La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick è probabilmente il miglior film di guerra mai realizzato, che porta il genere ad un altro livello, per profondità di tematiche e realismo della messinscena.
A fronte di un budget neanche eccessivo per una produzione del genere – appena 52 milioni di dollari – ebbe un riscontro non entusiasmante al botteghino: 98 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla La sottile linea rossa?
La pellicola segue le vicende di diversi soldati durante la Campagna di Guadalcanal, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Vi lascio il trailer (incredibilmente bello) per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La sottile linea rossa?
Assolutamente sì.
La sottile linea rossa non solo è una delle opere più profonde e interessanti mai realizzate, ma è anche uno dei migliori film di guerra che potrete mai vedere in vita vostra, soprattutto se non apprezzate le pellicole contaminate dalla retorica americana della guerra degli eroi – in questo caso totalmente assente, anzi pesantemente criticata.
La storia spazia fra le drammatiche e incredibilmente realistiche vicende dei soldati all’interno di un conflitto che non ha né eroi né nemici, ma solo uomini sporchi di sangue, fango e disperazione che lottano per la loro vita.
Insomma, non ve lo potete perdere.
La sottile linea rossa realtà
A cura di Carmelo.
Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.
La Campagna di Guadalcanal, nota anche come Battaglia di Guadalcanal, ebbe luogo tra il 7 agosto 1942 e il 9 febbraio 1943 nel teatro del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale.
I protagonisti furono gli Alleati sbarcati sull’isola di Guadalcanal, nelle Salomone Meridionali, e l’Impero Giapponese, che all’inizio del luglio 1942 aveva cominciato a costruirvi sulla costa nord una pista aerea.
Questo evento rappresentò la prima grande offensiva lanciata dagli Alleati contro il Giappone, che fino ad allora aveva mantenuto l’iniziativa bellica.
Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.
La follia
La sottile linea rossa può essere letto su tre livelli.
Il livello più semplice, più immediato, è la follia: la follia del potere, della conquista, della vittoria, del racconto degli eroi.
La follia è quella del Colonnello Tall, che vive nel sogno di una vittoria senza sangue, una vittoria di eroi, una rivalsa, del tutto cieco davanti alla realtà della guerra umana che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi.
Lo testimonia l’acceso confronto con Taros, in cui Tall richiede l’attacco diretto al bunker, in cui proprio si dimostra ignaro della pericolosità dell’impresa, che porterebbe non ad una vittoria, ma ad un suicidio collettivo.
La sua follia è dettata anche da una incontenibile fretta, forse per la paura di risvegliarsi lui stesso da quel sogno di gloria inconsistente di cui si nutre, arrivando persino a mettere da parte i più basilari bisogni umani – l’acqua – pur di vincere.
Infatti, per sua stessa ammissione, sono ben quindici anni che viene preparato a questa guerra, nascendo probabilmente nell’ombra e nel sogno del primo conflitto mondiale, senza aver ancora avuto la sua occasione per dimostrare il suo valore.
Proprio per questo sceglie di sollevare Taros dal compito: se Tall parla di quanti uomini si devono sacrificare per raggiungere la vittoria, Taros invece vuole preservare se non la vita, quantomeno la dignità dei suoi soldati, dei suoi figli.
Più in generale, il personaggio di Tall rappresenta come il potere politico e militare riesca a distruggere un uomo che poteva dare amore al suo prossimo, ma che invece è stato deumanizzato dal potere politico militare:
La carne
Il secondo livello è la carne.
La sottile linea rossa ci mette costantemente davanti alla realtà del fronte, con lo sguardo registico che ci permette di sentirci accanto a questi soldati sperduti, disperati, sempre ad un passo dalla morte.
Nessuno di loro riesce infatti mai a vivere il sogno della guerra, ritrovandosi invece spesso ad interrogarsi sulle sue stesse dinamiche, sul destino guidato non dall’eroismo, non dalle capacità del singolo, ma unicamente dalla pura fortuna di riuscire a non mettere il piede in fallo.
Così vediamo in scena soldati che piangono davanti all’atto peggiore di tutti – l’omicidio – mai sentendosi glorificati dallo stesso, ma piuttosto cercando di sostenersi anche negli ultimi momenti, anche solo per non morire soli…
Il pensiero più cinico è rappresentato dal personaggio di Sean Penn, Welsh.
Nei diversi monologhi e soprattutto all’interno degli scambi con Witt, Welsh racconta tutta la sua amarezza e il suo disfattismo, negando l’importanza dell’individuo, e scegliendo invece di barricarsi dietro ad un nichilismo che lo protegge da una realtà altrimenti insopportabile.
Il suo personaggio ha così accettato un destino di morte e sofferenza, in un mondo devastato dalla follia dell’uomo stesso, negando l’esistenza di una redenzione, di un mondo altro, di una scintilla che possa salvarlo.
Per questo, al funerale di Welsh, si chiede:
Consapevole che l’ultima luce di speranza che poteva animare il suo animo è ormai andata perduta…
La sottile linea rossa giapponesi
Anche il nemico è carne.
L’ultimo barlume del sogno del riscatto eroico si infrange quando infine i soldati si trovano davvero davanti a quel terribile nemico, conoscendo invece nient’altro che un uomo con la divisa di un altro colore.
I soldati giapponesi sono infatti solo un gruppo di disperati, costretti a battersi, ad uccidere fino ad arrivare persino alla follia, in un incubo di incomunicabilità che porta solo a riflettere ancora più profondamente sull’origine di questo grande male, che affligge l’uomo di ogni colore.
Il sogno
L’ultimo livello, quello più profondo, è il sogno.
L’esperienza della guerra porta con sé la riflessione e l’evasione, la ricerca di un significato di una dinamica incomprensibile: da dove viene questo grande male che affligge il mondo, chi lo sta causando, chi ci sta uccidendo?
La risposta, semplicemente, è l’uomo.
L’uomo è artefice della sua distruzione, l’uomo si nasconde dietro ad un sogno di gloria per giustificare un atto altrimenti ingiustificabile, per legittimare un mondo senza legge e senza morale, carne contro carne.
Ma esiste una via d’evasione.
A contrapporsi al grande male vi è una forza ancora più inscalfibile: l’amore.
Per tutta la pellicola Bell si rifugia nel sogno della quotidianità e di quella semplice felicità casalinga che ha potuto vivere con la moglie, sicuro di poter contare su quel sentimento, quella fiamma che nessuno – nemmeno la guerra – potrà mai spegnere.
E invece la guerra è tanto distruttiva da recidere anche quell’unico legame con quella realtà altra, la realtà della redenzione e della piccola felicità terrena, persa nel peso della solitudine, della lontananza, dissolta in un ricordo ormai troppo flebile.
La sottile linea rossa Witt
Infine, la vera evasione è quella di Witt.
Witt è l’unico che veramente riesce a sconfiggere il grande male, che riesce continuamente a vedere al di là dello stesso, ad essere sicuro della possibilità di un mondo altro, del riscatto morale dell’uomo persino all’interno del conflitto.
Per questo si nutre di quell’apparente paradiso terrestre – il villaggio locale – per questo continua ad osservare il nemico con curiosità e benevolenza, scegliendo una visione panpsichista del mondo, dell’armonia col naturale e della fratellanza universale degli uomini.
E proprio quando quel sogno si spezza, quando vede la realtà del villaggio molto più dura e meno idilliaca di quanto ricordava, proprio a quel punto sceglie di uscire di scena, di sacrificare la sua vita per il compagno, e di farsi uccidere dal soldato giapponese…
…nonostante l’uomo lo pregasse del contrario:
In questo modo Witt non muore, ma di fatto rinasce, si congeda dal terribile mondo umano in cui ormai non si riconosce più, e sceglie invece di abbracciare l’armonia naturale che sempre faceva da contorno persino ad un panorama di morte così desolante.