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Le riflessioni del cinema semplice

Alla ricerca dell’originalità perduta

Un argomento che non ho mai potuto sopportare quando si giudica un film è l’idea di sminuirlo perché non è niente di originale o di nuovo.

E in questa riflessione vi dimostrerò come l’originalità sia morta da tempo.

E sono più di cent’anni

Il cinema nasce nel 1895.

Da quel fatidico anno è passato più di un secolo e il cinema, sia quello più autoriale, sia quello più commerciale, si è evoluto costantemente, sia per cambi di passo fondamentali – come la nascita del sonoro o del cinema a colori – sia per le varie mode che si sono avvicendate sullo schermo.

Ma, proprio come una qualsiasi forma d’arte, anche il cinema è incredibilmente derivativo.

Non ci credete?

Uno dei fiori all’occhiello della filmografia di Steven Spielberg è Schindler’s List (1993), uno dei film più apprezzati a tema Olocausto. E il segno distintivo della pellicola, che ha anche un valore narrativo fondamentale, è la bambina con il cappotto rosso:

Ma Spielberg non si è inventato nulla.

Questa tecnica era già utilizzata quasi un secolo prima in uno dei classici del cosiddetto cinema delle origini, ovvero La grande rapina al treno (1903):

Un altro esempio significativo è il finale di Terminator (1984), che da solo rende questa pellicola un capitolo fondamentale per il genere fantascientifico:

La stessa scena è un richiamo evidente ad un classico della fantascienza di più di dieci anni prima, Westworld (1973):

Da citare anche una scena che è entrata nella storia del cinema, ovvero la splendida sequenza di Shining (1980) in cui un Jack Torrance, ormai totalmente impazzito, distrugge la porta del bagno in cui è nascosta Wendy a colpi di ascia:

La stessa è incredibilmente simile ad un film sempre del cinema muto, ovvero Il carretto fantasma (1921):

In ultimo, una citazione molto vociferata, ma mai confermata, è l’incredibile somiglianza fra le due scene nel corridoio di Inception (2010) e Paprika (2006):

Vivere di citazioni

La critica all’originalità è spesso dimenticata quando si parla di grandi registi che vivono di citazioni.

Uno dei casi più emblematici è Tarantino, il quale, nonostante sia un autore con un’impronta registica particolarmente riconoscibile, è per sua stessa ammissione un grande estimatore degli spaghetti western, che cita spesso e volentieri.

Un esempio evidente è la scena de Le Iene (1992) in cui i tre personaggi in scena si puntano addosso le pistole:

Inquadratura che richiama da vicino la scena analoga di Il buono, il brutto e il cattivo (1966):

Allo stesso modo l’incedere di Beatrix in Kill Bill Vol. 1 (2003)

è un’evidente citazione a C’era una volta il West (1968):

Senza contare che quest’ultima opera di Sergio Leone è citata esplicitamente nel titolo del nono film di Tarantino, C’era una volta ad Hollywood (2019).

E in questi casi non possiamo certo dire che Tarantino abbia copiato Sergio Leone, ma che piuttosto abbia scelto di celebrare uno dei più grandi autori del cinema italiano (e non solo) tramite delle citazioni visive.

E questo è proprio il punto.

Citazionismo e rielaborazione

Esiste una differenza fondamentale fra il puro citazionismo e la rielaborazione.

Ad esempio, in Babylon (2022) Damien Chazelle sostanzialmente riscrive il classico del cinema Singing in the rain (1952), portando una rielaborazione interessante che rende la storia molto più cinica e realistica.

Al contrario, in un film piuttosto ignobile come Gifted (2017), non si cita, ma piuttosto si ricicla l’iconica scena di Matilda (1996) in cui la protagonista dimostra di saper fare incredibili conti matematici totalmente a mente:

La differenza fondamentale è che nel primo caso Chazelle è stato capace di riportare in scena con rispetto e originalità un classico del cinema, dimostrando il suo amore per lo stesso, ma al contempo creando un’opera originale e con una significativa impronta registica.

Al contrario, nel secondo caso si parla di un prodotto capace solo di riciclare dinamiche che hanno già dimostrato di avere impatto sul pubblico – il classico usato sicuronon portando un risultato di valore: in questo caso, criticarne la poca originalità è doveroso.

Ma non è finita qui.

Essere originali è un valore?

Arriviamo a questo punto al cuore della questione.

Essere originali è un valore?

Sì e no.

Cercare nuovi tagli narrativi, nuovi modi di raccontare una storia quanto soluzioni tecniche sperimentali è sicuramente un merito.

Un esempio molto banale è Oppenheimer (2023): a fronte di grandi produzioni che utilizzano sempre più massicciamente la CGI, Nolan ha scelto di essere più creativo ed utilizzare soluzioni visive di più complessa realizzazione, ma di maggiore impatto.

Più in piccolo, Matt Reeves è riuscito con il suo The Batman (2022) a riportare in scena l’uomo pipistrello in maniera originale, pur molto derivativa dalla trilogia di Nolan, uno spartiacque fondamentale nel cinema supereroistico.

Ma, più generalmente parlando, a mio parere sarebbe più corretto giudicare un film per quello che è.

E per due motivi.

Anzitutto, perché il valore di un’opera a livello di importanza storica o di originalità si giudica più sul lungo periodo, e non è detto che la stessa sia ricordata adeguatamente nel tempo – è il caso della maggior parte dei film di cui abbiamo parlato.

Ma, soprattutto, una pellicola va giudicata principalmente per i meriti propri, per i risultati che è riuscito a raggiungere, e su più livelli – scrittura, interpretazione, messinscena – in quanto negli stessi risiede il cuore dell’opera, e quindi il valore della stessa.

E, come abbiamo visto, sequenze diventate iconiche o considerate incredibilmente originalinon lo erano affatto!

In coda vi lascio altri paragoni interessanti.

Blade Runner (1982) – Metropolis (1927)
Una nuova speranza (1977) – La fortezza nascosta (1958)
La mala ordina (1972) – Pulp Fiction (1994)
La sfida del samurai (1961) – Per un pugno di dollari (1964)