Dune (1984) rappresentò l’ultimo momento di collaborazione fra David Lynch e le grandi produzioni hollywoodiane, per un prodotto che arrivò letteralmente ad odiare.
E il box office gli diede ragione: a fronte di un budget piuttosto ambizioso – 45 milioni di dollari, ben più alto anche solo di Il ritorno dello Jedi (1983) – non arrivò ad incassare neanche il budget speso…
Di cosa parla Dune?
Paul Atreides è l’erede di un’importante famiglia nobile, che viene inaspettatamente mandata come ambasciatrice dell’impero sul pianeta Arrakis, detto Dune. Ma le motivazioni non sono così comprensibili…
O, almeno, così sarebbe se il film avesse voluto lasciare un minimo di mistero.
Ma vi lascio comunque il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dune?
Purtroppo, come raramente mi capita di fare, devo dire di no.
Dune è frutto di una produzione davvero scellerata che ha scelto di prendere un’opera dalla nota complessità e ha cercato di ridurla ad un filmetto di due ore che teme continuamente di mettere in difficoltà lo spettatore con anche il minimo ragionamento.
Ne consegue che i personaggi non mai lo spazio per svilupparsi e raccontarsi, rimanendo in balia di una sceneggiatura incapace di valorizzarli e di portare in scena gli importanti temi filosofici del romanzo di Herbert, spesso crollando nella totale ridicolaggine.
E Lynch ne è la più grande vittima.
In questa recensione verranno fatti numerosi confronti con la trilogia di Villeneuve – ma per me era inevitabile.
Bollettino
L’incipit di Dune vuole chiaramente rifarsi all’inizio di Una nuova speranza (1977).
Ma se il primo capitolo della trilogia originale poteva concedersi una piccola spiegazione iniziale per introdurre il mondo raccontato, forte della sua semplicità quasi favolistica che non ha bisogno di grandi introduzioni…
…proprio al contrario del romanzo di Herbert, che ha invece necessità di diversi chiarimenti ed introduzioni – alcune, paradossalmente, non presenti neanche nello stesso libro – qui raccontati dalla voce di Irulan, personaggio utile solo come narratore esterno.
E la debolezza di questa scelta non sta solo nella forma, che lo fa sembrare niente di più che un bollettino serale, ma nella totale mancanza di una connessione emotiva con la storia raccontata: sono informazioni solo utili ad avere un’infarinatura della storia.
Ben diverso, insomma, dall’introduzione quasi onirica di Dune (2021) – che collegava immediatamente Paul a Chani e Arrakis – e così anche allo stesso Star Wars, in cui diventavano immediatamente complici di Leia e del suo piano.
Ma i problemi sono solo iniziati.
Mistero
In questo Dune è impossibile avere un mistero.
Fin da subito il motivo reale per cui il Duca Leto e la sua famiglia vengono mandati su Arrakis è svelato nel dialogo fra l’incolore imperatore Padishah e la Gilda, vanificando così l’importantissima componente dell’intrigo di palazzo gradualmente svelato.
E altrettanto stravolto è il personaggio del Barone Harkonnen, figura complicatissima da portare in scena, il quanto antagonista letterario assolutamente grottesco e sempre in bilico di diventare un villain da operetta, sostanzialmente ridicolo…
… esatto come succede in questo caso.
Per motivi a me oscuri la produzione ha voluto caricare di un disgusto visivo evidente e molto facilone il Barone, con bubboni, bile e sudore che sono i veri protagonisti della scena, volendo riassumere la sua malvagità nella scena – pure censurata – dell’uccisione di un malcapitato servo.
Manca così tutta la potenza e l’importanza non solo del Barone, ma dei suoi stessi nipoti, sostanzialmente indistinguibili se non per l’aspetto: l’uno una copia del malefico zio, l’altro una passerella dell’allora star della musica Sting.
Ma, paradossalmente, questi sono i personaggi meglio raccontati.
Spazio
I protagonisti non hanno minimamente modo e tempo di raccontarsi.
Uno dei motivi evidentemente per cui Villenueve ha scelto di dividere la storia di Dune in due parti è proprio per dare la possibilità ai personaggi di vivere il proprio dramma personale, per certi versi persino autonomamente rispetto a tutti gli altri.
E invece, per il poco spazio concesso, non sappiamo sostanzialmente nulla sul Duca Leto, quasi unica figura positiva in un universo di personaggi freddi e calcolatori, e la sua morte a metà film non ha di fatto alcun valore, perché non riesce ad esplorare l’effettiva importanza del personaggio.
Ma tutto sommato la morte è la sua fortuna quando i due protagonisti – Jessica e Paul – sono del tutto soggetti ai capricci della trama senza raccontarci di fatto nulla: la ribellione di Jessica e la sua ascesa a Madre Superiore non hanno il minimo mordente…
…e lo stesso si può dire di Paul, con un Kyle MacLachlan veramente disorientato che cambia caratterizzazione da un’inquadratura all’altra, e che viene sostanzialmente ridotto al classico eroe positivo senza molto da dire – proprio tutto quello che il Paul letterario non doveva essere.
E non fatemi cominciare sul nulla mischiato al niente di Chani…
…perché infatti voglio parlare dell’Abominio.
Abominio
Alia è davvero un abominio.
Nonostante ci siano persone ancora convinte che inserire l’Alia letteraria nel film fosse un’ottima idea, direi che questa pellicola dimostra esattamente perché questo non andava fatto: la sorella di Paul è uno fra i personaggi più assurdi dell’intera saga…
…e qui viene ancora più indebolita dalla grave mancanza di uno stacco sentito fra il primo e secondo atto – intelligentemente posto, ribadisco, con la divisione di Villenueve – in cui il personaggio viene introdotto solamente a parole, per comparire effettivamente in tutta la sua bruttezza nel finale.
Infatti il suo minuscolo personaggio è una presenza più che ridicola nell’atto finale, in cui mostra tutti i suoi poteri telecinetici per defenestrare il Barone, in quello che, insieme agli scudi cubisti del primo atto, è in assoluto il punto più basso di tutta la pellicola.
E la pioggia che chiude felicemente il film sono in realtà le mie lacrime – e, forse, quelle di Herbert – nel vedere la parabola religiosa profondamente drammatica del primo romanzo di Dune ridotta a miracolo popolare che dovrebbe sancire la divinizzazione di Paul.