsi.

Un doppiaggio molto fedele all’originale, che non manca di qualche linea di dialogo che appare un po’ arcaica e forzata, ma nel complesso è molto godibile e rende bene tutti i concetti della serie.

Il caso Cannarsi (2018)

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Nel 2018 Netflix acquisì i diritti di tutti i prodotti del brand, e per questo portò un doppiaggio nuovo di zecca, sotto ancora la direzione di Fabrizio Mazzotta e, soprattutto, di Gualtiero Cannarsi.

Ed è qui che il Cannarsiometro impazzisce.

Con questa nuova edizione infatti scoppiò Il caso Cannarsi, per cui fu spernacchiato a destra e a manca da tutti, persino da chi non sapeva neanche cosa fosse Evangelion – in quanto, oltretutto il problema era presente da anni.

E Netflix corse ai ripari.

Il nuovissimo doppiaggio (2020)

Shinji, Misato e  in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Proprio per via di queste polemiche, Netflix lo stesso anno dello scandalo annunciò un nuovo doppiaggio, che venne pubblicato due anni dopo.

Personalmente considero questo doppiaggio per certi versi più godibile, perché evidentemente più semplice rispetto ad entrambe le precedenti edizioni, ma che rischia anche di andare troppo a semplificare l’opera stessa…

Quale doppiaggio scegliere?

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Dopo aver visto la serie sia col doppiaggio originale, sia con il doppiaggio del 1997, per un primo impatto all’opera io vi consiglio il primo doppiaggio – se riuscite a recuperarlo, per esempio un’edizione home video.

Tuttavia, anche il doppiaggio che trovate su Netflix è accettabile.

Ecco un video per avere un colpo d’occhio sulla situazione:

La depressione

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Shinji è un protagonista imperfetto.

Viene improvvisamente trascinato in una vita nuova, una missione per cui non si sente pronto, ma che accetta per pena verso Rei, che nel loro primo incontro è ancora in un evidente recupero fisico dopo l’incidente che ha dovuto affrontare.

E infatti il primo contatto è già un trauma.

Ma la bellezza di Shinji sta proprio nel suo essere tremendamente fallibile: è un eroe incredibilmente quotidiano, realistico, in cui Anno è riuscito a raccontare la profonda depressione che aveva vissuto.

Ed infatti il suo percorso racconta l’uscita da questo stato di angoscia.

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Lo stato mentale di Shinji può essere meglio spiegato considerando le tesi de La malattia mortale, opera fondamentale della filosofia di Kierkegaard.

Non a caso l’Episodio 16 porta il titolo della suddetta opera -「死に至る病、そして」, ovvero la malattia mortale, e…

In questo caso l’Angelo da sconfiggere è Leliel, la cui realtà fisica è la sua ombra, identificata come Mare di Dirac, che si rifà ad una teoria effettivamente esistente del fisico omonimo: il vuoto fisico è un mare infinito di particelle di energia negativa.

E proprio al suo interno Shinji viene assorbito.

Shinji Evangelion

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Le persone che odiano sé stesse non sono in grado di amare né di credere nel loro prossimo.

All’interno di questa realtà parallela, che rappresenta fondamentalmente il Nulla, il protagonista viene costretto a rivivere una serie di eventi che lo porteranno alla disperazione, la malattia mortale, che uccide lo spirito.

E questa disperazione nel suo caso si articola nella sua seconda declinazione secondo Kierkegaard: il disperatamente non voler essere sé stessi.

E infatti Shinji racconta in più momenti nel corso della serie il suo odiare sé stesso, arrivando al punto – soprattutto in The End of Evangelion – di voler fuggire da tutto quello che gli sta attorno – e facendolo effettivamente per ben due volte.

Il suo sopravvivere alla malattia mortale avviene in due momenti: la prima volta appunto nell’Episodio 16, quando viene salvato dalla madre stessa – che poi corrisponde all’EVA-01. La seconda, nel finale – sia della serie, sia del film.

Infatti, in conclusione l’unico modo in cui Shinji può salvarsi è non solo accettare il suo essere, ma anche l’idea che lo stesso è definito dal suo rapporto con gli altri. Un relazionarsi che può avere effetti sia negativi che positivi, entrambi essenziali per la definizione del suo Io.

E infine il nostro eroe grida felice:

Per me è possibile esistere!

Il complesso del riccio Evangelion

Il complesso del riccio è esplicato all’interno della serie stessa nell’Episodio 4, ed è il collegamento fondamentale fra Shinji e il concetto generale della serie.

Secondo questa teoria, formulata dal filosofo Schopenhauer, che due esseri umani si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno l’uno con l’altro. Proprio all’interno dell’episodio, Shinji scappa perché, avendo ferito la sorella di Suzuhara, e si sente ferito a sua volta.

E infatti Misato dice:

 Lo stesso capita ad alcune persone: Shinji in fondo al suo cuore è spaventato dal dolore che potrebbe provare e questo lo rende freddo e riservato.

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Per questo vaga per la città, e riesce solo parzialmente a ritornare in sé stesso grazie all’incontro con Kensuke, che gli permette di ritrovare il calore umano che gli mancava.

Ma, nonostante tutto, decide comunque di abbandonare la Nerv.

Solo alla fine dell’episodio ci ripensa, facendo un piccolo passo avanti nella sua maturazione, ovvero quello che aveva predetto Ritsuko:

Presto si renderà conto anche lui che crescere in fondo è un continuo provare ad avvicinarsi e allontanarsi l’un l’altro, finché non si trova la distanza giusta per non ferirsi a vicenda. 

Schopenhauer Evangelion

Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Infatti, la risoluzione di questo dilemma in Evangelion è diversa da quella proposta da Schopenhauer: il filosofo tedesco conclude che l’unica salvezza da questa solitudine è ricercare quel calore umano tanto desiderato dentro sé stessi.

Quindi non l’Uomo non bisogno niente di più che di sé stesso.

Invece, secondo la risoluzione di Evangelion, il progetto del Perfezionamento dell’uomo prevede la distruzione dell’individualità e l’unione di tutte le anime per riuscire a colmare quei vuoti causati da questo senso di solitudine insolvibile che condanna l’umanità al dolore.

Shinji e Asuka in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ma in entrambi i finali Shinji – e quindi Anno – si oppone a questa visione.

La scelta finale è quella di accettare il dolore che la propria individualità provoca, soprattutto nello scontrarsi con altre individualità diverse: un incontro che può provocare sia gioia che dolore, ma che anche definisce l’Uomo stesso.

E lo spiega bene lo stesso creatore:

È la storia della risoluzione, della volontà di stare insieme agli altri anche se si è bloccati dalla paura di toccare il prossimo, al costo di sopportare una vaga solitudine.

Hideaki Anno

La vendetta?

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Come ogni personaggio di Evangelion, anche Misato ha un trauma importante alle spalle.

Sulle prime viene presentato come una donna allegra, quasi comica – e infatti su di lei grava molta parte dell’elemento umoristico dell’intera serie. Tuttavia, i suoi comportamenti così rozzi e disordinati vengono meglio spiegati quando scopriamo il suo passato.

La giovane Misato è infatti l’unica sopravvissuta al Second Impact, salvata proprio dal padre che aveva odiato per gran parte della sua vita. A questo trauma era seguito un periodo di stallo di ben due anni, di totale mutismo.

Ma anche di rinascita.

Infatti, come racconta la stessa Ritsuko:

Pare che per qualche tempo abbia sofferto di afasia, e adesso non fa che chiacchierare, come a voler colmare il vuoto di parole nel suo passato.

Misato e Ryoji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ma, per come Misato si impegna a lasciarsi alle palle il passato, lo stesso è sempre in agguato.

Anzitutto, con il suo rapporto con Ryōji.

La donna intraprende una relazione importante con quest’uomo piuttosto affascinante e carismatico, arrivando quasi ad annullare la sua stessa vita – mancando per un’intera settimana da scuola per stare insieme a lui.

Tuttavia, sceglie di troncare la relazione, perché si rende conto di essersi intrappolata nel complesso di Elettra. Infatti, Misato sente di star ricercando il suo stesso padre perduto in Ryōji, sentendosi anche in colpa per essersi approfittata di lui – sempre seguendo il medesimo complesso, che porta anche alla volontà di distruzione del genitore.

Misato Neon Genesis Evangelion

Misato in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

La Misato sul lavoro è un personaggio totalmente diverso.

Forte, autoritaria, in continuo conflitto con Ritsuko, determinata a portare a termine la sua missione: ottenere la sua vendetta contro gli Angeli che gli hanno portato via quel padre tanto amato ed odiato.

Ma riesce anche ad essere la madre di Shinji, una guida ma anche – sempre secondo lo stesso complesso di Edipo – un oggetto del desiderio sessuale del ragazzo.

Il dramma personale

Asuka in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Asuka presenta una caratterizzazione non tanto diversa da quella di Misato.

Anche il Second Children mostra all’esterno una facciata che serve a nascondere ciò che si cela nel suo animo. E, di nuovo, un trauma ha definito la sua personalità: la madre, ormai impazzita, che non la riconosceva, che non la guardava più…

Da cui l’ossessione di Asuka non solo di crescere in fretta, senza mostrare alcuna fragilità, ma di voler continuamente essere vista, riconosciuta come la migliore.

E da questo si sviluppa il conflitto con Shinji.

Asuka e Shinji in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

È solo da me stessa che voglio essere apprezzata.

Per molti versi Shinji neanche capisce il motivo dell’odio di Asuka nei suoi confronti, ma i suoi rimproveri gli rimbombano continuamente nelle orecchie…

Asuka è banalmente gelosa di Shinji, gelosa del suo riuscire così facilmente ad avere tutte le attenzioni, senza di fatto impegnarsi allo stesso modo in cui fa lei – perché gli viene tutto troppo naturale, dal momento che l’EVA è stato costruito su misura per lui.

Infatti, la ragazza rappresenta la terza declinazione della malattia mortale secondo Kierkegaard: la volontà di voler essere sé stessi, ma senza riuscirci. E la sua disperazione aumenta con il diminuire del tasso di sincronizzazione con l’Eva, e, di conseguenza, della sua importanza per la missione della NERV.

Una seconda vita

Rei in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Rei è il personaggio più enigmatico della serie.

Solo sul finale scopriamo che sostanzialmente si tratta di un essere creato artificialmente, con misto fra la coscienza di Yui e Lilith – con cui alla fine si ricongiunge, andando a creare una versione della madre di Shinji potenziata, che lo accompagna nel suo ripensamento fondamentale.

Ma il dramma di Rei è un altro.

Il First Children vive la prima declinazione della malattia mortale di Kierkegaard: il non essere disperatamente consapevoli di avere un Io. E infatti la ragazza è costantemente alla ricerca di un’identità, che trova continuamente frammentata in più personalità diverse – che in effetti la compongono.

Il mio visibile, che però non percepisco come il mio io.

Rei in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Voglio tornare al nulla.

Infatti, Rei è fondamentalmente un mezzo per portare a termine la missione della NERV, un contenitore, un oggetto prodotto in serie, senza una propria identità. E anche per questo desidera la morte, davanti alla prospettiva dell’inevitabile abbandono, una volta che il progetto sarà concluso.

Anche per questo sceglie di legarsi così profondamente ad Ikari: non solo il suo creatore, ma anche l’unico che gli ha dimostrato veramente affetto – come gli occhiali le dimostrano. E, per soddisfarlo, si sottopone del tutto ai suoi ordini, anche deumanizzandosi.

Ma non fino alla fine.

Rei Evangelion

Rei in una scena di The End of Evangelion (1997)

Io sono me stessa.

Per questo Shinji e Rei si riescono a salvare vicendevolmente.

Tramite Shinji, il First Children riesce a capire il valore di un legame diverso da quello che lo lega artificiosamente all’EVA, e proprio secondo ancora il paradosso del riccio e la morale complessiva dell’opera: definire il proprio Io tramite il contatto con gli altri.

E infatti nel finale di The End of Evangelion si rifiuta di essere per l’ennesima volta il mezzo di Ikari per ritrovare la moglie perduta, ma sceglie invece di legarsi a Lilith – e quindi e liberare una parte del suo essere originario – per salvare Shinji.

Asuka e Shinji Evangelion

Asuka è il personaggio che più respinge Shinji, ma quello anche da cui il protagonista è più attratto.

Da questo punto di vista, a parte alcuni scivoloni soprattutto in The End of Evangelion, sono rimasta piuttosto soddisfatta dalla rappresentazione di questo lato della personalità del protagonista – quasi inevitabile trattandosi di un adolescente.

Come testimoniato da inquadrature dal sapore fortemente voyeuristico, Shinji scopre la sua sessualità proprio tramite Asuka, in particolare quando vorrebbe baciarla mentre è addormentata.

Ma Asuka è anche il personaggio da cui non riesce bene a prendere le distanze, ferendosi continuamente…

Rei in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Al contrario il rapporto con Rei non ha alcuna componente sessuale, ma rappresenta invece il desiderio di riavvicinarsi ai genitori.

Prima Ikari – per via dell’importante rapporto che la ragazza sembra avere con l’uomo – e poi alla madre stessa, che ritrova inconsapevolmente proprio nel First Children. Ma alla fine con Rei si crea un rapporto importante, che va oltre a tutto questo.

Anche solo per il gesto di umanità – uno dei pochi – che Shinji riesce a strappare alla ragazza: il sorriso alla fine del sesto episodio.

Il percorso tracciato

Ritsuko in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ritsuko è un altro personaggio di difficile lettura.

Apparentemente una donna fredda e distaccata, concentrata unicamente sul suo lavoro, in realtà si rivela a poco a poco come un personaggio che vive nell’ombra dell’eredità materna.

Ritsuko infatti ha un rapporto molto conflittuale con la madre: se da una parte l’ammira come scienziata per le sue incredibili scoperte, dall’altra la biasima come madre e donna.

Ma, altrettanto inevitabilmente, segue il suo stesso percorso, ricalca i suoi stessi errori.

Ritsuko in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Infatti, diventa lei stessa quella donna distaccata e dedita solamente al lavoro, e allo stesso modo si lascia totalmente rapire dalle ambizioni di Ikari, divenendone il principale agente.

Allo stesso modo vive dell’invidia della posizione di Rei: come la madre aveva strangolato la bambina, così Ritsuko distrugge tutte le copie del First Children.

Ma le due si differenziano sul finale.

Se infatti Naoko sceglie di arrendersi davanti all’abbandono di Ikari, togliendosi la vita, al contrario Ritsuko sceglie di andarsene col botto, portando con sé tutto quello che ha creato.

Ma alla fine della sua vita deve anche accettare il tradimento della madre: il Magi Casper si rifiuta di seguire i suoi ordini, e dà ancora la vittoria a Ikari.

Mamma, hai scelto il tuo uomo invece che tua figlia?

Il volto rivelatorio

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ikari è un personaggio pieno di contraddizioni.

Inizialmente appare come il totale antagonista, in particolare del figlio, che ha allontanato per anni, e che per la maggior parte del tempo tratta sgarbatamente e con grande freddezza.

Durante la serie viene dipinto sempre di più come il cospiratore nell’ombra, un serpente che ha sempre agito unicamente per il proprio profitto.

Ma la sua umanità sta proprio in Shinji e Yui.

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Ikari evidentemente aveva avvicinato la futura moglie per approfittarsi della sua posizione, ma col tempo, inevitabilmente, si era legato indissolubilmente a lei.

Al punto di fare qualsiasi cosa per riaverla al suo fianco.

Il trauma della perdita del suo unico amore è infatti stato rivelatore del significato e del peso che hanno le relazioni con gli altri, soprattutto quelle importanti.

E per questo ha allontanato Shinji: è consapevole che la sua vicinanza col figlio riporta alla luce domande sulla moglie a cui non vuole rispondere, è così del fatto che un rapporto così importante come quello col figlio gli porterebbe gioia, ma anche tanto dolore.

Ikari in una scena di Neon Genesis Evangelion (1995 - 1996) di Hideaki Anno

Tale padre, tale figlio insomma.

Da notare anche il suo cambiamento fisico: se nel passato era un uomo che stava sempre a volto scoperto, con dei lineamenti che già di per sé raccontavano la sua natura insidiosa, nel presente è invece una figura nell’ombra i cui occhi, specchio dell’anima, sono spesso celati…

E l’unico affetto che davvero si concede è quello verso Rei, ma solo perché la vede come il mezzo per riuscire, finalmente, a ricongiungersi con Yui.

L’eredità di Evangelion

A cura di Carmelo

Il 4 ottobre 1995 viene trasmesso su Tokyo Channel 12 alle 18:30 il primo episodio di Neon Genesis Evangelion, una serie che si rivelerà rivoluzionaria e innovatrici per il genere.

Fra le innovazioni più importanti, vanno citati i numerosi riferimenti religiosi, filosofici e psicologici, una profonda introspezione psicologica dei personaggi, portata avanti tramite diversi monologhi interiori dei protagonisti e i momenti di calma e silenzio.

Gli stessi sono molto importanti, come ricorda Makoto Shinkai, autore nipponico ancora in rampa di lancio per Your Name (2016):

Gli anime non devono avere per forza un sacco d’azione e di movimento. A volte si può parlare di parole, o, addirittura della mancanza di parole. E di queste cose solitamente non si parla mai.

Ma l’ innovazione più importante di Evangelion è stata di inaugurare un nuovo e duraturo periodo fertile per l’animazione televisiva indicato con il termine di nuova animazione seriale giapponese.

In particolare, ha portato ad una maggiore autorità dei produttori, una concentrazione delle risorse in un minor numero di episodi, un’impostazione registica più vicina alla cinematografia dal vero.

E infine ha portato anche ad un drastico ridimensionamento del rapporto di dipendenza dai soggetti manga e ad una maggior libertà dai vincoli del merchandising (inteso come fonte d’ ispirazione obbligatoria).

Tuttavia, nonostante l’incredibile successo della sua opera – anzi, forse proprio per quello, Anno nel 2006 affermò:

L’opera innanzitutto visiva nota come Evangelion è stata realizzata assecondando desideri diversi. Il desiderio di ricollegare l’animazione giapponese, in rovina, alle sue origini. Il desiderio di abbattere il dilagare della chiusura d’animo.

Ho riflettuto sulla ragione di rivolgersi, oggi, ad un titolo del passato, di oltre 10 anni fa. Sento che Eva ormai è vecchio.

Ma negli ultimi 12 anni non ci sono stati anime più nuovi di Eva.

E con queste parole presento la Rebuild of Evangelion.

In realtà, ad oggi possiamo modestamente affermare quanto si sbagliasse: basta guardarsi indietro per vedere quanti prodotti televisivi anime di altissimo livello siano nati sotto l’influenza di Evangelion, che ha contribuito alla maturazione del genere.

Fra questi, Serial Experiments Lain (1998), Cowboy bebop (1998-1999), Samurai Champloo (2004-2005), Ergo Proxy (2006), Time of Eve (2010), Steins;Gate (2011), Psycho Pass (2012-2013).

Evangelion finale spiegazione

Tutte le risposte alle domande più frequenti sul Neon Genesis Evangelion.

Cos’è successo durante il First Impact?

Il First Impact avvenne in un momento indefinito del passato, quando la Luna Nera si schiantò sulla Terra, precisamente nell’odierno Giappone. La stessa era stata inviata dalla Prima Razza Ancestrale, entità extraterrestri, avanzatissime tecnologicamente, e creatrici di vita.

La Luna Nera conteneva Lilith, uno dei Semi della Vita, entità extraterrestri inviate appunto dalla Prima Razza Ancestrale per portare la vita su diversi pianeti nell’Universo.

Ma l’arrivo di Lilith non è stato altro che un errore, perché sulla Terra era già presente un altro Seme della Vita, Adam.

Quest’ultimo venne neutralizzato tramite la Lancia di Longino, non potendo così procreare una progenie, cosa che fece invece Lilith: la sua progenie sono i Lilin, le creature della Terra, fra cui gli umani.

Chi sono gli angeli?

Generalmente parlando, gli Angeli di Evangelion sono i figli di Adam, che tornano sulla Terra e la attaccano per riottenere il possesso della stessa.

A questo fine vogliono rientrare in contatto con Lilith.

Per questo l’obbiettivo degli Evangelion è quello di distruggere gli Angeli ed impedire loro di compiere la loro missione – ovvero causare il Third Impact.

Cos’è successo durante il Second Impact?

Il Second Impact avvenne il 13 Settembre 2000 in Antartide, e fu il risultato di un esperimento guidato dal Dr. Katsuragi, il padre di Misato, finalizzato al risveglio di Adam – il gigante di luce – e al suo contatto di quest’ultimo con DNA umano.

Di fronte all’imminente catastrofe, gli scienziati riuscirono a neutralizzare nuovamente Adam tramite la Lancia di Longino, riducendolo allo stato embrionale.

Ma era troppo tardi.

Le conseguenze furono terribili: scioglimento della calotta polare, un improvviso spostamento dell’asse terrestre, innalzamento del livello dei mari e conseguente cambiamento delle stagioni – in Giappone, un’estate eterna.

Tutti i partecipanti alla missione morirono, si salvò solo Misato Katsuragi salvata dal padre, mentre Gendō Ikari riuscì a scappare per tempo portando con sé tutti i materiali dell’esperimento.

Cosa sono gli Eva?

Gli EVA sono dei giganteschi automi da combattimento antropomorfi, creati grazie agli studi della Dr.ssa Yui Ikari, sotto la guida della SEELE, al fine di combattere gli Angeli e portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.

Con l’eccezione dell’EVA-01, che è creata da Lilith, tutti gli EVA sono creati a partire da Adam. Anche se apparentemente sembrano dei robot giganti senz’anima, nel corso della serie si scopre che in realtà sono delle creature organiche, la cui armatura che li ricopre soffoca la loro volontà.

La stessa si libera quando l’EVA entra nella Modalità Berserk, e prende il sopravvento sul pilota, agendo autonomamente.

Chi è Rei Ayanami?

Rei Ayanami è il First Children e pilota dell’EVA-00.

Anche se viene presentata come la figlia di una conoscente, in realtà si sa poco sul suo passato: è sicuramente un essere artificiale, creato da quello che rimaneva dopo l’assorbimento di Yui Ikari dall’EVA-01 e da Lilith, con cui si ricongiunge in The End of Evangelion.

Il personaggio ha tre incarnazioni: Rei I, la bambina che si vede nel flashback, uccisa da Naoko Akagi nel 2010; Rei II, il personaggio che si vede nella maggior parte della serie; Rei III, dalla seconda parte dell’Episodio 23 fino al finale.

Cos’è la NERV?

La NERV è un’organizzazione creata dopo il Second Impact per combattere gli Angeli, essendo quindi responsabile della creazione degli Evangelion.

Per quanto sia sulla carta sotto il controllo delle Nazioni Unite, in realtà agisce in maniera abbastanza indipendente, in parte controllata dalla SEELE, col fine di portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo.

La NERV deriva anche da un assorbimento della Gehirn, organizzazione sempre nata dopo il Second Impact e responsabile della creazione dei Magi.

Cos’è la SEELE?

La SEELE è un’organizzazione segreta che lavora alle spalle della NERV, in parte controllandola e finanziandola.

La teoria alla base dell’organizzazione è che l’Umanità la stirpe sbagliata, in quanto nata da Lilith, mentre la vera stirpe che dovrebbe dominare la terra è quella dei figli di Adam, quindi gli Angeli.

Per questo lavorano ad un unico obbiettivo: il Perfezionamento dell’Uomo.

Cos’è il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo?

Il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo è l’obbiettivo segreto portato avanti dalla SEELE con l’aiuto della NERV.

Il fine ultimo di questo progetto è riuscire ad unire tutti i figli di Lilith, i Lilin – quindi l’umanità – nell’uovo di Lilith come un unico essere, così da portare ad un perfezionamento appunto dell’uomo, per colmare i vuoti del suo animo derivanti dall’individualità.

Cosa succede nel finale?

Esistono due finali di Evangelion: quello della serie e quello di The End of Evangelion – anche se per molti tratti sono simili.

Nel finale della serie tv i due episodi sono un momento di riflessione per tutti i personaggi, in particolare per Shinji: distrutto dopo aver ucciso Kaworu Nagisa, sente di odiarsi e voler scomparire.

Tuttavia, riesce in ultimo ad accettare di vivere in un mondo popolato da altre persone, le cui relazioni potrebbero anche ferirlo, ma che sono essenziali per definire la sua identità.

The End of Evangelion spiegazione

The End of Evangelion è più complesso.

La NERV ha sconfitto tutti gli Angeli, ma la SEELE scopre il tradimento di Ikari – che non vuole portare a termine il Progetto di Perfezionamento dell’Uomo come da loro richiesto – e quindi manda l’esercito per sterminare la base, in particolare i piloti degli EVA, e prenderne possesso.

Asuka combatte i nuovi EVA, riuscendo inizialmente a vincere, ma poi venendo sopraffatta. Shinji, distrutto dalla morte di Kaworu Nagisa, viene trascinato e messo in salvo da Misato – che muore nel tentativo – e sale sull’EVA-01.

Mentre gli EVA riescono a sconfiggere l’EVA-01, Rei si rifiuta di seguire il piano di Ikari – quello di fondersi con lui – e invece si fonde con Lilith, che diventa un essere gigantesco con le sembianze di Rei, che assorbe Shinji al suo interno.

A questo punto, contro i piani della SEELE, Shinji può decidere l’andamento del Piano di Perfezionamento.

Shinji desidera a questo punto che tutti muoiano, compreso sé stesso, ma viene aiutato nel suo processo di consapevolezza dall’anima di Yui contenuta dentro l’EVA-01, mentre le anime di tutta l’umanità si sono fuse in un’unica entità.

Quando Shinji accetta infine di vivere in un mondo popolato da individualità diverse – quindi rifiutando il Perfezionamento – gli EVA diventano di pietra precipitano sulla terra, mentre l’EVA-01 si smembra e si dirige verso lo spazio con l’anima di Yui.

Infine, Shinji si risveglia sulla spiaggia insieme ad Asuka, tenta di strozzarla, ma la mano della ragazza sulla sua guancia – primo gesto di vero affetto – lo fa scoppiare a piangere ed allentare la presa.

Il film si chiude con Asuka che dice Che schifo.

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Alfred Hitchcock Avventura Dramma romantico Drammatico Film Mistero

Io ti salverò – In una mente offuscata

Io ti salverò (1945), traduzione piuttosto impropria di Spellbound (Incantato) è uno dei film considerati minori della produzione di Alfred Hitchcock. Ma, nondimeno, una pellicola piuttosto interessante.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,5 milioni di dollari, circa 25 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 6,4 milioni di dollari, circa 106 milioni oggi.

Di cosa parla Io ti salverò?

Costance Petersen lavora in una clinica psichiatrica, proprio quando sembra esserci un cambio di dirigenza piuttosto misterioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Io ti salverò?

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

In generale, sì.

Anche se Io ti salverò è uno dei titoli minori di Hitchcock, riesce comunque a distinguersi grazie ad un mistero davvero ben costruito e a guizzi registici non indifferenti. Tuttavia, per quanto appassionante, presenta un difetto fondamentale: la storia d’amore.

Per quanto possa sembrare un elemento secondario, per certi versi il film e la sua efficacia sono proprio strozzati dall’ingombrante presenza di questo elemento, che poteva per molti versi essere eliminato e il film avrebbe funzionato comunque.

Vedere per credere.

Un mistero incredibile…

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

La costruzione del mistero è magistrale.

Viene introdotto a piccoli passi, prima lasciando spazio all’introduzione del primo ambiente, poi introducendo il personaggio-fulcro dell’intera narrazione, seminando fin dalla prima scena indizi sulla sua identità.

Una narrazione articolata in picchi, corrispondenti agli scoppi di violenza di John, ogni volta che viene assalito da un frammento di ricordo, che gli fa cambiare bruscamente comportamento.

E lo spettatore si può facilmente identificare nella frustrazione di Costance, la cui testardaggine è di fatto il motore della vicenda, oltre ad essere il personaggio risolutivo della storia.

…strozzato dall’amore

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Forse per rendere più digeribile una vicenda comunque piuttosto angosciante, è stata inserita a forza la storia amorosa.

E il contrasto è quasi opprimente.

Il rapporto romantico fra i due protagonisti, soprattutto più si prosegue con la narrazione, sembra sempre più superfluo, di troppo. Di fatto la storia avrebbe potuto serenamente proseguire anche senza che i due avessero una relazione romantica – e forse in un prodotto uscito oggi questo elemento sarebbe stato gestito del tutto diversamente.

O, ancora meglio, omesso.

Incredibilmente attuale

Ingrid Bergman in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Un aspetto che mi ha veramente sorpreso è la rappresentazione della figura femminile.

Per certi versi, incredibilmente attuale.

Non solo nell’ambiente di lavoro Costance viene continuamente spinta verso il matrimonio, anche a discapito del suo lavoro, ma soprattutto la sequenza delle avance nella hall dell’hotel è incredibilmente esplicita.

La protagonista si trova costantemente assillata da una schiera di uomini che sembrano non poter fare a meno di infastidirla, al punto che la stessa riesce anche a rigirare la situazione a suo favore.

Non saprei dire quali fossero le intenzioni dietro a questa scena – non vorrei cadere nell’errore di leggerla con gli occhi di oggi. Potrebbe essere il primo indizio di personaggi femminili piuttosto atipici per il tempo – come poi in Psycho (1960) – oppure un semplice siparietto comico.

La sequenza onirica

Il punto più alto della pellicola è indubbiamente la sequenza onirica.

Un sogno che dovrebbe essere del tutto rivelatorio sul mistero, ma in realtà è solo un altro enigma da sciogliere, anche più complesso e frustrante: è come se la soluzione fosse sempre davanti agli occhi dei personaggi, ma gli stessi non fossero in grado di coglierla.

Sulle prime pensavo che Hitchcock si fosse ispirato al capolavoro di Dalì, La persistenza della memoria (1932) – quella con gli orologi molli, per intenderci. Invece con mia grande sorpresa ho scoperto che quella scena fu proprio creata sotto la direzione del maestro del mistico.

Un elemento piuttosto interessante della pellicola è l’uso della soggettiva, che sarà poi fondamentale in Psycho.

Tre sequenze uniche nel loro genere, in cui lo spettatore si immerge letteralmente nell’occhio del personaggio.

Quando Constance e John si avvicinano per baciarsi:

Ingrid Bergman e Gregory Peck in una scena di Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock

Quando John beve il latte offerto dal professore:

E infine quando Murchison si spara:

Ed è anche più incredibile che questa spettacolare sequenza non sia la chiusura della pellicola, che invece scade ancora nella insostenibile trama romantica….

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Dramma familiare Drammatico HBO Max Mistero Serie tv Thriller

Mare of Easttown – Un caso umano?

Mare of Easttown (2021) è una miniserie mistery di produzione HBO con protagonista Kate Winslet, che divenne molto popolare nella stagione dei premi di quell’anno, vincendo quattro Emmy e un Golden Globe.

In Italia è nota col titolo di Omicidio a Easttown ed è disponibile su NOW.

Di cosa parla Mare of Easttown?

Dopo un anno, un misterioso caso di scomparsa di una ragazza nella piccola città di Easttown è ancora irrisolto. E cominciano ad accumularsi altri casi riguardanti altre giovani della comunità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mare of Easttown?

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Sì e no.

Personalmente, da una serie di cui si era parlato così tanto mi aspettavo qualcosa di più: è un prodotto complessivamente buono, con un’ottima Kate Winslet e una costruzione narrativa che riesce a tenere col fiato sospeso fino all’ultimo minuto.

Tuttavia, è anche una serie che si può definire mistery fino ad un certo punto, dal momento che per certi versi il caso diventa un elemento accessorio di una storia, che risulta invece molto più focalizzata sui personaggi.

E certe volte sembra voler prioritizzare l’elemento scioccante rispetto alla coerenza narrativa…

Poco amabile, ma necessaria

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

La protagonista ci viene subito presentata come una donna dura e scorbutica.

Ha un rapporto fortemente antagonistico sia con la madre che con l’ex-marito, proprio quando questo si sta per risposare, oltre ad essere incline alla scorrettezza e alle scorciatoie pur di togliersi da situazioni scomode.

Tuttavia, fin dalla prima puntata cominciamo a conoscerla anche come una detective che regge sulle sue spalle un enorme peso, soprattutto emotivo, fra casi impossibili e situazioni familiari complesse.

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

E col tempo scopriamo anche i traumi del suo passato.

La difficile vita familiare, che avuto il suo picco drammatico con il suicidio del figlio, l’ha fortemente indurita, portandola a gettarsi su casi apparentemente insolvibili, portandola ad un tormento interiore ancora più profondo.

Non mi ha del tutto entusiasmato la gestione del suo personaggio: si punta moltissimo dal punto di vista emotivo sui suoi traumi, ma poi questi vengono risolti fin troppo sbrigativamente, in particolare la morte di Colin.

Inoltre, la sua temporanea sospensione dalla polizia, che poteva portare ad una maggiore riflessione sul personaggio e ad una gestione della trama più interessante, in realtà si rivela fondamentalmente inutile, e anche troppo facilmente risolta.

E non è l’unico caso…

L’effetto Barnaby

Enid Graham in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

In moltissime serie analoghe, i misteri si svolgono in piccole comunità che fino a quel momento non erano mai state toccate da tragedie, anzi dove era improbabile che accadessero.

Tuttavia, la loro forza sta proprio nell’unicità del caso, che porta i detective ad investigare personaggi che appaiono del tutto innocui e insospettabili.

Quest’ultima dinamica non manca all’interno della serie, ma diventa davvero poco credibile quando i membri della comunità non solo hanno comportamenti sospetti, ma commettono pure svariati crimini.

Ruby Cruz in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Di fatto, all’interno di una comunità abbastanza piccola, sembra che ci sia la maggiore concentrazione di criminali che all’interno del resto degli Stati Uniti – e neanche tutti vengono denunciati o puniti.

Insomma, si scade nell’effetto Barnaby: all’interno di una cittadina minuscola accadono tantissimi e improbabili casi di omicidio, e chiunque può essere potenzialmente un criminale.

Tanti casi, nessun caso

Pur di tenere alta la tensione, la serie si perde in tante, troppe storyline.

Già l’idea di mettere due casi in un’unica serie è stato un azzardo, ma lo è tanto più se fondamentalmente i casi vengono risolti e messi nel cassetto, senza che si approfondisca più di tanto il caso stesso o le motivazioni che vi erano dietro.

E scegliere come uno dei colpevoli un personaggio sconosciuto è stato un incredibile autogol che ha vanificato del tutto il mio interesse al riguardo.

Julianne Nicholson in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Anche peggio scegliere di trascinare così lungamente invece l’omicidio di Erin, utilizzando una messinscena che puzzava fin da subito di fake: la scelta di non mostrare la notte dell’omicidio mentre John Ross la raccontava è un indizio fin troppo palese della falsità della sua confessione.

Al contempo ho poco apprezzato la scelta di Ryan come colpevole: un ragazzino di appena tredici anni che fondamentalmente lo spettatore non conosce e che serve solo per costruire l’inaspettato colpo di scena finale, che però appare veramente poco credibile…

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Apple TV+ Avventura Drammatico Mistero Serie tv Thriller

Black Bird – Al lupo, al lupo

Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+ di genere thriller. Come sempre, un ottimo prodotto seriale, che Apple non sembra voler far conoscere al mondo…

Di cosa parla Black Bird?

Jimmy è uno spacciatore arrogante e spocchioso, che viene condannato a 10 anni di galera. E il suo biglietto d’uscita è particolarmente salato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Bird?

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Assolutamente sì.

Black Bird è un thriller piuttosto atipico, che affronta diversi temi, fra cui un problema molto attuale negli Stati Uniti (e non solo): l’incubo delle carceri, che si sente in tutta la sua drammaticità.

E la prigione che diventa lo sfondo claustrofobico di un gioco fra le parti, retto da due attori di grandissimo talento, per una storia che riesce a tenerti col fiato sospeso fino all’ultimo…

Insomma, da recuperare.

La maschera

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Inizialmente Jimmy è un insopportabile arrogante, che pensa di avere sempre una via d’uscita e di poter fregare chiunque con la sua nota furbizia.

E infatti nel carcere, dopo appena sette mesi, lo troviamo perfettamente ambientato, a capo di un discreto, ma funzionante commercio interno.

E questa stessa arroganza la userà anche per smascherare Larry, cercando di prendere il posto del fratello.

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Il protagonista diventa infatti quasi un alter ego di Gary: superiore al fratello per fascino e sfrontatezza, ma comunque profondamente disturbato dal comportamento quasi bestiale che l’uomo rivela col tempo.

E, come alla fine il fratello maggiore di Hall ammette di non avere la forza di controllare Larry per tutta la vita, Jimmy perde del tutto il controllo davanti alla vera natura del suo fratello acquisito.

Non lo faccio per voi

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Se inizialmente lo smascheramento del killer era solo il biglietto di sola andata per uscire di prigione, non ci vuole molto perché i segreti di Larry diventino insostenibili.

Sulle prime Jimmy gioca a fare il gradasso, il cool guy che la sa più lunga di tutti e che sminuisce persino il ragazzo strambo, ma tutto sommato innocuo, accondiscendendo le sue parole per farlo confessare.

Ma quando Larry comincia veramente a rivelare quanto sia visceralmente malvagia e disturbata la sua mente, è il momento in cui Jimmy comincia davvero a crollare.

Taron Egerton e Paul Walter Hauser in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Una faccia di bronzo alla luce del sole, un uomo terrorizzato nel segreto della sua cella.

E allora passa alla mossa finale, la più difficile che permette veramente di far del tutto svelare la natura di Larry: mettere in dubbio la veridicità della sua storia. Un’accusa insostenibile per un individuo che ha inseguito tutta la vita il desiderio di riconoscimento sociale.

E anche se Jimmy prova a portare Larry, in un ultimo, disperato tentativo, sulla giusta via, capisce infine che è impossibile. E allora perde il controllo.

Ma la bestia vera si deve ancora rivelare…

La bestia sopita

Paul Walter Hauser in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Larry è il lupo travestito da agnello.

Apparentemente è un uomo solo, con le sue stramberie e i suoi peculiari comportamenti con le donne – e non solo – ma fondamentalmente innocuo.

In realtà i confini della sua follia non sono neanche concepibili: che la sua violenza per le donne derivi da una personalità multipla, da una concezione dell’altro sesso coltivata negli ambienti sbagliati o dai traumi infantili, non è dato a sapere.

Sappiamo solo che la sua apparente mansuetudine è del tutto ingannevole: Larry è una bestia incontrollabile, solo apparentemente sopita, che non ha il minimo rimorso per la sua condotta, anzi arriva proprio a giustificarla…

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2023 Avventura Azione Cinegame Drammatico Fantascienza HBO Max Nuove uscite serie tv Serie tv

The last of us – Il miglior adattamento?

The Last of Us (2023 – …) è una serie tratta dall’omonimo videogioco, di cui condivide showrunner e creatore – Neil Druckmann. Un elemento che è stata la forza e la sconfitta della serie…

Nonostante evidentemente non ci fosse sicurezza al riguardo, The Last of Us è stata una serie da record: se si guardano gli indici degli ascolti, gli stessi sono raddoppiati nel corso della messa in onda degli episodi.

Di cosa parla The Last of Us?

Un virus parassita si diffonde all’improvviso, a macchia d’olio, distruggendo la società dalle fondamenta. Vent’anni dopo, ancora non si trova una cura e il mondo è a pezzi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale pena di vedere The last of Us?

In generale, sì.

Non ho (ancora) giocato al videogioco, ma la mia ignoranza non mi ha portato alcun reale problema: la storia è perfettamente fruibile anche senza avere la minima idea del mondo di gioco, forte anche della fedeltà e della coerenza delle trame raccontate rispetto al prodotto originale.

Tuttavia, non manca di difetti e potrebbe essere meno attraente di quello che il trailer suggerisce: di fatto è un road movie, concentrato più sulle relazioni fra i personaggi che sul mondo di gioco, con un focus molto forte sui suoi protagonisti

In più – ed è il principale problema – non ha una narrazione effettivamente organica, ma piuttosto episodica. Insomma, non aspettatevi una grande serie con una storia unitaria di zombie, ma piuttosto un buddy movie ambientato in un mondo post apocalittico, cadenzato con la cosiddetta avventura della settimana.

Insomma, apprezzabile, ma da approcciare con la giusta forma mentis.

Un inizio troppo vicino

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

L’inizio di The Last of Us è forse la parte più azzeccata.

La serie si apre con una sequenza che getta le basi per farci comprendere la natura dei fungi e quindi dell’epidemia che presto prenderà piede. Segue una lunga sequenza dedicata a mostrarci i personaggi nel passato, che vivono la loro vita ignari di quello che sta già succedendo intorno a loro.

Con una tensione palpabile e perfetta per trenta lunghissimi minuti.

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

E poi tutto crolla: in un attimo la società è distrutta alle fondamenta. Non ci sono più uomini o donne, non ci sono più esseri umani, ma solo potenziali infetti. E capiamo – e sentiamo – profondamente il trauma di Joel…

E il salto in avanti di vent’anni riesce, in pochi minuti, a raccontare perfettamente quanto la situazione sia persino peggiorata: un innocente bambino viene accolto in una QZ, ma è infetto. Nella scena successiva lo troviamo nella pila di cadaveri che Joel sta raccogliendo…

E quei cartelli di avvertenze su come comportarsi vi ricordano qualcosa?

Costruire una relazione

Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Il cuore della narrazione è la relazione fra Joel e Ellie.

Spesso il resto della storia viene sacrificato per dare sempre maggior spazio al costituirsi del loro rapporto. Rapporto che, soprattutto sulle prime, è fortemente antagonistico: Joel vive Ellie come un peso.

Infatti l’uomo è stato indurito dalla vita, dalla morte della figlia e dai venti durissimi anni dove ha visto il mondo crollare. E infatti la loro relazione si costruisce a poco a poco: per un terzo degli episodi Joel tratta la ragazzina anche piuttosto sgarbatamente, cercando di domare la sua sfacciataggine.

Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Ma Ellie è un personaggio talmente frizzante e piacevole che per Joel è impossibile non affezionarsi e ritrovare in lei la figlia perduta. E, il misto di piccoli momenti che strappano una risata inaspettata – le terribili barzellette – e delle grandi sfide davanti alle quali i protagonisti vengono messi, costruisce un rapporto importante ed intenso.

E questo è possibile soprattutto per i due attori protagonisti.

Anche senza conoscere il videogioco, posso sicuramente dire che Pedro Pascal e Bella Ramsey siano stati due ottimi protagonisti, che sono riusciti a portare in scena una coppia intrigante e in continua evoluzione, per quanto opposta nel carattere.

Ma l’importanza della loro storia è anche parte del problema.

Un mondo senza pericoli

La totale centralità della loro relazione è soffocante per tutto il resto.

Non che manchi in realtà un buon world building: vengono raccontate le varie facce di questo nuovo e spietato mondo post apocalittico, frantumato in piccole comunità che pensano solo a se stesse, per cui il resto del mondo è il nemico.

Tuttavia, si sente la mancanza di una minaccia.

Gli infetti ci sono e quando ci sono sempre terrificanti, rubano la scena persino ai protagonisti, in particolare nel picco del quinto episodio, con la terrificante orda che azzanna, distrugge e smembra tutto quello che gli capita a tiro.

E gli attori degli infetti sono stati veramente ottimi.

Tuttavia la loro presenza è troppo sporadica: manca un numero sufficiente di scene che riesca a giustificare la continua tensione che dovremmo provare quando i personaggi escono dalle zone sicure.

Anzi, spesso viene anche detto che in determinate luoghi gli infetti non ci sono proprio…

La mancanza di organicità

Melanie Lynskey in una scena di The Last of Us

The Last of Us sembra voler raccontare una storia unitaria e un viaggio piuttosto lineare, con alcune deviazioni lungo il percorso.

Tuttavia, manca di un’effettiva organicità.

Ci sono fin troppe puntate in cui il viaggio si ferma per fin troppo tempo, con episodi che non sono semplici deviazioni, ma intere storie a parte o occasioni per approfondire meglio la psicologia dei personaggi.

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Nonostante molte di queste storie siano indubbiamente interessanti e introducano personaggi indimenticabili – fra cui la bellissima storia di Bill e Frank – al contempo rovinano inevitabilmente il ritmo della storia principale, che risulta eccessivamente spezzettata e troppo sbrigativa in alcuni snodi cruciali.

Lo svolgimento sembra voler portare una storia unitaria e completamente focalizzata sul mondo e soprattutto i protagonisti, ma al contempo si perde appunto in molte altre storie tangenziali. Non sarebbe stato per questo più onesto portare una serie con una struttura verticale – ovvero episodica – senza sforzarsi nell’altro senso?

Il finale

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Il finale di The Last of Us è stato molto discusso.

Si è criticato soprattutto il minutaggio troppo ridotto per portare in scena un momento così importante della storia di Joel e Ellie. Personalmente io ho trovato la durata dell’episodio più che giusta, e non ho sentito il bisogno di avere a disposizione più tempo per raccontare questo importante momento conclusivo.

Al contrario, accolgo la critica circa la mancanza di introduzione di questo finale: niente nell’episodio precedente racconta l’approcciarsi ad una conclusione – e sarebbe bastato veramente poco. E l’episodio stesso non sembra una conclusione, se non quando effettivamente i protagonisti arrivano al punto di arrivo.

Tuttavia, ho trovato estremamente interessante il dubbio morale che il finale vuole trasmettere: stiamo dalla parte di Joel o la sua è solamente una scelta egoistica? Un tema che sarà indubbiamente esplorato nella seconda stagione, e che rivela la precarietà del rapporto fra i protagonisti…

Recensione The Last of Us

Il prezioso contributo di Cristiano (@cristianodalianera), con un’opinione forse non tanto diversa dalla mia, ma sicuramente più colorita…

Il preambolo

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

L’attesa di The Last of Us era vincolata all’aspettativa, altissima, che il progetto videoludico aveva instillato.

Una videogame action-survival horror tutto trama, con complicate digressioni emotive e un sottobosco di non detto ad arricchire la narrazione. Praticamente Resident Evil diretto da Alejandro González Iñárritu (anche grazie alle suggestioni sonore di Gustavo Santaolalla), cosa poteva andare storto?

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us


Infatti il gioco – uscito nel 2013 – è stato devastante sul fronte pubblico e critica, alzando l’asticella della qualità e diventando, a tutti gli effetti, il canto del cigno della PlayStation 3. Naughty Dog, nella persona dell’ideatore Neil Druckmann, deve aver pensato: ho un prodotto cinematografico fatto e finito!

Ed è partito subito il progetto per un lungometraggio che, in origine, prevedeva la regia di Sam Raimi ed un cortometraggio animato sotto l’egida Sony Pictures.

Ma qualcosa è andato storto.

L’adattamento

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Una produzione che ha preso piede con un cattivo auspicio: la critica al casting di Bella Ramsey per il personaggio di Ellie. L’accusa è stata di non essere bella abbastanza per interpretare la protagonista. Su Pedro Pascal un dubbioso assenso: alla fine Joel è musone quanto basta.

Risolto il problema delle facce, bisognava affrontare il problema della storia.

Come affrontare la trasposizione del videogame?

Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Le vie maestre sono due: quella lunga e quella corta.

La via lunga prevede un approfondimento costante, lo sviluppo di una trama orizzontale complessa, avvincente, appassionante. Una sorta di soap-opera con un substrato di apocalisse che aromatizzi il tutto, lasciando sedimentare l’affetto per i personaggi in una crosta cementizia inscalfibile.

La via breve prevede una serie di episodi dalla trama pressoché verticale, rifacendo shot-for-shot intere sequenze del videogame, ad uso e consumo del videogiocatore incallito (e un po’ tossico) che opera la metà della magia della messa in scena: lo dimo ma non lo famo, e la fantasia dello spettatore ci mette il resto.

Il risultato

Spaparanzati davanti al primo episodio, già assaporavamo la lentezza della costruzione narrativa di una serie di spessore, un lungo viaggio nell’abisso e nella risalita. Una collocazione da manuale per tempi tecnici e narrativi, condito dalla necessaria crudeltà che è ingrediente imprescindibile a far montare la rabbia che ci tiene incollati allo schermo: vogliamo tutto e lo vogliamo ORA.

Il secondo episodio prosegue, un po’ in sordina, ma è preparatorio. Ci sfreghiamo le mani in attesa del bagno di sangue, della fuga rocambolesca, del salvataggio all’ultimo minuto.

Episodio tre: La Casa nella Prateria prepper edition.

Beh, sono scelte narrative. Il review bombing dell’episodio a causa dei temi LGBTQ+ me l’ha fatto stare persino simpatico, anche se realizzato in maniera eccessivamente ruffiana. Vabbè, alla fine ci sta una battuta d’arresto.

Magari non è uscita proprio come uno s’aspettava.

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Quattro e Cinque, con uno straccio di orizzontalità, sembrano andare troppo a rilento ed in maniera abbastanza inconcludente. La quinta è tipo la versione tamarra di Zombie di Romero, con un finale wtf che riporta la speranza alla quota di sicurezza.

È il giro di boa – uno pensa – da qui in poi è il delirio.

Episodio sei: latte alle ginocchia feat. cameo del cane Chopper di Stand by me.

Episodio sette: sismance in flashback feat. UNO DI NUMERO infetti. Grossa suspense.

Episodio otto: Ellie ingoia Hannibal Lecter, ah-ah-ah.

Episodio nove: Joel ingoia Chuck Norris.

La critica

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

La qualità del prodotto, tecnicamente parlando, è sopraffina.

Inquadrature, sequenze, fotografia, scenografia, recitazione. Tutto, davvero eccellente. La narrativa, presa per singolo episodio, è superiore alla media per tantissimi versi.

Nell’insieme, invece, è sconclusionata e, come dicono quelli bravi, anti-climatica.

La gestione dei tempi, relativamente coerente col singolo episodio, è stata gravemente sottostimata nell’ottica della serialità. Si iniziava a sentire il prurito alle corna dall’episodio tre, che nella prospettiva della serie completa risulta essere una colossale perdita di tempo, preziosissimo tempo da investire nella costruzione del rapporto fra i protagonisti.

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

E non è stata l’unica.

L’episodio sei è una serie di montagne russe in accelerazione e decelerazione su cose essenziali, se la serie avesse avuto davanti altre dodici puntate. Il tutto si traduce in un filler-spiegone dall’effetto soporifero che ammazza una tensione emotiva già moribonda.

L’inseguimento dei tempi videoludici si è fatto, tra l’episodio cinque e sei, insostenibile. E mentre il giocatore incallito si è esaltato nella riproposizione pedissequa delle sequenze di gioco, lo spettatore medio si infilata schegge di bambù sotto le unghie.

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

La costruzione del rapporto padre-figlia si risolve in un vortice di frasi fatte e ripescaggio di formule abusate. Il ruolo del cattivo poggia tutto sulle spalle del genere umano – homo homini lupus – che occhei vabbene abbiamo capito.

Gli infetti compaiono quattro volte in nove puntate, livello di pericolosità: li elimina una donna in travaglio con un temperamatite.

Alla fine The Last Of Us si è rivelato un enorme equivoco.

Bella Ramsey in una scena di The Last of Us

Chi si aspettava il taglio epico del videogame ha dovuto fare i conti con l’assenza della componente interattiva, che trasporta lentamente il videogiocatore nella storia e gode di un lusso che questa serie non si è concessa: il tempo.

Chi si aspettava la narrazione autoriale di La Guerra Mondiale degli Zombi – il libro di Max Brooks, non il film – attraverso gli occhi di due anime perse nella fine del mondo ha dovuto fare i conti con una realizzazione confusionaria e frammentata che pecca nell’unica cosa di cui si senta davvero la mancanza: il tempo.

La conclusione

Pedro Pascal in una scena di The Last of Us

Una promessa mancata che si divide tra chi la difenderà a spada tratta – Guarda! L’hanno rifatta uguale! – e chi l’ha subita maturando lo spegnimento per ogni forma di entusiasmo.

Personalmente ho ravvisato una fortissima componente riempitiva, sia emotiva che sostanziale, da chi conosceva la trama e chi era pieno di aspettative. In realtà il migliore adattamento da un videogame non c’è stato, e la serie ondeggia fra la mediocrità e la sufficienza.

L’esperimento mentale necessario sarebbe quello di togliere dal prodotto il brand The Last of Us e darlo in pasto allo spettatore qualunque: si toccherebbero vette di disinteresse che sono la cifra di un prodotto tenuto in vita da un pernicioso fungo parassita che assomiglia all’accanimento terapeutico.