Categorie
Drammatico Mistero Netflix Nuove uscite serie tv Serie tv Thriller True Crime

Dahmer – Chi ha paura dell’uomo nero?

Dahmer è una serie Netflix creata da Ryan Murphy e basata sulle vicende riguardanti gli omicidi di Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il Mostro di Milwaukee.

Una serie arrivata al momento giusto, quello di massima popolarità del true crime, portando per altro in scena un racconto molto coinvolgente, sopratutto dal punto di vista emotivo.

E per molti questo è stato un problema.

Di cosa parla Dahmer?

Come detto, la serie si concentra sulla storia di Jeffrey Dahmer, coprendo complessivamente tutta la sua vita, dell’infanzia fino alla sua morte nel 1994.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dahmer?

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Sì, ma se avete molto tempo.

Ci ho messo davvero troppo tempo a finire questa serie, che in effetti è troppo lunga, con dieci puntate che durano anche un’ora.

Tuttavia non si può negare che come serie possa diventare anche davvero coinvolgente, considerando che appunto punta molto sul lato emotivo della vicenda. Insomma, se siete appassionati di true crime o se anche solo vi interessano le serie riguardanti i serial killer, è molto probabile che vi piacerà.

Considerando che fra l’altro come serie può avvalersi di due nomi di alto livello: anzitutto Ryan Murphy, che già si era occupato di prodotti simili con American Crime Story. E poi l’ottimo Evan Peters, attore che ultimamente sembra in grande rampa di lancio.

E finalmente, vorrei dire.

C’è vita oltre a Dahmer?

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

La durata della serie è, a mio parere, veramente eccessiva.

Non dico tanto per la durata degli episodi singoli, ma proprio per la durata complessiva: si ha come la sensazione che gli autori volessero raccontare tutto della storia di Dahmer, anche i lati meno scontati come la storia delle famiglie e vittime, del padre del protagonista, e via dicendo.

E, se per certe parti ho anche apprezzato una maggiore tridimensionalità del racconto, per altre avrei invece preferito che si facesse una maggiore selezione del materiale. Per esempio avrei lasciato fuori parte della storia di Glenda, la vicina, e così anche le puntate dedicate al processo e al carcere.

Insomma, per me sarebbe stato meglio raccontare le parti veramente interessanti della storia, senza sentirsi in dovere di raccontare ogni cosa.

La gestione della trama

Evan Peters in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Qualche dubbio ho avuto anche sulla gestione della trama: invece di seguire gli eventi in ordine cronologico, si fanno un po’ di salti in avanti e indietro.

E, per quanto abbia apprezzato generalmente la scelta di non portare un racconto eccessivamente lineare, d’altra parte non ho trovato del tutto organico e coerente la scelta di quali scene mostrare e dell’andamento complessivo della narrazione.

Avrei quindi preferito una gestione della trama più pensata da questo punto di vista

L’aggancio emotivo

Andrew Shaver in una scena di Dahmer, serie tv netflix di Ryan Murphy dedicata al Mostro di Milwaukee

Come detto, la serie non si limita a raccontare banalmente la storia di Jeffrey Dahmer, ma utilizza diversi agganci emotivi.

Anzitutto il racconto per cui Jeffrey fu un ragazzo e un bambino abbandonato a se stesso, che ebbe molte difficoltà ad affrontare la sua omosessualità, che poi usò come arma dietro la quale nascondersi anche per sfuggire al controllo della polizia.

Non di meno l’apparente e profondo pentimento e in generale la consapevolezza dei suoi comportamenti distruttivi, che lo portarono a rovinare ogni sua interazione sociale e momento felice che avrebbero potuto salvarlo, per così dire.

Ma l’aggancio emotivo più forte, e con il quale mi sono sentita personalmente emotivamente coinvolta, è la storia del padre. Il padre di Dahmer nella serie è sempre preoccupato per il figlio e per tutta la sua vita cerca di salvarlo, per così dire, e nonostante tutto lo perdona e lo aiuta, fino alla fine.

Davvero particolare che questo ruolo tipicamente materno sia affidato alla figura del padre.

Ma è giusto empatizzare con un serial killer?

È giusto empatizzare con un serial killer?

La questione è molto spinosa e può essere ampliata anche oltre a questo discorso specifico.

Tuttavia, parlando esclusivamente di questa serie, bisogna fare la distinzione fra feticizzazione e umanizzazione del serial killer.

La feticizzazione o romanticizzazione di un criminale è una tendenza che esiste da quando esistono i serial killer, come si vede anche nella serie. E si parla di esaltare e in qualche modo giustificare le azioni criminali di un criminale, arrivando ad idolatrarlo. Ed è una tendenza esistente tutt’oggi, che questa serie ha solo riportato al centro della discussione.

E non credo di dover dire io quanto sia sbagliato.

Al contrario, il tentativo di umanizzare e spiegare le azioni di un serial killer o un criminale in generale non solo è una cosa giusta da fare, ma anche dovuta. Questo perché, proprio per auto-tutelarci come società, non ci guadagnamo niente a bollare stupidamente queste persone come le mele marce della società. È invece molto più utile capire da dove derivino determinati comportamenti, spesso legati a contesti familiari difficili o emarginazione sociale in genere.

Non sbattere quindi il mostro in prima pagina, ma intervenire per tempo prima che effettivamente lo diventi.

La verità dietro alla serie

La serie è per certi versi molto fedele agli effettivi eventi riguardanti la storia di Dahmer, pur con significative differenze.

La prima grande differenza è che Glenda, la vicina di casa, non era in effetti la sua vicina di casa, ma abitava nel palazzo vicino. Tuttavia effettivamente chiamò più volte la polizia e la storia del quattordicenne che tentò di sfuggire a Dahmer è del tutto vera. E comunque i vicini di Dahmer si lamentarono più volte del rumore e della puzza che veniva dal suo appartamento

La scena già iconica in cui Dahmer fa vedere l’Esorcista III alle sue vittime è altresì vera, come confermato nella sua intervista in Inside Edition, ma al contrario Dahmer non bevve il sangue rubato dalla clinica in cui lavorava come si vede nella serie. E il bar dove adescava le sua vittime è un bar veramente esistente, anche se ad oggi ha chiuso.

Il tentativo del padre di salvare il figlio quando fu arrestato per violenza sessuale nel 1990 è effettivamente avvenuto: il padre scrisse una lettera al giudice per chiedere che suo foglio fosse curato. Molte delle scene che riguardano il padre sono prese proprio dal libro citato nella serie, A Father’s Story, per cui Lionel Dahmer venne effettivamente portato in tribunale da due delle famiglie delle vittime (e non tutte come nella serie).

È il momento di Evan Peters

Evan Peters è un attore rimasto purtroppo ancora poco conosciuto nel panorama televisivo e cinematografico.

Se avete seguito la saga degli X-Men dal 2000 in poi, indubbiamente lo ricorderete come Peter Maximoff, AKA Quicksilver. E purtroppo ha fatto poco altro di interessante, a parte una parte incredibilmente memorabile in American Animals (2018).

Si era anche fatto conoscere per un’altra serie di Ryan Murphy, American Horror Story, per poi essere scelto dallo stesso come protagonista di Dahmer, che gli sta assicurando un successo incredibile a livello internazionale.

E forse è anche ora che la sua bravura venga riconosciuta.

Categorie
Avventura Comico Commedia Disney+ Drammatico Mistero Nuove uscite serie tv Serie tv True Crime

Only murders in the building – Ti racconto il mio cruccio

Only murders in the building è una serie tv Disney+ di genere mistery e comico, con protagonisti Selena Gomez, Steve Martin e Martin Short. Un prodotto arrivato ad oggi alla seconda stagione e già confermato per una terza.

Una serie che è un mio cruccio: la guardo con piacere, anche molto coinvolta, ne riconosco i vari e innegabili pregi…ma alla fine non rimango con un buon sapore in bocca.

Tuttavia, è una serie che dovete vedere per buonissimi motivi.

Di cosa parla Only murders in the building?

A seguito di un misterioso omicidio nel loro palazzo, un improbabile terzetto di protagonisti si ritrova non solo ad indagare il caso, ma anche a creare un podcast di successo.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Perché dovreste vedere assolutamente Only murders in the building

Selenza Gomez, Steve Martin e Martin Short in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Only murders in the building è una serie davvero imperdibile per molti motivi: l’ottima regia e messa in scena, una costruzione molto sapiente sia del mistero che dei personaggi in scena, colpi di scena ben calibrati e un intrigo per nulla scontato.

Tanti elementi derivati da una particolare cura per la totale partecipazione degli attori protagonisti nella produzione: sono tutti produttori esecutivi della serie, che significa che hanno ampissima voce in capitolo nella sua realizzazione, e Steve Martin è anche co-creatore.

Vi consiglio solo di non guardare le due stagioni una di fila all’altra: rendono molto meglio se guardate con una minima distanza l’una dall’altra.

Saper gestire un mistero

Selenza Gomez, Steve Martin e Martin Short in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Se avete una discreta conoscenza delle serie di genere mistery sapete che una gestione ottimale del mistero non è per nulla scontata, anzi. Ci sono non pochi casi di serie tv che costruiscono un mistero che sulle prime appare anche molto intrigante, ma che poi, arrivati alle battute finali, appare totalmente sconclusionato.

Non è il caso di Only murders in the building il quale, sopratutto per questa seconda stagione, mi ha ricordato Pretty little liars ai tempi d’oro. Un paragone infelice, ma vale come esempio vincente: alcune dinamiche sono simili, ma, come Pretty little liars è uno inconcludente accumulo di indizi e intrighi, Only murders in the building si dimostra ben più efficace e narrativamente organico.

Infatti sia nella prima che nella seconda stagione vediamo in scena una progressiva e intelligente rivelazione del mistero, con un colpo di scena finale in entrambe le stagioni che è ben costruito fin dall’inizio. In particolare, nella seconda stagione si è scelto di giocare con i falsi colpi di scena per un’intera scena.

Unica pecca di questa scelta: se si è abbastanza esperti di questo genere di prodotti, appare del tutto evidente come gli stessi colpi di scena siano finti anche prima che siano spiegati.

Pochi tocchi di sitcom

Selenza Gomez e Cara Delavigne in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Un elemento davvero peculiare di questa serie è il suo elemento sitcom: come proprio di questo genere, ci sono non pochi momenti nella prima stagione in cui vengono raccontati dei brevi archi narrativi che servono a far conoscere meglio i personaggi.

Degli archi narrativi che di fatto non torneranno più e che non hanno una vera influenza sulla trama generale, ma che di fatto la arricchiscono non poco. Alcuni fra l’altro anche molto toccanti come la relazione fra Howard ed il suo vicino di casa cominciata durante il blackout.

Un prodotto davvero inclusivo

James Caverly. in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Un aspetto non da poco della serie è la sua capacità di portare un tipo di inclusività per nulla scontata e autentica. In non pochi prodotti in ambito seriale e cinematografico prodotti e autori poco capaci banalizzano drammaticamente questo aspetto, tramite tokenism e girl power molto cheap.

Al contrario in Only murders in the building troviamo due figure raramente ben rappresentate.

Anzitutto Theo, interpretato da un attore effettivamente ragazzo sordo, James Caverly. La differenza da altri prodotti non è un semplice token, ma un personaggio estremamente importante che ha una delle puntate più belle dell’intera serie.

Infatti nella prima stagione la puntata The Boy From 6B, riesce a raccontare con ottimi tocchi di regia il punto di vista reale del personaggio. E il tema viene ripreso anche in maniera non poco interessante anche nella seconda stagione.

Only murders in the building

Christine Ko e Jayne Houdyshell in una scena della serie Only murders in the building, serie tv Disney+

Un altro tipo di rappresentazione che sta prendendo piede in questo periodo è quello della donna incinta smarcata dall’idea di maternità rassicurante. In questa stagione viene infatti introdotta Nina, che si rivela un personaggio molto tridimensionale: sulle prime appare un’arpia approfittatrice, poi dimostra il suo lato più umano, in particolare nella puntata del blackout.

Allo stesso modo ho particolarmente apprezzato che, quando Nina sta per partorire, la persona che interviene immediatamente non è il personaggio femminile spinto da un improbabile senso materno, ma Charles, con fra l’altro anche una simpatica motivazione alle spalle.

…e allora perché non mi piace cosi tanto Only murders in the building?

Nonostante tutti questi elementi indubbiamente positivi che mi hanno anche intrattenuto, ci sono due elementi che mi hanno impedito di essere davvero appassionata a questa serie.

Il primo e più importante è che, per motivi non del tutto chiari neanche a me, non riesco ad essere coinvolta coi protagonisti, nonostante, almeno per quanto riguarda Charles e Oliver, gli attori già di per sè sono molto affabili.

Ma nulla, non è mai scattata la scintilla.

La cosa peggiora per Mabel, il personaggio di Selena Gomez: nonostante si cerchi indubbiamente di raccontare un personaggio quando più tridimensionale, a pelle non mi è mai piaciuta, anzi l’ho trovata discretamente sgradevole.

Infine, e forse è anche l’aspetto che trovo più difettoso della serie, nonostante il finale sia ben costruito, non mi lascia mai un buon sapore in bocca. Il più delle volte mi dimentico tutto il contesto e non lo trovo alla fine così avvincente e interessante.

E a questo proposito…

L’omicidio alla fine della stagione è ridondante?

Come abbiamo visto recentemente per la saga di Una notte da leoni, non è per nulla facile gestire un brand quando lo stesso è basato su un elemento forte, ma non facilmente replicabile.

Nel caso di Only murders in the building perché alla lunga diventa poco credibile che questi personaggi siano coinvolti in un numero potenzialmente indefinito di omicidi.

Come, con mente più matura, abbiamo rivalutato (si fa per dire), la credibilità della storia della Signora in giallo e la sua scia di omicidi, cosi alla lunga questo elemento della serie potrebbe cominciare a stancare e a non essere così d’impatto.

Già con questo finale di stagione sono rimasta poco convinta.

Categorie
Biopic Drammatico Legal drama Serie tv Teen Drama True Crime

The girl from Plainville – La semplice apparenza

The girl from Plainville è una serie tv di produzione Hulu (la succursale adulta di Disney+) con protagonista Elle Fanning. Un prodotto che si propone di raccontare un caso di cronaca nera avvenuto fra il 2012 e il 2020: una giovane ragazza spinse il suo fidanzato, tramite messaggi, a suicidarsi.

Un racconto non poco grottesco, che riesce a centrare alcuni elementi, come l’ottimo casting della protagonista, ma pecca drammaticamente in altri. Ma, come altri prodotti di cui abbiamo parlato in tempi recenti, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi, e anche molto.

Di cosa parla The girl from plainville?

Come anticipato The girl from plainville racconta la storia veramente accaduta di due giovani adolescenti che avevano un’assidua relazione tramite messaggio. La loro storia prese però una piega drammatica quando la ragazza cominciò a spingere il suo fidanzato, già di per sè depresso, a togliersi la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè guardare The girl from plainville

Elle Fanning in una scena di The girl from Plainville, serie tv Hulu in italia distribuita su Strarz Play

Complessivamente, The girl of plainville non è una serie che considero imperdibile, ma neanche che mi sentirei di sconsigliare in toto. A mio parere è una serie difettosa in molte parti, ma che non mi ha coinvolto anche perchè evidentemente non è una serie per me.

Gli episodi sono infatti principalmente concentrati sul raccontare il personaggio di Michelle e la sua storia con Conrad, quindi la parte mistery e legal drama è abbastanza ridotta. Tuttavia, ci sono due ottimi motivi per cui mi sento di consigliare questa serie.

Anzitutto, se vi piacciono le storie true crime, anche parecchio grottesche e sui generis come in questo caso, più di genere thriller psicologico che mistery, ovvero andando a scavare le motivazioni dietro a certi atti così incomprensibili.

In secondo luogo, ve la consiglio se eravate adolescenti fra il 2010 e il 2015, o se siete patiti per quel periodo: la serie lo racconta veramente bene, sopratutto tramite la protagonista, che è proprio la ragazza tumbrl per eccellenza.

E ho detto tutto.

Quando Elle Fanning non basta

Elle Fanning in una scena di The girl from Plainville, serie tv Hulu in italia distribuita su Strarz Play

Partiamo dalla cosa migliore della serie: Elle Fanning è un’attrice che apprezzo fin dai suoi esordi in Super 8 (2008), e in questa serie conferma tutte le sue ottime capacità recitative. La vediamo infatti destreggiarsi in un personaggio molto ambiguo, che passa dall’essere la spensierata ragazza di Tumblr appunto, a diventare minacciosa, quasi paurosa.

E Elle Fanning è riuscita a calarsi perfettamente nella parte, nonostante talvolta il suo personaggio sia molto banalizzato. E questo è uno dei problemi principali della serie: il racconto riguardo Michelle sembra molto tridimensionale all’inizio, ma poi si perde sui punti fondamentali.

Infatti, quando si arriva al momento focale in cui Michelle effettivamente spinge Conrad al suicidio, non mi è parso per nulla costruito adegutamente, anzi mi è sembrato abbastanza improvviso. E, più in generale, non adeguatamente esplorato come, secondo me, avrebbero dovuto fare.

L’impossibile racconto

Elle Fanning in una scena di The girl from Plainville, serie tv Hulu in italia distribuita su Strarz Play

L’ostacolo principale della pellicola era riuscire a raccontare la comunicazione fra i protagonisti, avvenuta quasi totalmente tramite messaggio. Per questo si è scelto, invece che mostrare le chat in continuazione, cosa che sarebbe in effetti stata alla lunga ridondante, di mettere in scena le conversazioni come se i protagonisti fossero nella stessa stanza.

Tuttavia questa scelta non è molto indovinata, anzi tende ad essere confondente: in più di un caso non riesce a rendere il come i due protagonisti fossero distanti e si stessero parlando per chat, realtà dove la comunicazione è totalmente diversa.

Insomma, un buon tentativo, ma non la scelta migliore.

Raccontare un’era

Elle Fanning in una scena di The girl from Plainville, serie tv Hulu in italia distribuita su Strarz Play

Uno degli elementi parzialmente vincenti della serie è la sua capacità di raccontare un’era del tutto particolare come è stata quella fra il 2010 e il 2015. E, incredibilmente, riesce a cogliere tutti gli elementi che la definivano: Glee, i libri di John Green (ad un certo punto Michelle sta guardando Colpa delle stelle) e questa cultura dell’apparire a tutti i costi.

Eravamo agli albori dei social network, quando tutto sembrava ancora nuovo e strano, e la voglia di essere presenti e notati era tanta. Non a caso mi sono piuttosto ritrovata nel personaggio di Michelle (escludendo le parti più grottesche e criminose, ovviamente), perchè rappresentava proprio la tipica adolescente del periodo, ossessionata dall’idea di avere tutte le attenzioni su di sè.

La verità dietro alla serie

Vi sorprenderà scoprire che la serie è veramente molto fedele ai fatti.

Michelle e Conrad effettivamente si incontrarono solamente poche volte nel corso dei due anni della loro relazione, scambiandosi migliaia di messaggi e dichiarandosi continuamente il loro amore.

Ed effettivamente Michelle incoraggiò ripetutamente Conrad a compiere il suicidio (si calcola circa quaranta volte nella sua ultima settimana di vita). Tuttavia, la situazione era anche più grave di quanto raccontata: il ragazzo nella realtà tentò il suicidio ben quattro volte dopo separazione dei suoi genitori nel 2011.

E Michelle cercò di dissuadere inizialmente Conrad dal togliersi la vita, incoraggiandolo anche a farsi curare (come lei si stava curando per il disordine alimentare). Tuttavia col tempo cominciò appunto a spingerlo a togliersi la vita, dandogli addirittura idee su come farlo.

Infine, sì, Michelle incoraggiò Conrad a tornare sul camioncino quando il ragazzo mostrò di volersi tirare indietro, anche se questa è un’idea più speculativa: non ci sono registrazioni della telefonata fra i due (che comunque avvenne).

Ma il messaggio incriminato che Michelle inviò alla sua amica (come nella serie) lascia pochi dubbi:

Categorie
Biopic Drammatico Film True Crime True Crime

Bombshell – Raccontare uno scandalo

Bombshell (2020) di Jay Roach è una pellicola che racconta lo scandalo che nel 2016 coinvolse Roger Ailes, ex-capo dell’emittente teleivisva FOX, e altri dirigenti accusati da diverse donne di molestie ed aggressioni a sfondo sessuale.

Il film ha alle spalle una produzione molto sentita, con a capo Charlize Theron, che è anche l’interprete principale. Fra l’altro un prodotto che si sbilanciò molto nell’attaccare non solo l’emittente televisiva incriminata, ma anche Trump quando era ancora in carica.

La pellicola purtroppo non è stata un grande successo commerciale, rientrando a malapena nelle spese: appena 61 milioni di dollari di incasso a fronte in un budget di 30.

Di cosa parla Bombshell?

La vicenda ruota intorno a tre donne: Megyn Kelly (Charlize Theron), Kayla Popsil (Margot Robbie) e Gretchen Carlson (Nicole Kidman), tutte accumunate dall’esssere impiegate presso l’emittente televisiva FOX Television e di dover subire attenzioni non volute o effettivi ricatti sessuali per fare carriera. E non sono le sole…

Bombshell può fare per me?

 Charlize Theron in Bombshell (2019) di Jay Roach

Bombshell si inserisce nella lungo trend che vedremo da qui ai prossimi anni (come il film in prossima uscita incentrato sul caso Weinstain, She said), che racconta i vari scandali sessuali che sono scoppiati a partire dal 2015 in poi anche grazie al movimento Me too.

E vi si inserisce bene, sperimentando anche con il genere mockumentary e offrendo un prodotto che non vuole nè feticizzare nè spettacolarizzare una vicenda assai drammatica. La regia è invece capace di raccontare in maniera potente e coinvolgente il dramma di queste tre donne, particolarmente quello della giovane ed ingenua Kayla, senza praticamente mostrare nulla.

Un film necessario, per conoscere un vicenda che non ha avuto particolare risalto al di fuori degli Stati Uniti.

Raccontare la paura

Margot Robbie e John Lithgow in Bombshell (2019) di Jay Roach

Come anticipato, non è per nulla semplice riuscire a raccontare una vicenda così importante senza arrivare a spettacolizzarla, anche involontariamente. E Bombshell riesce perfettamente a non farlo: l’unica scena che vediamo rappresentare effettivamente una molestia è diretta alla perfezione, senza sessualizzare il corpo di Margot Robbie, ma anzi enfatizzando la sua ottima recitazione corporea ed espressiva, che già di per sè è molto esplicativa.

Così anche il resto della vicenda non è mostrato, perchè non ce ne era bisogno: basta raccontare la terribile camminata di Kayla verso l’ufficio di Roger: una donna sola, che sa che deve sottoporsi ad un processo umiliante per ottenere un minimo di attenzioni.

E che, lo vediamo, ottiene quello che vuole: più si va avanti nel film, più il suo trucco si fa appariscente, per avvicinarsi al modello di donna perfetta e da mettere in mostra in primo piano per fare audience.

Ogni tipo di molestia

 Charlize Theron in Bombshell (2019) di Jay Roach

La capacità di Bombshell è di saper raccontare tutto lo spettro di molestie a cui le donne del film (e nella vita reale) sono sottoposte. E nessuna è meno grave: si parte dalla molestia verbale, anche in diretta televisiva, con umiliazioni viste come complimenti e battute innocenti.

Si arriva poi ai ricatti sessuali neanche troppo sottili, ai licenziamenti per le donne che non si volevano far schiacciare, alle ripetute molestie per quelle che hanno ceduto. E non solamente per le tre protagonista, ma per un numero in continua crescita di donne che hanno finalmente la possibilità di farsi avanti.

Un sistema marcio, che non accenna a migliorare.

Nessun cambiamento

Il finale del film non è per fortuna consolatorio nè inutilmente ottimista: lo dimostra chiaramente Kayla, che, anche se i colpevoli sono stati licenziati, decide lo stesso di andarsene. Perchè chiaramente le altre persone che dovrebbero prendere il posto dei colpevoli non hanno interesse a proteggere le vittime nè a cambiare il sistema, ma a solo a salvare la faccia.

Non un finale positivo, ma piuttosto molto duro e realistico, che ho molto apprezzato.

Per quanto in generale il film sia molto fedele agli eventi raccontati, ci sono comunque alcune piccole differenze da segnalare.

Anzitutto, la scelta di Megyn Kelly di mettersi contro Ailes potrebbe essere stata una scelta più opportunistica di quanto la racconti il film: davanti alla causa intentata da Gretchen Carlson, Kelly si trovò davanti alla possibilità di liberarsi da un capo che non la sosteneva più e in generale di poter rimettere in riga i suoi colleghi uomini, oltre che a uscirne meglio come immagine personale e poter avere più potere negoziale per il suo contratto.

Per quanto Kayla Pospisil sia un personaggio inventato ad hoc per il film, effettivamente una delle dipendenti dirette di Ailes, Laurie Luhn, raccontò di aver avuto il compito di procacciare al suo capo delle giovani ragazze dipendenti dell’emitettente, per spingerle ad un incontro privato con lui, consapevole che questo sarebbe probabilmente finito (come minimo) in una molestia sessuale.

Altro in Bombshell

Anche il personaggio di Jess Carr è totalmente inventato: fra le vittime denunciate di Ailes non ce ne era nessuna che portasse il suo nome o avesse attinenze col personaggio. Tuttavia la stessa racconta una realtà sotterranea di giornalisti di tendenze liberali all’interno della Fox News.

Da segnalare che la leg cam del film non è per nulla un’invenzione, anzi è un elmento denunciato più volte negli anni all’interno dell’emitettente. La frase detta da una delle truccatrici riguardo a una delle ragazze che tornava da un incontro con Ailes senza il trucco sul naso e il mento (segno di essere stata coinvolta in delle prestazioni sessuali), è altresì vera.