Persona (1966) di Ingmar Bergman, con protagoniste Bibi Andersson e Liv Ullmann, è una delle opere più profondamente sperimentali della produzione dell’autore svedese.
A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – incassò circa 90 mila dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla Persona?
Elisabeth Vogler è un’attrice che ha smesso improvvisamente di parlare. In compagnia della piuttosto loquace Alma, passa diversi giorni in una casa sul mare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Persona?
Assolutamente sì.
Per quanto rispetto ai suoi precedenti prodotti – nello specifico Il settimo sigillo (1957) – Persona manchi totalmente dell’elemento ironico, non manca della regia precisa ed elegante che caratterizza ogni film di Bergman.
In questo caso il regista si imbarca in un progetto incredibilmente sperimentale, impreziosito da una simbologia piuttosto complessa e intraprendente, che ragiona sui temi dell’io, della famiglia e della nascita.
Insomma, da non perdere.
Idolatria
La sequenza del figlio raccoglie in realtà una delle tematiche più viscerali della filmografia di Bergman.
La ricerca di Dio.
In nuce, la totale mancanza di identità sia del personaggio che dell’ambiente che lo circonda, eppure la ricerca quasi idolatrica dell’immagine divina – la Madre, la Creatrice – non allontana questo bambino dallo struggimento dal protagonista della sua opera più famosa: Antonius Block.
Un tema che ben si incasella nell’identità stessa del film, nella sua ricerca dell’io e dell’autodefinizione, in questo caso ricercata in una figura sempre più profondamente incomunicante: la madre.
Una scena tanto più dolorosa quando si arriva all’atto finale, alla rivelazione di questa maternità non voluta, eppure presente e ineluttabile, che porta Elisabeth ad essere, proprio come Dio, totalmente assente dalla vita del figlio.
Persona
Elisabeth non è più una persona.
Sul palco, proprio quando era nei panni di un’eroina tragica, la protagonista si dissocia prima dal suo personaggio – la dramatis persona – con un’azione del tutto fuori contesto – la risata – poi da sé stessa, calando in un intenzionale mutismo.
In questa afasia programmatica Elisabeth è passata dall’essere un’attrice, un personaggio del mondo, ad una osservatrice dello stesso, intenta a studiare un’altra figura piuttosto attraente: Alma.
Con la sua condizione, la protagonista diventa infatti l’ascoltatrice perfetta per i profondi drammi interiori della sua compagna, la quale, proprio nell’essere così libera e aperta nel parlare, svela anche l’insvelabile.
Ma già nelle sue parole la dinamica del suo rapporto con Elisabeth è lampante.
Divorare
La donna si dilunga nel raccontare esperienze sessuali travolgenti, andando a mettere l’accento proprio sull’atto penetrativo, di apertura e fusione dei corpi ripetuta e ricercata, che racconta indirettamente la stessa dinamica in atto con Elisabeth.
Si accenna anche al tema della maternità, intesa in questo frangente come nascita di un corpo da un altro, proprio in scene in cui le due donne sembrano non solo sovrapporsi, ma proprio unirsi per creare una creatura nuova di zecca.
Infatti, Elisabeth vuole divorare Alma.
La progressiva sovrapposizione delle loro identità è raccontata già solo dalle splendide e simmetriche inquadrature di Bergman, in cui spesso i visi si sovrappongono, si tagliano, si annullano l’un l’altro.
Emblematico anche il primario utilizzo del bianco, come se entrambe le protagoniste fossero personaggi ancora da scrivere: in particolare Alma sembra uno spettro, che splende nella notte col volto pallido, oscurato solo dal corpo della stessa compagna.
Tradimento
Il tradimento di Elisabeth ha due significati.
Ad un livello strettamente narrativo, rappresenta il risveglio dal sogno.
Leggendo la cinica e analitica lettera di quella che credeva ormai essere diventata la sua confidente – e potenziale amante? – Alma si risveglia improvvisamente dal torpore onirico con cui si era lasciata sedurre.
Questo svelamento si inserisce anche nel contesto simbolico della narrazione, in cui Alma è come se vedesse sé stessa – o quella parte di sé stessa che non voleva vedere – scritta su un foglio come il personaggio di una storia.
Al contempo, comprende la natura divorante di Elisabeth – che non a caso comincia a vestire di nero, il colore che assorbe tutti gli altri – e di come per lei sia solo uno strumento per riavvicinarsi al suo io.
Identità
Gli ultimi momenti della pellicola rappresentano la definizione.
Alma, proprio quando si accorge sempre di più di star perdendo la sua identità, facendola invece coincidere con quella di Elisabeth, esce dal personaggio e torna in un’altra veste: l’infermiera curante della protagonista.
E proprio in questa parte, ripaga la donna con la sua stessa moneta: prima la definisce malignamente con le più drammatiche e oscure verità del suo essere, poi la attrae e, quando questa cerca ancora di nutrirsi di un io che non è il suo, la punisce fisicamente.
Infine, avviene l’annullamento.
Rivediamo Alma curare Elisabeth in un contesto nuovamente dominato dal candore del bianco, che in questa sequenza rappresenta il nulla, secondo le stesse parole che l’infermiera fa ripetere alla paziente, in un’azione definitivamente spersonalizzante.
A questo si aggiunge l’accenno metanarrativo: le due donne fanno i bagagli e disfano la scena, che appare ora come un palcoscenico, un set di uno spettacolo che era in corso e che ora si è concluso…
…con l’ultima inquadratura che chiude sul figlio di Elisabeth ancora alla ricerca di un personaggio che, forse, non è mai esistito.