She said (2022) di Maria Schrader, basato sul romanzo omonimo di Jodi Kantor e Megan Twohey, racconta l’inchiesta del New York Times in riferimento alle numerose accuse di violenza sessuale ai danni di Harvey Weinstein.
Un film non solo necessario, ma anche ottimamente messo in scena.
A fronte di un budget abbastanza contenuto di 32 milioni di dollari, si sta rivelando – come purtroppo prevedibile – un flop commerciale, con appena 12 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.
Di cosa parla She said?
Le due giornaliste d’inchiesta Jodi Kantor e Megan Twohey intraprendono un’importante investigazione sui presunti abusi ad opera di Harvey Weinstein. Un’inchiesta che portò una rivoluzione inimmaginabile…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere She said?
Assolutamente sì.
She said è un film importante e necessario, che riesce anche meglio di prodotti analoghi – come per esempio il recente Bombshell (2019) – a raccontare una storia che ha sconvolto – si spera – per sempre il mondo dello show business.
Due attrici ottime sotto la direzione di un’ottima regista, Maria Schrader, che già si era occupata di quel piccolo successo che era stato al tempo Unorthodox (2020). Pochi tocchi e scelte indovinate che riesco a non ridurre il prodotto ad una pellicola puramente scandalistica.
Insomma, da non perdere.
Cosa significa il titolo di She said?
Il titolo originale, She said, è stato purtroppo tradotto in italiano in maniera piuttosto infelice: Anche io, in riferimento al movimento MeToo, che però non è mai citato nel film e che nacque solo in conseguenza a questo e altri casi analoghi.
Il titolo originale fa riferimento ad un’espressione giuridica: he said, she said, che indica un caso in cui sono coinvolte due persone – solitamente uomo e donna – e ognuno presenta la sua versione dei fatti.
E non ci sono testimoni.
Un ritmo incalzante, una gestione ottima
Un aspetto che ho molto apprezzato della pellicola è il suo ritmo estremamente incalzante, che ben racconta la frenesia delle giornaliste nel seguire il caso, dovendo scontrarsi con moltissime porte chiuse e accordi mancati.
Tuttavia non mancano anche i momenti più rallentati, in cui si lascia lo spazio alla narrazione delle vittime, in cui ben si racconta l’ottimo lavoro che fecero queste due donne nel gestire una situazione molto delicata.
Infatti, mai le due si pongono in maniera impositiva nei confronti delle vittime, anzi si interrogano continuamente su come comportarsi. Un elemento molto importante, che distinse questa inchiesta da un semplice scandalo da tabloid – come raccontato nella pellicola stessa.
E non è neanche l’unico elemento di interesse in questo senso.
Il dramma senza drama
A differenza appunto di Bombshell, ho molto apprezzato la gestione del racconto degli abusi delle vittime. Per la maggior parte le stesse non sono per nulla messe in scena, ma solo raccontate. Solo per un paio si sceglie di utilizzare la voce fuori campo delle vittime, e lasciare che gli ambienti parlino da sé.
Secondo me una scelta che riesce bene a trasmettere le giuste emozioni e farti immergere nel racconto.
E al contempo si è serenamente evitato di mettere in scena gli abusi stessi, come era stato fatto appunto in Bombshell, evitando di drammatizzare eccessivamente delle storie già piuttosto angoscianti e cadere così nel cattivo gusto.
Secondo la stessa linea, si è scelto di non sbattere il mostro in prima pagina, non inquadrando mai l’interprete di Weinstain.
Una storia per tutti
Un’altra ottima scelta della pellicola è quella di raccontare come fossero tutti coinvolti nella storia, per un caso che è stato estremamente intergenerazionale e, sopratutto, non solamente una storia di donne.
Una rappresentazione incredibilmente importante, per mostrare come queste situazioni siano un affare di tutti.
In questo senso è stato dato un ottimo spazio e un’ottima rappresentazione di Dean Baquet, il caporedattore, che non solo sostiene le sue giornaliste nel caso, ma che neanche per un momento si lascia corrompere da Weinstein – nonostante le chiamate minatorie – e usa tutta la sua autorità per proteggerle da eventuali abusi, che evidentemente erano dietro l’angolo.
Facili trigger emotivi
Una critica che potrebbe essere mossa al film è il fatto che si punti tanto sui dolori personali e familiari delle due protagoniste, senza che – forse – ce ne fosse il bisogno.
Personalmente la rappresentazione di questa parte della loro vita non l’ho trovata mai smaccata, anzi ben bilanciata nei ruoli di genere all’interno della famiglia. Probabilmente è presente anche un piccolo accenno alla depressione post-partum: per tutta la pellicola, fino ad una delle scene finali, Megan non tiene mai in braccio sua figlia.
Era necessario?
A livello narrativo, non strettamente. Tuttavia, trovo che siano stati dei trigger emotivi semplici e in qualche modo necessari per coinvolgere lo spettatore medio in una storia che possa sentire come vicina.
Altrimenti, secondo me, togliendo queste parti il film sarebbe apparso molto più freddo e quasi un documentario – complice anche il tipo di regia utilizzata.
Nota a margine: ho potuto visionare il libro da cui è tratto il film, scritto dalle due giornaliste (Anche io. Il caso che ha dato inizio al movimento #MeToo, Vallardi, 2023). Non ho avuto il tempo per leggerlo per intero, quindi ho solo fatto una ricerca delle parole chiave per questo argomento e da quello che ho trovato si parla abbastanza genericamente del rapporto che le due avevano con la famiglia. Significa che è tutto inventato? Ad oggi non posso saperlo e mi rimetto a chi ha letto effettivamente l’opera.