Candidature Oscar 2022 per Drive my car (2021)
(in nero i premi vinti)
Miglior film internazionale
Miglior film
Miglior regista
Miglior sceneggiatura non originale
Sono poche le volte in cui posso dire di essere stata travolta da un film. Drive my car è una di quelle volte. E dico travolta e non intrattenuta per un motivo: non so ne spiegare il perché. Per tre ore (sì, tre ore) sono stata incollata ad uno schermo dove veniva raccontata una storia complessa ma vicina a me, con una delicatezza e una profondità che raramente ho trovato in altre pellicole.
Di cosa parla Drive my car
È difficile dire di cosa parla Drive my car senza rovinarvi la visione. È un film che va visto con la mente libera da ogni influenza esterna.
Tuttavia quello che vi posso raccontare è che il film ha un importante prologo che copre quasi la prima metà della sua durata (di cui non vi posso dire niente). Dopo, parla di un attore e regista teatrale che organizza uno spettacolo e che viene accompagnato, contro la sua volontà, in giro con un autista fornito dalla produzione. Questo è lo scheletro narrativo. Sotto a questo, c’è un mondo che potrete capire solo se vedrete la pellicola.
Vi lascio il trailer, se proprio volete vederlo, ma vi consiglio di guardare il film senza aggiungere altro.
Drive my car fa per me?
È molto difficile rispondere a questa domanda. Soprattutto perché non credo che questo film sia paragonabile ad alcunché da me conosciuto. Forse, e sottolineo forse, potrei paragonarlo, per come mi ha fatto sentire, a I’m Thinking of Ending Things (2020), anche senza tutta la parte surreale.
Generalmente parlando, vi devono piacere i film molto riflessivi e fatti più di dialogo che di azioni, metafore potenti e da sviscerare. Se vi piacciono questo tipo di film, vi innamorerete. E per reggere questa pellicola, c’è davvero bisogno di innamorarsi.
Riflessioni Oscar 2022
Come ampiamente previsto, Drive my car ha vinto Miglior Film Internazionale. Mi mancano ancora le altre pellicole candidate e solitamente non darei un giudizio netto. Ma credo che pochi, avendo visto la pellicola, possano dirmi che meritava di vincere altro se non questo. Anzi, a mio parere doveva vincere anche qualcosa di più.
La storia alla fine
Fra tutto, forse quello che mi ha più colpito è stato il fatto che all’inizio io avevo inquadrato la storia in un certo modo, anche abbastanza superficiale se vogliamo, e la rivelazione finale è stata uno schiaffo.
Inizialmente pensavo infatti che Yūsuke, il protagonista, non fosse capace di affrontare il tradimento della moglie, e che non ne sapesse nulla prima. Allo stesso modo pensavo che Oto si fosse suicidata.
Invece la realtà è molto peggiore e il racconto di Kōiji lascia a mio parere anche spazio a più interpretazioni. Io personalmente credo che la vera storia di Oto e Yūsuke fosse quella di un rapporto definitivamente incrinato dalla morte della figlia, in cui era nata una profonda incomunicabilità fra i due.
Un matrimonio spezzato
Penso che Oto non sapesse che Yūsuke era a conoscenza dei suoi tradimenti, se così vogliamo chiamarli, e che questo non fosse che un modo per lei di comunicare i suoi veri sentimenti, così come Yūsuke comunicava i suoi attraverso il teatro.
La storia dell’adolescente era in realtà la storia di Oto, che cercava di attirare l’attenzione del marito attraverso le relazioni con altri uomini, con indizi che lei lasciava perché lui la scoprisse. La conclusione della storia non era che un modo in cui Oto si sentiva nei confronti del marito, che, per quanto ne sapeva, non si accorgeva appunto di quello che stava succedendo.
In questo senso piuttosto emblematico è il simbolismo della telecamera, collegato strettamente a quello dell’abbraccio: nell’ultima scena di sesso insieme a Yūsuke, quando questo la mette nella posizione in cui l’aveva trovata nel momento del tradimento, Oto si rende finalmente conto che il marito sapeva della sua relazione con Kōiji. E infatti a quel punto guarda in macchina, come nella sua storia guardava nella telecamera. E, intanto, lo abbraccia.
Il simbolismo dell’abbraccio prosegue più volte nella pellicola e viene suggellato dall’abbraccio finale fra Yūsuke e Lee in scena, in cui finalmente l’uomo accetta di andare avanti con la sua vita. Un momento fra l’altro dolcissimo, senza che un suono sia emesso.
La metafora del petromizonte
Il dialogo durante la scena di sesso di Yūsuke è Oto è fondamentale: finalmente Oto ha il coraggio di rivelare a Yūsuke i suoi veri sentimenti. Lei afferma di sentirsi come un petromizonte, ovvero quel pesce che si attacca ad una roccia o ad un altro pesce e lascia che tutto intorno a lui scorra.
Così è successo anche al loro matrimonio e, per estensione alla vita stessa di Yūsuke, che ha lasciato che gli eventi andassero avanti senza riuscire ad intervenire.
Il significato dell’automobile
Premetto che questo film l’ho sentito anche profondamente vicino perché anche io ho un rapporto con la mia auto simile a Yūsuke. Un momento intimo in cui stare con me stessa.
La macchina di per sé, che tra l’altro è rosso accesso e spicca nella scena, è la metafora stessa della vita di Yūsuke, del suo io interiore. Un’estensione del teatro, unico luogo dove può veramente esprimersi.
E infatti si trova in difficoltà quando deve cedere il controllo dell’auto prima alla moglie, e poi a Misaki. Tuttavia, il loro rapporto si sviluppa proprio in funzione della macchina stessa.
Drive my car
Per una volta la traduzione del titolo originale è corretta: significa effettivamente Drive my car, ovvero Guida la mia macchina. Un imperativo, ma più che altro un invito.
E infatti nel film Yūsuke lascia che Misaki si introduca sempre di più nella sua macchina, e quindi nella sua intimità. Prima lascia che la aspetti in macchina, poi che la porti dove vuole, che fumi dentro la vettura e infine il loro rapporto si allontana dalla macchina stessa, concludendosi in quel sentito abbraccio nella neve. Emblematica in questo senso l’inquadratura finale della scena della visita la casa natale di Misaki: la macchina da presa si sofferma proprio sulla macchina, ormai vuota. In quel momento finalmente Yūsuke ha deciso di proseguire con la sua vita.
E infatti infine vediamo Misaki nel nostro presente, che guida la macchina di Yūsuke, ovvero quella parte della sua vita da cui è finalmente riuscito a distaccarsi.
Il personaggio di Misaki
Misaki sembra, per la maggior parte del film, un personaggio poco importante, quasi uno spettatore silenzioso di tutta la vicenda. In realtà Misaki è la figura chiave che porterà Yūsuke a risolvere la sua vita.
Infatti Misaki ha vissuto una vita sicuramente più dura di Yūsuke, ma accumunata dalla sua incapacità di intervenire e da una menzogna portata avanti per anni. Come lei trova in Yūsuke il padre che non ha mai avuto ma di cui porta il cognome, così l’uomo trova nella ragazza la figlia che non ha mai potuto crescere, come conferma lo stesso anno di nascita delle due.
Interessante come inizialmente Misaki è ridotta (e si riduce) ad un ruolo profondamente servile. Sempre lasciata da parte, sempre a lasciarsi da parte. Piuttosto emblematico quando, durante la cena a casa di Gong, Yusuke e il suo ospite parlino di lei in terza persona, nonostante sia al loro stesso tavolo. E alla fine lei si allontana, per abbassarsi al di sotto di loro, al livello del cane.
Corpi e espressioni
Una chiave di lettura importante per comprendere il film è notare il modo in cui i corpi si muovono in scena e come i personaggi si esprimono. Infatti per quasi tutta la pellicola, al di fuori delle scene teatrali, i personaggi non si toccano mai e mantengono un’espressione seria e distaccata.
Le uniche eccezioni sono il momento molto sentito di prova fra Lee e Janice, nonché quello appunto finale fra Yūsuke e Lee. Per le espressioni, gli unici momenti in cui vediamo Yūsuke veramente esprimersi, è alla cena con Gong e quando deve confessarsi con Misaki alla fine, in cui scoppia in un pianto disperato e confessa i suoi veri sentimenti per la moglie. E, ovviamente, nella splendida scena finale, in cui finalmente accetta la perdita della moglie.