Radio Days (1987) è un film meno conosciuto della filmografia di Woody Allen, ma anche fra i più apprezzati della sua produzione.
Con un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari, circa 43 oggi – fu un flop commerciale, incassando meno delle spese di produzione.
Di cosa parla Radio Days?
Con questa pellicola Woody Allen ripercorre i ricordi della sua infanzia negli Anni Quaranta, gli anni d’oro della radio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Radio Days?
In generale, sì.
Anche se magari non è l’opera più indimenticabile della filmografia di Woody Allen, nella sua produzione di fine secolo è quella che ho preferito.
Fra le varie pellicole che mischiano la comicità al dramma, Radio Days sceglie di puntare unicamente sul lato comico, anche quello più apertamente surreale della sua prima produzione, che in questo caso funziona particolarmente bene.
Tuttavia, non manca neanche un lato più malinconico e nostalgico…
La radio che unisce
Radio Days è una collezione di episodi e gag comiche, tutte unite da un unico elemento: la radio.
Woody Allen ci immerge in un passato piuttosto remoto – anche per il periodo in cui il film arrivò in sala – in cui i programmi radiofonici anticiparono quello che poi sarà il ruolo della TV: un momento di incontro e di identificazione.
Infatti, ogni membro della famiglia può trovare un riconoscimento in una delle tante proposte del palinsesto, che permettono di evadere dalla quotidianità e sognare oltre i limiti della realtà più terrena e drammatica…
Una risata ci seppellirà
Ma Radio Days non racconta solo situazioni comiche.
Molte delle storie in scena hanno dei sottofondi drammatici non indifferenti, che vengono però stemperati da una commedia che molto spesso gioca con l’assurdo, e che mi ha ricordato il precedente Prendi i soldi e scappa (1969).
Personalmente la mia scena preferita è quella dello zio Abe che si va a lamentare coi vicini comunisti, diventandolo a sua volta, ma anche la gag iniziale con i due ladri che partecipano al programma radiofonico è particolarmente gustosa.
In questo senso ho trovato l’utilizzo dell’umorismo non vincolato ad un solo personaggio come nel successivo Crimini e misfatti (1989), ma distribuito su più figure e momenti, la scelta più funzionale anche per la riuscita della comicità stessa.
La drammaticità di fondo
Come detto, non mancano i momenti più drammatici, anche se ben dosati.
La storia forse più triste è quella della zia Bea, che rincorre il sogno del matrimonio e della costruzione della famiglia, non riuscendo però a raggiungerlo per i molti appuntamenti sfortunati e per la sua incapacità di adattarsi.
E proprio dell’adattarsi parlano molti dei personaggi femminili in scena, che si trovano costretti all’interno di situazioni matrimoniali non sempre ottimali, per cui ammettono loro stesse di aver dovuto fare dei compromessi.
Ma il momento più drammatico, profondamente malinconico e che racchiude il significato più personale dell’opera, è la chiusura della pellicola: un momento di festa, particolarmente allegro e che guarda al futuro…
…ma al contempo un’occasione particolarmente mesta per riflettere sul tempo che avanza e sul valore del ricordo: se i personaggi in scena temono di essere dimenticati e quindi di scomparire, lo stesso narratore ammette che ogni anno le loro voci si fanno sempre più flebili e lontane…