Dahmer è una serie Netflix creata da Ryan Murphy e basata sulle vicende riguardanti gli omicidi di Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il Mostro di Milwaukee.
Una serie arrivata al momento giusto, quello di massima popolarità del true crime, portando per altro in scena un racconto molto coinvolgente, sopratutto dal punto di vista emotivo.
E per molti questo è stato un problema.
Di cosa parla Dahmer?
Come detto, la serie si concentra sulla storia di Jeffrey Dahmer, coprendo complessivamente tutta la sua vita, dell’infanzia fino alla sua morte nel 1994.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dahmer?
Sì, ma se avete molto tempo.
Ci ho messo davvero troppo tempo a finire questa serie, che in effetti è troppo lunga, con dieci puntate che durano anche un’ora.
Tuttavia non si può negare che come serie possa diventare anche davvero coinvolgente, considerando che appunto punta molto sul lato emotivo della vicenda. Insomma, se siete appassionati di true crime o se anche solo vi interessano le serie riguardanti i serial killer, è molto probabile che vi piacerà.
Considerando che fra l’altro come serie può avvalersi di due nomi di alto livello: anzitutto Ryan Murphy, che già si era occupato di prodotti simili con American Crime Story. E poi l’ottimo Evan Peters, attore che ultimamente sembra in grande rampa di lancio.
E finalmente, vorrei dire.
C’è vita oltre a Dahmer?
La durata della serie è, a mio parere, veramente eccessiva.
Non dico tanto per la durata degli episodi singoli, ma proprio per la durata complessiva: si ha come la sensazione che gli autori volessero raccontare tutto della storia di Dahmer, anche i lati meno scontati come la storia delle famiglie e vittime, del padre del protagonista, e via dicendo.
E, se per certe parti ho anche apprezzato una maggiore tridimensionalità del racconto, per altre avrei invece preferito che si facesse una maggiore selezione del materiale. Per esempio avrei lasciato fuori parte della storia di Glenda, la vicina, e così anche le puntate dedicate al processo e al carcere.
Insomma, per me sarebbe stato meglio raccontare le parti veramente interessanti della storia, senza sentirsi in dovere di raccontare ogni cosa.
La gestione della trama
Qualche dubbio ho avuto anche sulla gestione della trama: invece di seguire gli eventi in ordine cronologico, si fanno un po’ di salti in avanti e indietro.
E, per quanto abbia apprezzato generalmente la scelta di non portare un racconto eccessivamente lineare, d’altra parte non ho trovato del tutto organico e coerente la scelta di quali scene mostrare e dell’andamento complessivo della narrazione.
Avrei quindi preferito una gestione della trama più pensata da questo punto di vista
L’aggancio emotivo
Come detto, la serie non si limita a raccontare banalmente la storia di Jeffrey Dahmer, ma utilizza diversi agganci emotivi.
Anzitutto il racconto per cui Jeffrey fu un ragazzo e un bambino abbandonato a se stesso, che ebbe molte difficoltà ad affrontare la sua omosessualità, che poi usò come arma dietro la quale nascondersi anche per sfuggire al controllo della polizia.
Non di meno l’apparente e profondo pentimento e in generale la consapevolezza dei suoi comportamenti distruttivi, che lo portarono a rovinare ogni sua interazione sociale e momento felice che avrebbero potuto salvarlo, per così dire.
Ma l’aggancio emotivo più forte, e con il quale mi sono sentita personalmente emotivamente coinvolta, è la storia del padre. Il padre di Dahmer nella serie è sempre preoccupato per il figlio e per tutta la sua vita cerca di salvarlo, per così dire, e nonostante tutto lo perdona e lo aiuta, fino alla fine.
Davvero particolare che questo ruolo tipicamente materno sia affidato alla figura del padre.
Ma è giusto empatizzare con un serial killer?
È giusto empatizzare con un serial killer?
La questione è molto spinosa e può essere ampliata anche oltre a questo discorso specifico.
Tuttavia, parlando esclusivamente di questa serie, bisogna fare la distinzione fra feticizzazione e umanizzazione del serial killer.
La feticizzazione o romanticizzazione di un criminale è una tendenza che esiste da quando esistono i serial killer, come si vede anche nella serie. E si parla di esaltare e in qualche modo giustificare le azioni criminali di un criminale, arrivando ad idolatrarlo. Ed è una tendenza esistente tutt’oggi, che questa serie ha solo riportato al centro della discussione.
E non credo di dover dire io quanto sia sbagliato.
Al contrario, il tentativo di umanizzare e spiegare le azioni di un serial killer o un criminale in generale non solo è una cosa giusta da fare, ma anche dovuta. Questo perché, proprio per auto-tutelarci come società, non ci guadagnamo niente a bollare stupidamente queste persone come le mele marce della società. È invece molto più utile capire da dove derivino determinati comportamenti, spesso legati a contesti familiari difficili o emarginazione sociale in genere.
Non sbattere quindi il mostro in prima pagina, ma intervenire per tempo prima che effettivamente lo diventi.
La verità dietro alla serie
La serie è per certi versi molto fedele agli effettivi eventi riguardanti la storia di Dahmer, pur con significative differenze.
La prima grande differenza è che Glenda, la vicina di casa, non era in effetti la sua vicina di casa, ma abitava nel palazzo vicino. Tuttavia effettivamente chiamò più volte la polizia e la storia del quattordicenne che tentò di sfuggire a Dahmer è del tutto vera. E comunque i vicini di Dahmer si lamentarono più volte del rumore e della puzza che veniva dal suo appartamento
La scena già iconica in cui Dahmer fa vedere l’Esorcista III alle sue vittime è altresì vera, come confermato nella sua intervista in Inside Edition, ma al contrario Dahmer non bevve il sangue rubato dalla clinica in cui lavorava come si vede nella serie. E il bar dove adescava le sua vittime è un bar veramente esistente, anche se ad oggi ha chiuso.
Il tentativo del padre di salvare il figlio quando fu arrestato per violenza sessuale nel 1990 è effettivamente avvenuto: il padre scrisse una lettera al giudice per chiedere che suo foglio fosse curato. Molte delle scene che riguardano il padre sono prese proprio dal libro citato nella serie, A Father’s Story, per cui Lionel Dahmer venne effettivamente portato in tribunale da due delle famiglie delle vittime (e non tutte come nella serie).
È il momento di Evan Peters
Evan Peters è un attore rimasto purtroppo ancora poco conosciuto nel panorama televisivo e cinematografico.
Se avete seguito la saga degli X-Men dal 2000 in poi, indubbiamente lo ricorderete come Peter Maximoff, AKA Quicksilver. E purtroppo ha fatto poco altro di interessante, a parte una parte incredibilmente memorabile in American Animals (2018).
Si era anche fatto conoscere per un’altra serie di Ryan Murphy, American Horror Story, per poi essere scelto dallo stesso come protagonista di Dahmer, che gli sta assicurando un successo incredibile a livello internazionale.
E forse è anche ora che la sua bravura venga riconosciuta.